25 novembre: come trasformare la rabbia in lotta?

Cosa si può fare concretamente per trasformare la rabbia delle donne in piazza il 25 novembre, in una lotta che avvicini la società a una effettiva uguaglianza di genere? Negli ultimi decenni i passi avanti giuridici per lo smantellamento formale del patriarcato sono stati importanti, benché lenti e tardivi. Le lotte sociali delle donne portano a un “progresso” nei codici legali che fatica ad essere applicato, essendo il patriarcato ancora vigoroso in tutte le diramazioni dello Stato. Se è vero che la manifestazione di sabato scorso rappresenta un coinvolgimento popolare sul tema sotto certi aspetti senza precedenti, è anche vero che il movimento dovrà interrogarsi sulle profonde divergenze umane e politiche delle persone che han preso parte alla protesta.

Paolo Flores d'Arcais

Cosa si può fare perché una sacrosanta rabbia, che diventa marea di manifestazione in lotta, non venga dissipata ma si trasformi in comportamenti strutturali, legislativi, culturali, di costume, che rendano l’esistenza delle donne sempre più vicina all’ideale di eguaglianza che la Costituzione repubblicana impone?
La Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, individuava tre ambiti di misure con cui combattere “tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”: punire, prevenire, proteggere.
Cosa si può fare, dunque si deve fare, oggi, dopo l’entusiasmo di mezzo milione in piazza, in ciascuno di questi tre ambiti, punire, prevenire, proteggere, visto che gli atti di violenza contro le donne, fino all’omicidio, si moltiplicano anziché ridursi? “Bruceremo tutto”, ripetuto da centinaia di migliaia di donne, può suonare la diana della rivolta che ri-forma, che radicalmente cambia le cose, ma può anche estinguersi nella frustrazione, concludersi nella disperazione. È successo e succede.
Nel dopoguerra, sotto il profilo strettamente legale, i passi avanti nello smantellamento del patriarcato sono stati enormi, benché lenti e tardivi. Nel 1968 viene abrogato dalla cassazione il reato di adulterio (che valeva solo per la donna!). Nel 1970 viene introdotto il divorzio, confermato nel referendum del 1974. Il 19 maggio 1975, con una larghissima maggioranza e con la sola astensione del Movimento Sociale, il Parlamento italiano approva la legge 151 che riforma drasticamente il diritto di famiglia in senso egualitario. Fino ad allora, per capirsi, il marito possedeva la facoltà di fissare la residenza familiare a proprio piacimento, con obbligo della moglie di seguirlo ovunque (art. 144 c.c). Nel 1978 la legge che consente alle donne l’interruzione della gravidanza (con condizioni per altro alquanto restrittive), confermata nel referendum del 1981. Nello stesso anno vengono abrogate le disposizioni sul delitto d’onore, che consentivano tra l’altro l’obbrobrio del “matrimonio riparatore” per il colpevole di stupro.
Questi i faticosi e civilissimi progressi, nel diritto dei codici, frutto di lotte decennali contro la Democrazia cristiana e il partito neofascista. Ma la loro applicazione nella vita reale? Ancor oggi, negli apparati preposti a realizzare la sovranità della legge, lo smantellamento del patriarcato è spesso assai debole e lacunoso. Ci sono agenti di polizia e carabinieri che ancora non capiscono gravità e priorità, ci sono magistrati succubi di attenuanti perfino introvabili. Troppe volte, quasi sempre, si deve scoprire che la vittima aveva già denunciato, che il criminale era già “attenzionato”. E l’arretratezza delle leggi talvolta funziona da alibi. Dunque anche sul piano strettamente legislativo si deve ri-formare qualcosa subito.
Se infatti i maltrattamenti verso una donna sono finalmente procedibili d’ufficio e non più solo a querela, e dunque ogni pubblico ufficiale è tenuto a denunciare ogni caso sospetto, e anche chi opera nella scuola e negli ospedali ecc., nel processo vanno abrogate tutte le attenuanti, che spesso consentono al violento prevaricatore di farla franca, comprese le attenuanti generiche (bizzarria molto italiana), e vanno introdotte le aggravanti della gelosia, della “passione” et similia. Cosa che va contro natura, obietterà qualcuno. Certamente. Ma tutta la cultura è in qualche modo contro natura. Cerca di realizzare una seconda natura. Perché la prima in Homo sapiens non è più cogente come gli istinti nell’animale, ha la forza delle pulsioni, potente ma regolabile, ammaestrabile, addomesticabile (altrimenti saremmo ancora all’etica dell’antico testamento e al ratto delle sabine). Che è quanto leggi ed educazione devono e possono fare.
Punire più efficacemente, dunque. Ma ancor prima prevenire. Oggi esiste uno strumento legale di prevenzione poco noto, l’ammonimento del questore (un ufficiale di polizia segnala al signor Pinco Pallino che la donna non vuole denunciarlo ma che il suo comportamento violento è noto e se ci riprova finisce al gabbio), che Massimo Giannini ha irriso su Repubblica il giorno della manifestazione e che invece in un’intervista al Corriere della sera del 23 novembre il vicequestore di Milano Stefano Veronese, a capo della squadra che si occupa proprio delle “violenze di genere”, ha magnificato per la sua efficacia, visto che solo il 10% degli uomini che ne è oggetto ci riprova.
Piacerebbe crederci. Di sicuro non viene utilizzato con la stessa frequenza e gli stessi risultati nelle altre 102 questure d’Italia. Dove troppo spesso la tendenza è quella di “sdrammatizzare”, derubricare le minacce o addirittura la percossa, se la donna non sporge denuncia formale e magari nega l’evidenza dei lividi imputandoli a “caduta”. Dunque è colpevole di partecipazione alla violenza contro le donne il ministro degli Interni (polizia) e il ministro della Difesa (carabinieri) che non abbiano già preso e non stiano rafforzando tutte le misure perché in ogni commissario o tenenza la violenza di genere sia monitorata e aggredita con l’urgenza e la priorità doverose. Per non parlare dei braccialetti elettronici: perché una tecnologia ormai sviluppata e assai meno costosa di altre misure, è utilizzata così poco e male, o quando lo è riesce spessissimo ad essere aggirata? Anche questa è omissione, dunque colpa, complicità di chi è al governo con chi compie violenza sulle donne.
Infine l’educazione. Il manifesto di “Non una di meno” che ha convocato l’entusiasmante manifestazione fucsia di sabato mette anzi al primo posto “l’educazione alle differenze, all’affettività, alla sessualità e al consenso nelle scuole”, che costituirebbe “l’unico strumento che permette di smantellare fin dalla prima infanzia gli stereotipi di genere e le dinamiche di sopraffazione che stanno alla base della violenza”.
L’educazione, dunque. Ma come? Le solenni chiacchiere governative sulla “educazione all’affettività” fanno parte del regresso che dura ormai da mezzo secolo. Dopo che i femminismi – l’onda lunga e più durevole del ’68 – ottenendo divorzio, aborto, diritto di famiglia, fine del delitto d’onore, avevano aperto varchi enormi alla libertà e liberazione delle donne. Non fingiamo che non ci sia stato e non sia più che mai in atto, questo regresso nel costume, nelle mentalità più diffuse.
Non ho mai visto tik tok o istagram, faccio fiducia a quanto ne racconta un’esperta come Selvaggia Lucarelli, in un articolo su Il Fatto quotidiano del 24 novembre. “È evidente come gli stereotipi sessisti e la mentalità machista in cui l’uomo domina la donna siano endemici. Così come è evidente come il patriarcato interiorizzato dalle ragazze sia una questione preoccupante, e lo è proprio perché i segnali incoraggianti rappresentati dal neo-femminismo ci hanno forse fatto credere che le nuove generazioni si stessero emancipando in maniera compatta”. Primo fenomeno allarmante, “l’esaltazione della gelosia dei ragazzi, gelosia rappresentata come un elemento indispensabile nella coppia o come motivo d’orgoglio da parte della ragazza”. Alla “gelosia mostrata con orgoglio”, come “la dimostrazione che lui è innamorato”, si accompagna poi il regresso abissale “della celebrazione della verginità. In questi video c’è sempre una ragazza che si esibisce o è esibita come un trofeo e frasi come ‘Quanto è bello avere una ragazza della quale nessuno può dire: Fra quella me la sono fatta’. Insomma, il dominio assoluto ed esclusivo sul corpo di una donna sbandierato manco fossimo nel Medioevo”.
Con il corollario del consenso o della proibizione: all’abbigliamento, le gonne corte, il trucco, l’andare in discoteca, insomma tutto ciò che può mettere a rischio la proprietà su. E le ragazze consenzienti. E anzi, erinni, nel bollare come troie le altre che vivono la libertà sessuale senza il vincolo della coppia, a modo loro. “Giovanissime che giudicano in maniera volgare e impietosa la moralità delle loro coetanee. La canzone scelta per accompagnare questo genere di video è quasi sempre quella col ritornello ‘Chupa Chups’ che allude al rapporto orale. Il contenuto è spesso molto simile: una ragazza o anche due o più amiche, cantando ‘Chupa Chups’, alludono alle abitudini sessuali di un’altra ragazza. Le frasi scritte a commento dei video sono, ad esempio: ‘Vi siete fatte tutta Catania e provincia, almeno state zitte’, ‘Vogliono fare le santarelline ma io e mia sorella sappiamo quanti chupa chups hanno fatto’, ‘Sei solo una che non sa dare valore a se stessa’, ‘Te li sei passati tutti’ e così via. Insomma, video aggressivi e giudicanti creati da ragazze spesso anche minorenni rivolte a ragazzine giudicate troppo facili. E, duole dirlo, sono quasi sempre contenuti pensati da donne per altre donne”.
Un sesso pre-’68, pre-femminista, che più bigotto e codino non si può, e che torna prepotente tra i giovani, contro la libertà delle loro madri e, ormai, delle loro nonne. Regresso abissale, diffuso, di massa.
Lucetta Scaraffia a Stasera Italia su rete 4 afferma che la vittima “cinquant’anni fa non si sarebbe laureata, non avrebbe potuto dire me ne vado da sola perché non poteva andarsene da sola. Magari non l’amava tanto, però hanno avuto un rapporto affettivo, e non era così facile lasciare un ‘bravo ragazzo’. Secondo me, cinquant’anni fa, Giulia avrebbe sposato Filippo. Magari lei non sarebbe stata felice, ma lui non credo che l’avrebbe uccisa”. Affermazioni davvero incongrue, tanto più per una storica. Guia Soncini su Linkiesta, può ricordarle che “cinquant’anni fa era il 1973. C’era il post-68, c’era il femminismo, c’era il divorzio, ancora non c’era l’aborto legalizzato ma c’erano le donne che proprio non ci pensavano a non laurearsi per fare le mogli. Persino mia madre, che pure era la meno emancipata del mondo, si rifiutava di cucinare perché le sembrava una cosa da donna poco moderna. Persino mia nonna, che era una vedova molisana che non si toglieva il lutto dal 1950, non una californiana col dottorato di ricerca, aveva mandato all’università la femmina proprio come il maschio”.
E in realtà a dire un NO perfino più rischioso, visto che la famiglia del ragazzo era potente per mafia, era già stata Franca Viola nei giorni natalizi del 1965: rapita aveva rifiutato il matrimonio riparatore e portato in tribunale il suo violentatore. Insomma sono almeno una settantina d’anni che in Italia si svolge lo scontro per il possesso sul corpo della donna, con la Chiesa sempre in prima fila a impedirne la liberazione. Regresso nella gelosia come amore e nella verginità e fedeltà (solo della donna, ovviamente) come valore costituiscono il brodo di coltura, i famosi “primi passi” massicciamente diffusi, della violenza che porta nei casi estremi al femminicidio. La radice è l’idea sessuale del possesso, la mia donna.
Cogliere i primi segnali della deriva che può portare al femminicidio, si ripete giustamente. Dunque i sintomi anche precocissimi della volontà e pretesa di controllo e di proprietà. Questo da sradicare. Qui non si sta facendo nulla e anzi rispetto a mezzo secolo fa molti passi indietro. Si dirà: ma spesso le donne dicono il mio uomo, e la cosa per entrambi i sessi vuole indicare solo intimità e gioia di appartenersi. Anche, ma solo se resta assolutamente metaforico, un modo di dire, un lessico privato. Mai, invece, non appena pretenda di farsi permesso/proibizione di qualsiasi comportamento dell’altra. Il femminicidio è infatti la manifestazione estrema dell’incapacità di troppi uomini di accettare che la donna, anche quella con cui sono in relazione amorosa, anzi massimamente quella, è e resta libera, in ogni senso.
Parlare quindi di educazione all’affettività è il modo pudibondo di negare che al cuore della questione ci sia il sesso, il desiderio sessuale, la pulsione sessuale. Che è anche aggressiva, come ogni psicoanalista (e non solo) potrà confermare, perché una aggressività buona è del resto necessaria per qualsiasi genere di azione, per l’esistenza stessa. Ma l’aggressività buona non è mai prevaricazione, negazione della libertà dell’altro, bensì riconoscimento di eguale libertà. Educazione sessuale e all’affettività, allora, e ancor meglio educazione alla libertà sessuale e alla responsabilità, perché ciascuno vivrà l’affettività come preferisce, tutta la gamma, dal poliamore all’asessualità (preti e monache in teoria, e a prendere sul serio la morale cattolica, si scopa con una sola persona per tutta la vita, alleluia). Il sesso, sapendo dunque che è anche educazione al piacere, altrimenti che educazione è, quella dei bambini tra cicogne e cavoli? Esistono manuali, una volta MicroMega ne ha anche tradotto uno (nordico, ovviamente, 6/2014).
È evidente però come su questa necessarissima educazione (fin dai primi anni, dalle elementari, anzi dal nido) non ci potrà essere nessuna unanimità, nessuna convergenza, tra mondo laico e mondo bigotto si giocherà anzi un autentico scontro di civiltà.
Infine, per il futuro di un movimento che deve poter continuare, crescere, ottenere risultati ora, ogni giorno, bisogna avere la forza di guardare in faccia le enormi diversità tra f, l’entusiasmante marea fucsia, e il manifesto di convocazione, cioè il gruppo politico che l’ha indetta. Gruppo politico in senso pieno, e non organizzazione contro la violenza sulle donne, bensì per l’autodeterminazione di “donne, persone non binarie e LGBTQIAPK, con disabilità, persone razzializzate, migranti e seconde generazioni, sex workers e detenutə”, e anzi tutte le “persone povere”. Eppure proprio sulla prostituzione i movimenti femministi sono aspramente divisi, in tutto il mondo, e variegate erano certamente le opinioni delle centinaia di migliaia di donne in fucsia del Circo massimo, mentre per “Non una di meno” va denunciata e combattuta “la criminalizzazione del sex work, che riproduce lo stigma e invisibilizza la vita di chi fa il lavoro sessuale”, criminalizzazione di cui non c’è traccia nella legislazione italiana, che non punisce la prostituta ma solo il pappone.
Ed è davvero assodato che il mezzo milione di manifestanti consideri che sia “in corso il genocidio del popolo Palestinese” da parte di Israele, “Stato coloniale”? Sarebbe tragico. Per le dirigenti di “Non una di meno” i crimini con cui l’abietto Netanyahu (abietto ormai presso la schiacciante maggioranza dei cittadini di Israele) sta reagendo alla mattanza del terrorismo di Hamas contro pacifisti che ballano e kibbuzim è solo “l’ultimo episodio della lunga storia di un genocidio portato avanti da uno degli apparati politico-militari più potenti al mondo, lo Stato di Israele. Non ci sono margini di ambiguità in questa storia di colonialismo, razzismo e violenza, tesa a cancellare il territorio palestinese e, soprattutto, il suo popolo”. Il grassetto enfatizzante è del testo originale.
Con questo fanatismo di menzogna è perfino ovvio che poi ci si dimentichi orribili episodi recenti di stupro di massa, come quello perpetrato dai terroristi di Hamas il 7 ottobre e quelli di cui neppure più si parla delle truppe di Putin contro le donne ucraine. E che in un manifesto che riesce a parlare perfino del ponte sullo stretto di Messina (esecrandissimo, sia chiaro) non ci sia una parola per ricordare la lotta eroica delle donne iraniane e dei loro compagni, in rivolta contro il tallone islamista iperpatriarcale, teocratico e omicida degli ayatollah.

CREDITI FOTO: ANSA / GIUSEPPE LAMI



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