25 novembre: questa lotta ci riguarda, tutte e tutti

SPECIALE "LIBERE DALLA VIOLENZA" - È tempo che donne e uomini siano uniti non solo nel condannare la violenza ma nel rifiutare con una prassi quotidiana il modello culturale che ne è all’origine.

Teresa Simeone

Che fa la penna in mano a una donna se non serve alla sua causa, come a quella di tutti gli oppressi?”, scriveva Annamaria Mozzoni, attivista civile e pioniera delle battaglie di emancipazione femminile in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento. Un lungo impegno, che porterà al diritto di voto 26 anni dopo la sua morte, riconoscimento che, purtroppo, com’è testimoniato dal trend tuttora negativo dei femminicidi, non riuscirà ad arginare l’onda di discriminazioni e di violenza verso le donne: secondo i dati del Viminale fino a ottobre 2022 erano 82 le donne uccise da gennaio ma, stando alle notizie degli ultimi giorni, sono arrivate a 104, di cui 88 in ambito familiare. E di nuovo la domanda: com’è possibile che non si riesca a fare nulla? Che i casi invece di diminuire aumentino?

Quella delle violenze sulle donne è una lunga catena, segnata da drammi di ogni tipo, fisici e psicologici. Lo stesso termine “femminicidio”, coniato in epoca moderna per indicare l’uccisione di una donna in quanto donna, è contestato dai soliti “conservatori linguistici” che non capiscono perché si debba ricorrere a un sostantivo diverso da quello che si usa per un qualsiasi omicidio. Forse perché si tratta di uccisioni di genere? Verrebbe da ribadire nonostante l’evidenza. Il termine, si sa, fu utilizzato dalla presidente della Commissione speciale di inchiesta del Parlamento messicano, Marcela Lagarde, sociologa e antropologa, per allargare la prospettiva, già aperta in tal senso da altre studiose come ad esempio Diana Russell che aveva introdotto il termine “femmicidio”, e includervi un tipo di violenza “istituzionale” che comprendesse la negligenza, l’omissione e la collusione delle autorità nel negare alle donne e alle loro famiglie l’accesso alla giustizia. È violenza istituzionale, cioè, quella che non si attiva per proteggere e garantire la vita delle donne. Il riferimento è proprio a ciò che emerse il 25 gennaio del 1993, nella città di Ciudad Juàrez, nello Stato del Chihuahua, a poca distanza dal confine tra Messico e Stati Uniti, quando venne scoperto il corpo di una donna di appena 16 anni, Angelica Luna Villalobos. La donna era morta per strangolamento e presentava numerosi segni di violenza. Angelica è la prima vittima ufficiale di una lunga serie di delitti correlati a quella che sarà conosciuta come “La città della morte” e che ha tristemente interessato ragazze giovanissime, di bassa estrazione sociale, in alcuni casi anche studentesse, ma per lo più lavoratrici nelle maquiladoras, fabbriche di assemblaggio e di produzione di prodotti per l’estero.

Ciò che è venuto alla luce sono i segni di una vera ecatombe, sepolta sotto omissioni, inerzia, occultamenti della polizia locale e delle istituzioni che invece di perseguire i crimini hanno insabbiato, depistato, permettendo che restassero impuniti. Stime ufficiali parlano di circa 400 donne rapite, torturate, mutilate e assassinate dal 1993 nei dintorni di Juárez, ma probabilmente la stima reale è di molto superiore. Nel 2006 è stato realizzato un film, Bordertown, con Jennifer Lopez, di forte impatto emotivo proprio per il suo realismo, osteggiato da molti critici statunitensi e messicani, ma che valse all’attrice il premio di Amnesty International al Festival del cinema di Berlino.

In ogni caso col termine femminicidio si intende ogni forma di discriminazione e di violenza contro la donna in quanto donna. E quindi di donne assassinate dai partner o ex partner, ma anche di giovani come Saman Abbas perché non voleva un matrimonio combinato, o Masha Amini, Hadis Najafi, Nika Shakarami, Nasrin Ghadri, tutte uccise perché hanno protestato contro le imposizioni del governo iraniano, nonché di prostitute o lesbiche o di quante non rispondono ai canoni stabiliti dal sistema patriarcale ancora vigente in tante parti del mondo. In tal senso il femminicidio è un fenomeno “sociale”, le cui origini è possibile rintracciare in una lunga tradizione che vede la donna subalterna rispetto all’uomo e rispondente ai modelli in cui è incapsulata di madre onnipresente, di moglie fedele, di figlia remissiva: stereotipi di genere radicati in una lunga tradizione culturale.

Per secoli si è creduto nella superiorità dell’uomo sulla donna e tale bias è stato veicolato anche da pensatori, laici e religiosi, come Aristotele, sant’Agostino, san Tommaso, Tertulliano, Rousseau, fino a Hegel e a Schopenhauer. Noi ci indigniamo, e giustamente, quando vediamo donne a cui è negata l’istruzione, obbligate a indossare il velo, costrette a lavorare nel deserto per i loro uomini, a subire ogni genere di vessazione ma non dimentichiamo che anche da noi i femminicidi non accennano a diminuire, anzi in Italia sono all’ordine del giorno.

Ad ogni nuovo evento criminoso, si chiedono misure legislative più severe ma ciò non basta: c’è bisogno di un cambio di mentalità che coinvolga la società civile nella sua interezza. La scuola è, per statuto educativo, in prima linea con un’azione quotidiana di contrasto ai pregiudizi, di costruzione di relazioni interpersonali basate sul rispetto dell’altro e sullo scardinamento dei ruoli fissati dalla tradizione. Fondamentale è la comunicazione dei mass media che dovrebbero aiutare in questa battaglia, cercando di superare la rappresentazione del mondo femminile, a volte degradante, in cui le donne sono esposte esattamente come si immagina che le vogliano gli uomini. La pubblicità, in tal senso, spesso veicola modelli anacronistici che le presentano o come casalinghe e mamme, dedite esclusivamente ai lavori domestici, o come donne supersexy, che vanno a stimolare l’immaginario sessuale maschile. C’è, poi, la solita resistenza di chi si oppone a qualsiasi cambiamento, percependolo come un attacco al proprio sistema di valori che si vorrebbe immobilizzato nel tempo. Ma questa è una lotta di civiltà a cui nessuno è estraneo.

Questa lotta ci riguarda, per usare un’espressione con cui Albert Camus spingeva dalla rivista Combat all’impegno e alla resistenza i suoi connazionali francesi, umiliati dall’occupazione nazifascista e dal collaborazionismo. Questa lotta riguarda tutte e tutti noi, donne e uomini, madri e padri, mogli e mariti, sorelle e fratelli. Ci riguarda perché il diritto di una sola di noi è il diritto di tutta la società e perché il tempo delle battaglie femminili monogenere in solitaria è finito. È ora che inizi veramente quello in cui donne e uomini siano uniti non solo nel condannare la violenza, che appare il gesto minimo per ogni essere umano, ma nel rifiutare con una prassi quotidiana, che investa linguaggio, pensiero e comportamenti concreti, il modello culturale che ne è all’origine.
Questo articolo fa parte della serie “Libere dalla violenza”, dedicata al tema dell’ultimo numero della rivista MicroMega. Puoi trovarla nelle librerie fisiche e online o acquistarla direttamente sul nostro shop

“Libere dalla violenza”: il numero di MicroMega dedicato alla lotta contro le violenze sulle donne



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