A 150 anni dalla Comune di Parigi: una parabola per il futuro

Per anni la Comune è stata per lo più studiata come l’anticipazione della Rivoluzione d’ottobre, una sorta di 1917 mancato. In realtà con questo approccio si perde il suo immaginario politico, culturale e sociale e non si colgono le sue potenzialità più profonde, che ci parlano ancora.

Giorgio Pagano

Centocinquant’anni fa, il 18 marzo 1871, il popolo di Parigi – che il 4 settembre 1870 aveva imposto la proclamazione della Repubblica – insorse cacciando il governo Thiers. Era deluso nelle sue aspettative sociali e temeva il ritorno alla monarchia. Nacque così la Comune, la prima grande esperienza di autogoverno della storia contemporanea. Parigi fu autogestita fino al 28 maggio e al massacro da parte dell’esercito di Thiers: 20/30 mila fucilazioni, 50 mila arresti.

Per anni la Comune è stata per lo più studiata come l’anticipazione della Rivoluzione d’ottobre, una sorta di 1917 mancato. In realtà con questo approccio si perde l’immaginario politico, culturale e sociale della Comune e non si colgono le sue potenzialità più profonde, che ci parlano ancora. Dopo il 1989 è possibile una nuova lettura, insieme inedita e incredibilmente attuale, come quella proposta nei suoi lavori dalla studiosa americana Kristin Ross. L’ultimo, “Lusso comune”, ricostruisce l’insieme delle idee e dei valori, delle nuove forme di relazione e di socialità della Comune: un immaginario disordinante e fraterno – ben espresso dalla poesia del desiderio di Arthur Rimbaud, oggetto di uno studio precedente della Ross – che ha ispirato nel tempo milioni di persone ed entra con forza nel presente. Lo fa anche grazie al pensiero elaborato negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, sulla base dell’esperienza comunarda – segno che sono davvero le azioni a generare i sogni e le idee-, da intellettuali come William Morris, Pretr Kropotkin, Elisée Reclus.

Emblematico della Comune fu il Manifesto della Federazione degli Artisti: “Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il lusso comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale”. La Comune entrò nella quotidianità della vita delle persone, mise in moto pratiche sperimentali delle soggettività anche in campo non economico, fornì indicazioni su uno stile di vita alternativo. “Lusso comune” significava che la condivisione non può essere della povertà, perché è apertura e ricchezza: è condivisione di una nuova forma di lusso, senza spreco insensato.

Nacquero istituzioni radicalmente democratiche della politica. L’origine era nelle assemblee popolari degli ultimi anni dell’Impero, nei comitati, nelle associazioni, nei club. “Parigi ha rinunciato ad essere la capitale della Francia”, affermò il pittore Gustave Courbet: l’obiettivo era dar vita a comunità locali autonome e a una loro federazione fondata su relazioni di solidarietà reciproca. Un federalismo che dissolve lo Stato dal basso, nell’orizzonte internazionalista di una Federazione universale di popoli.

La partecipazione era permanente. “Il vero segreto della felicità consiste nell’occuparsi di tutti i dettagli della vita quotidiana”, scrisse William Morris. Ogni cittadino deve sentirsi responsabile. Si sprigionò una fusione di pedagogia e gioco, di scuole popolari e feste collettive. “Fu una Festa, la più grande del secolo e dei tempi moderni”, secondo Henry Lefebvre. I pasti venivano consumati in comune nelle strade. L’arte divenne un qualcosa di vissuto: da un’élite al popolo intero. L’Officiel des Arts era aperta a tutti, la bellezza doveva prosperare negli spazi pubblici. Si gettarono le basi di un urbanesimo rivoluzionario.

L’educazione doveva essere “politecnica”: un avanti e indietro tra scuola e officina, perché chi lavora deve essere in grado di scrivere un libro. Asili nido sorsero in tutti i quartieri, così le biblioteche, senza più privilegi per i ricchi.

Un manifesto murale diceva: “Il lavoro di tutti, per tutti”. Il lavoro sparì sotto forma di lavoro salariato forzato, l’attività produttiva doveva essere fondata su rapporti di cooperazione. Centrale fu il concetto di libertà del lavoro. Ma anche allora si cercava lavoro, e fu varato un sistema di garanzia contro la disoccupazione.

Il tutto all’insegna dell’aiutarsi l’un l’altro: solidarietà, fratellanza, mutuo appoggio. La Colonna Vendome – issata per celebrare le conquiste imperialiste di Napoleone – fu demolita per denunciare la guerra e promuovere la fratellanza universale. Place Vendome divenne Place International.

Sulla scia della Comune presero campo culture non sviluppiste, grazie a pensatori che sono al centro dell’ecologismo contemporaneo. Reclos, per esempio, studiò gli effetti del capitalismo sull’agricoltura e l’ambiente rurale con una lucidità straordinaria per la sua epoca. Per lui, come per Kropotkin, c’era continuità tra mondo umano e naturale.

La Comune appartiene a una storia irregolare e dirompente. Non possiamo considerarla un’alternativa al totalitarismo staliniano, perché non fu espressa in forma compiuta, ma è certamente una parabola per il futuro. Ha dato voce a una possibilità: una vita senza sfruttamento e oppressione.

Karl Marx, che non si proclamò mai “marxista”, aggiunse una frase all’edizione del 1872 del “Manifesto del partito comunista”: “La classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi fini”. Era un allontanamento delle sue posizioni precedenti sullo Stato.

Nella Comune, e nella sua sete di libertà, visse il comunismo libertario, al centro del quale c’è il diritto delle persone di autodeterminare la propria vita. Il vero individualismo c’è solo con il comunismo, che lo rende effettivo. Autonomia personale e solidarietà sociale si rafforzano reciprocamente. Per il comunismo libertario la lotta economico-corporativa, che rivendica per i lavoratori solo benefici economici, assume la veste di una politica rinunciataria e risarcitoria rispetto alla libertà umana nel lavoro, all’autonomia, all’autogoverno della propria vita. Per il comunismo libertario la concezione che fu poi prevalente nel movimento operaio, sia comunista che socialdemocratico, con al centro l’assalto allo Stato, la conquista del potere politico dall’alto, non può che portare alla sconfitta – e così in effetti fu negli anni Venti e negli Anni Sessanta del Novecento. Per il comunismo libertario la società si trasforma con una moltiplicazione di poteri dal basso, in un processo anche culturale e soggettivo, che aiuti i lavoratori e i cittadini a governarsi da sé.

 

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