Octavia Butler: oltre la fantascienza e l’afro-futurismo

In libreria “La sera, il giorno e la notte” di Octavia E. Butler, autrice afroamericana di fantascienza e fantasy da riscoprire.

Fabrizio Melodia e Daniele Barbieri

Arriva in libreria «La sera, il giorno e la notte», un’ottima raccolta di Octavia E. Butler (1947-2006), autrice di fantascienza e fantasy, la prima afroamericana a “sfondare” in un mondo maschio wasp. Sette racconti (due inediti) e due saggi con riflessioni illuminanti.

«La verità è che odio scrivere racconti. Provarci mi ha insegnato più cose di quante ne volessi sapere sul senso di frustrazione e disperazione» spiega Butler nella prefazione. Le sue storie brevi spesso sono tracce per romanzi non realizzati, tentativi più o meno sospesi eppure compiuti e intriganti agli occhi di chi legge.

Butler si definiva una pensatrice lenta e ponderata, che dava il meglio sulle lunghe distanze. Per lei tutto è stato difficile, iniziando dalla scuola dove i professori mal tolleravano il fantastico che la ragazza proponeva nelle sue scritture. Troppo donna e troppo nera? Forse. Di sicuro troppo avanti nei tempi (ma cos’è il genere e perché dovremmo occuparcene?) e troppo dura nel linguaggio.

È un libro multiforme «La sera, il giorno e la notte» con scritti ripescati dal 1971 al 2003 e che viene indicato dal New York Times come miglior libro dell’anno. Da noi lo pubblica BigSur (220 pagine per 17 euro) con la pregevole e calda traduzione di Veronica Raimo.

Il fantastico e il quotidiano, personaggi veri, carne e sangue, dove l’utopia per qualcuno diventa l’inferno per l’altro. Già dai primi 5 racconti di questa raccolta si capisce quanto lei fosse avanti.

Nel primo c’è un alieno a sette zampe che impianta le uova all’interno di un corpo maschile ma alla Butler interessa soprattutto esplorare le reazioni di un uomo che si scopre incinto, un ragazzo che assorbe verità disturbanti e dovrà prendere decisioni difficilissime.

«Una specie di famiglia» nasce invece dalle letture bibliche della scrittrice, in particolar modo sul tema dell’incesto: le figlie di Lot, la sorella-moglie di Abramo, e i figli di Adamo con le figlie di Eva… cioè le pagine che scompaiono nel Vecchio Testamento versione “per benpensanti”.

Il racconto «Fonemi» fu concepito in un periodo di depressione ed è dedicato a una amica morta per tumore. Butler s’interroga se la razza umana riuscirà a comunicare senza violenza. Da questa eterna domanda prende avvio il racconto dove gli esseri umani hanno perso completamente l’uso del linguaggio verbale.

In «Deviazioni», che chiude la cinquina, irrompe l’alienazione causata da lavori massacranti e spersonalizzanti; una situazione che l’autrice aveva conosciuto durante i frequenti impieghi precari che faceva per arrivare a fine mese. Diceva spesso che la scrittura l’aveva salvata dalla follia verso cui nutriva profonda paura.

«Aministia» – uno dei due inediti – fu ispirato a Butler dalle vicende di Wen Ho Lee, lo scienziato taiwanese-americano accusato di essere una spia (e poi assolto): è la vicenda di una persona a cui tolgono reputazione, lavoro, amicizie, famiglia… senza prove tangibili.

Nell’altro inedito – «Il libro di Martha» – c’è il dialogo di Martha Bes nientemeno che con Dio: il padreterno chiede alla poveretta di realizzare un’utopia che vada bene per tutti. Non una cosetta da poco.

Domande scottanti nei due saggi. «Che senso ha la riflessione della fantascienza sul presente, il futuro e il passato? Che senso ha la sua tendenza ad ammonire o considerare modi alternativi di pensare e agire? Che senso ha la sua analisi delle possibili conseguenze della scienza e della tecnologia, o dell’organizzazione sociale e degli orientamenti politici? Nella migliore delle ipotesi, la fantascienza stimola l’immaginazione e la creatività» ma che senso ha – si chiede la scrittrice in «Ossessione positiva» – per le persone “qualsiasi”?

Il breve «Furor scribendi» nasce invece come discorso a giovani scrittori: «dimenticatevi il talento. Se ce l’avete tanto meglio. Sfruttatelo. Se non ce l’avete, non importa. Come l’abitudine è più affidabile dell’ispirazione, un processo continuativo di apprendimento è più affidabile del talento. Fate in modo che l’orgoglio o la pigrizia non vi impediscano di continuare a imparare, migliorare il vostro lavoro, cambiare direzione se necessario. La perseveranza è necessaria per qualsiasi persona che vuole scrivere».

LA MORTE PREMAURA E LA RISCOPERTA

Solo negli ultimi anni il nome di Octavia Butler ha avuto in Italia un po’ del rilievo che avrebbe meritato da subito. Il merito non è tanto delle case editrici che l’hanno riproposta quanto del passaparola fra lettori e (soprattutto) lettrici da un lato e dall’altro l’eco del movimento definito afrofuturismo che negli Usa riconosce in lei uno dei punti di riferimento. Per dirla in due parole, con afrofuturismo si fa riferimento a una corrente letteraria, musicale e di arti visive che immagina un futuro dove le persone e le culture definite nere (o marroni) sono al centro.

Eppure, ben prima dell’Afrofuturismo, almeno tre libri – tradotti in italiano decenni fa – avrebbero potuto mettere sull’avviso che dalle parti della letteratura fantastica era arrivata una nuova grande scrittrice; avrebbero potuto… se da noi non pesasse un antico pregiudizio contro la letteratura che viene chiamata fantascienza.

Il primo è lo splendido romanzo «Legami di sangue» (negli Usa uscì nel 1979) che nell’agosto ‘94 impressionò solo le poche persone che leggono Urania. Per fortuna l’editrice Le Lettere lo ha poi riproposto, in una nuova traduzione e con l’intelligente postfazione di Maria Giulia Fabi. Octavia Butler lì ha osato – e non era facile pensarci e riuscirci – scrivere sulla schiavitù ma soprattutto portare avanti un’indagine esistenziale su come vengono educati i carnefici (compresi quelli più miti, o che tali si considerano) e le vittime, persino sul paradossale “senso di colpa” di queste ultime quando si trovano in una condizione degradante, disperata, subumana.

Ma «Legami di sangue» è anche uno scavo su quello che del rapporto oppressori-oppressi attraversa il tempo – e qui non siamo più nell’invenzione letteraria – ovvero su ciò che oggi sopravvive di catene, frustate, umiliazioni mai risarcite (ammesso che sia possibile) neppure a parole. Significativamente la protagonista riesce a tornare nel suo tempo proprio il 4 luglio 1976, quando gli Usa festeggiano il bi-centenario della Dichiarazione d’indipendenza, cioè la libertà, dimenticando completamente la successiva lunga schiavitù dei neri.

A spiegare perché «Legami da sangue» da noi apparve in una collana di fantascienza non è tanto l’appiglio dei “viaggi nel tempo” quanto che Octavia Estella Butler aveva pubblicato molte opere classificabili come science fiction o fantasy. A partire dallo straordinario «Ultima genesi» che uscì nel 1987 sempre su Urania: era in realtà il primo di una trilogia ma gli editori italiani lasciarono perdere, come accadde per altri suoi testi di Octavia disordinatamente tradotti e pubblicati in sordina, ignorando che erano inseriti in cicli con una precisa cronologia.

L’idea-base di «Ultima genesi» era affascinante e inquietante: la xenogenesi cioè la nascita di una nuova razza dalla fusione dei terrestri con gli alieni che li hanno strappati – ormai poche persone, moribonde – al gelido «inverno nucleare». Protagonista è Lilith (un nome significativo che rimanda alla Eva ribelle dei miti originari) che un tempo – quando ancora esisteva la Terra – era una statunitense “di colore”: lo scriverà, ma per inciso come se non avesse importanza, l’autrice che era appunto afroamericana, dunque minoranza nella minoranza anche nella science fiction.

Gli alieni sveleranno a Lilith di essere affascinati dai terrestri ma turbati da «due caratteristiche incompatibili»: la prima è «l’intelligenza, la caratteristica più recente che avreste potuto usare per salvarvi dalla guerra atomica» mentre la seconda è una «struttura gerarchica» primitiva e pericolosa. Gli alieni non sono astratti studiosi: ciò che chiedono ai terrestri è di prestarsi a uno scambio genetico, un incrocio razziale (e stavolta senza virgolette). E qui bisogna fermarsi non solo per evitare lo spoiler ma perché la trama è davvero complessa.

Analoghe indifferenze accompagnarono anche «Seme selvaggio» (che uscì nel 1991 da Interno Giallo) eppure – a parte la splendida scrittura – era il primo romanzo dalle parti della fantascienza a prendere le mosse in un’ambientazione africana mettendo al centro schiavismo, colonialismo, distruzione di interi popoli ma raccontandolo con lo sguardo delle vittime e dei capi tribù.

Per quel che le etichette valgono – poco cioè – quasi tutte le storie di Octavia Butler oscillano fra il genere utopico o distopico con agganci nel fantasy e nella fantascienza ma con evidenti riferimenti al mondo reale. Che voli avanti nel futuro o indietro nel passato, spesso ha voluto mostrarci le ferite del razzismo che ha molte facce, antiche e moderne. Vederle è anche un modo per guarirle. E per saperne riconoscere i segni nel presente.

Tutto questo con personaggi memorabili e uno stile prezioso. Insomma è il momento di riscoprire davvero Octavia Butler. E di godere delle sue storie, oltre la gabbia delle etichette.



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