25 Aprile, Portelli: “Chi non si riconosce nei valori antifascisti se ne resti pure a casa”

Intervista a Alessandro Portelli, che invita alla lotta contro l’attuale fascismo incarnato dalle democrazie autoritarie e illiberali.

Fabio Bartoli

Il 25 aprile nella storia del nostro Paese è stata una celebrazione spesso divisiva, poiché non tutti i suoi ceti politici e corpi elettorali hanno preso una radicale e definitiva distanza dall’esperienza fascista. Come se non bastasse, quest’anno si va incontro alla prima Festa della Liberazione che vede al governo un partito di maggioranza che non ha mai condannato davvero il Ventennio, a cui anzi rimane profondamente legato. Ne abbiamo parlato con lo storico Alessandro Portelli, il quale, anziché fare appelli per una annacquata e sbiadita unità nazionale, invita a mantenere nette e chiare le contrapposizioni chiamando alla lotta contro l’attuale fascismo incarnato dalle democrazie autoritarie e illiberali.

Prof. Portelli, il 25 aprile, festa che dovrebbe essere celebrata da tutti gli italiani, nella storia repubblicana è stata invece spesso una festa non condivisa da una parte del corpo politico e sociale del nostro Paese. Quanto rischia di allargarsi ulteriormente la frattura su questo tema quest’anno, in cui per la prima volta il partito di maggioranza al governo è un partito che solo formalmente e in tempi recenti, in modo strumentale, ha dichiarato la sua presa di distanza dall’esperienza fascista?
Io in realtà spero che si allarghi, che sia sempre più chiara l’incompatibilità tra la democrazia e chi ancora coltiva nostalgie fasciste. Se c’è un ceto politico e un corpo elettorale che non si separano dall’esperienza fascista è bene che restino a casa e non generino malintesi. D’altronde tutte le celebrazioni sono divisive: pure il Natale, la festa in cui tutti sono più buoni, lo è, non essendo appannaggio di atei, musulmani ed ebrei. Il 25 aprile non può essere quindi la festa di chi rimpiange il fascismo e cesserà di essere una celebrazione divisiva quando i valori che ne sono a fondamento saranno accettati e fatti propri da tutta la popolazione.

Quanto è importante ribadire l’importanza fondamentale dell’antifascismo oggi, in un’epoca in cui si tende ad annacquare questo elemento fondante della nostra Costituzione e della nostra storia repubblicana?
A dire il vero, io a volte ho dei dubbi che lo sia realmente. Mi spiego: io ho frequentato tutte le scuole dell’obbligo dal 1946 al 1961 e lì nessuno ha mai fatto menzione dell’antifascismo. Se non se ne parla nemmeno a scuola, l’agenzia di formazione primaria, siamo sicuri che questo sia un valore condiviso e che non rimanga solo tra le pieghe della nostra Costituzione, che così è ridotta a essere soltanto un documento, seppur bellissimo?
Se pensiamo che l’antifascismo sia solo il fondamento di una battaglia sulla memoria ci sbagliamo di grosso, perché così perdiamo la nostra capacità di aderenza al reale e la possibilità di influenzarlo. Le memorie dell’antifascismo, della Resistenza, devono essere uno strumento per interpretare l’oggi!
Sono state dedicate ore e ore di trasmissioni televisive alle parole di Meloni e La Russa a cui anche io ho partecipato ma – per esempio – non si è fatta alcuna menzione alla loro proposta di depenalizzare il reato di tortura. Se vogliamo essere antifascisti oggi dobbiamo batterci contro un potere che pensa che la polizia possa fare il suo lavoro ricorrendo solo alla violenza e che inoltre vuole fare distinzione tra figli legittimi e illegittimi. E io mi chiedo: che cosa è questo se non fascismo? E contro che cosa si combatteva a quel tempo? Solo contro le camicie nere oppure contro una società basata sulla gerarchia e la disuguaglianza? Perché oggi essere antifascisti significa combattere appunto contro questo.

Lei si è occupato molto di storia orale, tramandata quindi da chi ha vissuto determinate esperienze storiche. Quanto la scomparsa in senso biologico della generazione che ha esperito il fascismo può sottrarre linfa vitale alla narrazione antifascista che oggi viene posta sempre più sotto attacco, anche alla luce di una equiparazione tra le due parti in lotta (fascisti e partigiani)?
Personalmente non pongo il discorso sul presente su un piano alternativo rispetto a quello storico. Quella memoria non deve rimanere confinata nel passato, poiché senza di essa è difficile orientarci nel presente. Così come sono rimasti in vita pochissimi testimoni della Shoah, lo stesso vale per i partigiani e questa è una grave perdita morale. Ma questo conferisce sempre più importanza al ruolo di noi storici, a noi spetta far sì che la coscienza critica del passato ci fornisca uno strumento per rapportarci al presente, sempre in modo critico. Chi oggi si occupa di ricerca e comunicazione deve usare gli strumenti di cui dispone per sopperire alla perdita del patrimonio umano e morale costituito dai partigiani in carne e ossa.

A proposito di critica: Lei è anche un critico musicale che ha avuto un ruolo fondamentale nello studio e nella diffusione della canzone di protesta americana in Italia. Quanto e cosa la musica in Italia ha fatto per consolidare le basi democratiche e antifasciste del nostro paese e quanto e cosa può ancora fare?
Beh, anche la musica è un territorio di conflitto, un terreno di scontro. Nel suo libro Storia culturale della canzone italiana Jacopo Tomatis per esempio ci fa notare come i linguaggi della musica leggera sull’emittente statale fossero rimasti identici nel periodo a cavallo della guerra: non c’era differenza nel modo in cui veniva trattata la musica durante il fascismo e negli anni successivi al conflitto mondiale, almeno fino a quando Domenico Modugno non sparigliò tutte le carte con Nel blu dipinto di blu. Nel mentre però la Resistenza – similmente a quanto avvenuto in USA col movimento per i diritti civili – aveva dato vita a un corpus di canti, che prima si proponevano di consolidarne la coesione interna e di trasmetterne i valori per poi essere ripresi e condivisi sul versante della memoria: si pensi all’esperienza dei Cantacronache, dell’etichetta Dischi del Sole o a singoli brani come Oltre il ponte, il cui testo è stato scritto da Italo Calvino.  Ma queste canzoni non passavano in TV e quindi la prima vera esperienza di rottura, di liberazione, è stata quella del rock and roll. In seguito si sono presentati sulla scena musicale alcuni cantautori, come De Gregori e altri, i cui brani hanno rivestito un ruolo anche dal punto di vista della preservazione della memoria storica.
Ma, come dicevo in avvio, la musica è un terreno di scontro e così come c’è il corpus dei canti partigiani ce n’è anche uno fascista, così come c’è un punk di sinistra ce n’è uno fascista. Anche sul versante fascista ci sono inoltre gruppi storici come La compagnia dell’anello. Questo per ribadire che anche dall’altra parte usano la musica dal punto di vista della memoria storica, ma – va sottolineato – con minor successo.

In conclusione, dobbiamo preoccuparci per l’avvento di un nuovo regime autoritario in Italia? Un regime, intendo, non fatto di olio di ricino e manganelli, ma in cui le libertà che riteniamo ormai conquistate possano essere messe in pericolo? Quanto questo 25 aprile allora è importante per allontanare uno spettro del genere?
Mi viene in mente una frase di Cesare Pavese, del 1947, sugli Stati Uniti: «Senza un fascismo a cui opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da incarnare, anche l’America non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura. Senza un pensiero e senza lotta progressista rischierà anzi di darsi essa stessa a un fascismo sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori». Anche noi rischiavo un’involuzione autoritaria fatta in nome della democrazia e dell’Occidente. Mi spiego: in Europa la democrazia non è minacciata in quanto vi è qualcuno che proponga di abolire le elezioni e imporre il partito unico; il rischio però è che l’involucro ne rimanga intatto ma che la sostanza si svuoti poiché si va incontro a una sua graduale riduzione e a un potere sempre più concentrato in poche mani. Questo è quello che sta accadendo per esempio in Polonia e Ungheria – d’altronde il regime di Orbán è quello preso a modello da Fratelli d’Italia. E cosa sta avvenendo da noi? In questo senso vanno il tentativo di trasformare l’Italia da Repubblica parlamentare a presidenziale, la proposta della cosiddetta autonomia differenziata che aumenterebbe il divario tra ricchi e poveri, l’erosione dei diritti di scelta delle donne, l’attacco ai migranti e alle secondo generazioni… Il rischio, quindi, è quello dell’avvento di democrazie illiberali, autoritarie, articolate intorno a principi gerarchici e non di uguaglianza. Andiamo in direzione opposta a quella segnalata dall’Articolo 3 della nostra Costituzione, un articolo bellissimo ma che non viene applicato.

 

Foto tratta da “Alla scoperta del ramo d’ora”, RaiPlay



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