A chi appartiene la “mano invisibile”?

In questo appuntamento con la rubrica "Rileggiamoli insieme" parliamo di: Bruno de Finetti, “L’invenzione della verità”, (1934) e Kaushik Basu, “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”.

Paolo Favilli

a) Qual è il filo che collega il libro scritto novant’anni fa da uno dei più importanti matematici del Novecento, pubblicato postumo nel 2006, e il libro di un economista di origine indiana, professore alla Cornell University e Senior Vice President e Chief Economist della World Bank?
Il matematico e l’economista esercitano la loro altissima professionalità a partire dalla indispensabile consapevolezza che senza l’uso di una strumentazione analitica basata sulla coerenza del ragionamento astratto non sia possibile nessuna indagine scientifica degna de nome, ma nello stesso tempo hanno ben presente che “quel che è logico è [certamente] esatto” ma sugli svolgimenti economico-sociali della realtà storica “non dice nulla” (de Finetti).
Proprio ragionando su quella che chiamiamo “scienza economica” è possibile provare il senso profondo di questo presupposto metodologico.
La “scienza economica” ha cercato nel continuo perfezionamento degli strumenti matematici la ragione per cui accreditarsi come “fisica sociale”, ma, avverte de Finetti: “la matematica (…)  è lo strumento più perfezionato fecondo e potente di cui la nostra intelligenza dispone, ma non si può pretendere da uno strumento (il corsivo è mio) che fabbrichi la materia prima (…) Le verità logiche e matematiche [non sono] verità sperimentali”[1].
Il calcolo non ha, in sé, valore di conoscenza né, tantomeno, valore di verità. Chiuso in se stesso oscura il rapporto con la realtà, né fa una cosa sconosciuta. Ed ancora de Finetti proprio a proposito della matematica in Economics: Matematicamente ogni risultato (…) supposto esatto è un risultato esatto. Ma quel che veramente conta è l’apporto all’economia, e tutto dipende non dal fatto che il risultato sia vero, ma che risponda a qualcosa d’importante[2].
E, a proposito di qualcosa di importante, Basu riporta questa storiella di autore anonimo:
Sherlock Holmes e il dottor Watson si recano in campagna per condurre un’indagine e decidono di piantare la tenda in mezzo a un campo. Nel pieno della notte, Holmes dà un colpetto a Watson per svegliarlo: “Guardi il cielo e mi dica che cosa ne deduce”. Watson si stropiccia gli occhi e fissando il meraviglioso spettacolo del cielo stellato dice: “Vivendo a Londra non ci si accorge che ci sono così tante stelle in cielo. Beh, essendoci tutte queste stelle possiamo – dedurre che esistono molti sistemi planetari. Se esistono molti sistemi planetari, possiamo concludere con una certa sicurezza che esistono molti pianeti come la Terra. E se esistono molti di questi pianeti, ce ne sarà sicuramente qualcuno che ospita vita intelligente. Perciò deduco che là fuori, nell’universo, esiste la vita intelligente”. Holmes lo guarda esasperato e gli risponde: “Qualcuno ci ha rubato la tenda”[3].
Capacità conoscitiva in grado di ampliare la sfera della intellegibilità delle cose importanti: su ciò si misura il progresso della scienza economica, e anche il regresso.
Si noti come su questa concezione di progresso del sapere storico e della scienza economica si esprima quasi negli stessi termini Hobsbawm. Innanzitutto. È relativamente facile misurare i progressi degli “strumenti speciali” della “tecniche”, anche se nemmeno quegli strumenti sono esenti da “relatività storica”, non altrettanto può dirsi della scienza economica. La scienza economica nel suo complesso “progredisce” (se progredisce) a zig-zag, non secondo quello che suggerisce la logica, ma secondo l’urto di nuove idee o di nuove osservazioni o di nuove necessità”. In sostanza in stretta relazione con le dinamiche dei processi storici. “La storia ha progredito in questo secolo – ha affermato Hobsbawm – procedendo faticosamente a zig-zag”[4]. Lo zig-zag contempla, ovviamente i regressi.
ll problema storico della conoscenza economica consiste nella spiegazione dei meccanismi attraverso i quali insiemi concettuali che per lunghi periodi restano marginali nella produzione intellettuale, diventino centrali in altri senza che, per lo meno in maniera immediatamente evidente, ne siano mutate le coordinate di fondo. Negli itinerari i percorsi subiscono influenze da molteplici sfere, scientifiche e no. Ed in questo vi sono elementi di progresso, un progresso relativamente duraturo, ed elementi legati alla contingenza. E la contingenza, come abbiamo visto, non è certo momento marginale dei mutamenti di “paradigma”. In quella sfera è possibile, anzi è verificabile, anche il regresso. Nel terreno delle lotte costanti della scienza economica il momento centrale del contendere riguarda la determinazione di quelle che de Finetti ha indicato come le “cose importanti”.
Lev Tolstoj in Anna Karenina ci presenta Aleksjej Alexandrovic Karenine, il marito di Anna, incapace di comprendere, sulla base della logica dell’uomo di Stato che aveva avuto sempre a che fare con “i riflessi della vita”, di concepire “la possibilità in sua moglie di un amore per qualcuno al di fuori di lui”. “Sentiva di stare a faccia a faccia con qualcosa d’illogico e di assurdo. (…) E questo gli sembrava molto assurdo e incomprensibile, perché questo era la vita stessa (il corsivo è mio)”[5]. Possiamo comprendere la vita come funzione dell’economia, il biocapitalismo in cui siamo immersi, con le categorie del formalismo di tutti i derivati dall’ “economia pura”?
b) Is there Progress in Economics?[6], ci si è chiesti in un importante convegno di studi organizzato nel 2000 dall’università austriaca di Graz.  Si noti che siamo ancora lontani dalla crisi innescata nel settembre 2008 dal fallimento della Leheman Brothers, una delle principali banche d’affari statunitensi. Siamo ancora in un contesto politico-culturale in cui pochi mettono in discussione i postulati fondamentali dell’economia neoclassica, in particolare la sua assimilazione alle scienze della natura. Da tale postulato discendono due corollari: a) il progresso della scienza economica è lineare e coincide con il perfezionamento delle tecniche di analisi, b) non esistono scuole diverse in economia; come diceva l’economista italiano Pantaleoni alla fine dell’Ottocento, l’unica fondamentale divisione passa fra quelli che l’economia la sanno e quelli che non la sanno[7]. L’università di Graz non è certo un covo di economisti eterodossi, ma nel promuovere il convegno ha fatto riferimento esplicito a Joseph Alois Schumpeter che lì aveva insegnato agli inizi del Novecento.  Schumpeter, giustamente definito dai promotori del convegno di Graz “one of the greatest”[8] tra gli economisti novecenteschi, è anche uno dei pochissimi economisti liberali di alto livello che conosceva, nel senso scientifico del termine conoscere, l’opera di Marx. Non la stessa cosa si può dire della maggior parte degli economisti liberali alla stessa altezza.
L’ispirazione schumpeteriana del convegno di Graz deriva dalla presa di distanza dello studioso “rispetto all’improbabile ascendenza naturalistica del metodo della scienza economica”, dal porsi costantemente il “quesito di una vita domandando[si] quale fosse il nesso tra scienza economica e ideologia”. Pur rimanendo sempre interno alla dimensione neoclassica dell’ “economia pura” (“economia teorica” la definisce) egli ritiene che tale dimensione sia solo un aspetto dell’economia: l’aspetto statico. Ci sono problemi, quello dello sviluppo soprattutto, che hanno a veder con la dinamica. “Problemi che pur “strettamente ‘economici’, fuoriescono dal primo, senza fuoriuscire dall’ ‘ambiente’ della scienza economica. Di essi tratta la teoria economica” [9].
La “scienza economica”, dunque, affronta i problemi dell’ “ambiente economico”, una sfera a cui è assai problematico imporre una definizione rigida di confini.
L’inedito del 1934 e gli scritti pressoché coevi di Bruno de Finetti entrano direttamente sui modi d’uso dello strumento matematico nell’ “ambiente economico” da parte da parte degli economisti convinti sostenitori del carattere di “fisica sociale” della loro disciplina. “Sconsigliati” – li definirà anni dopo –  che maneggiano formule e terminologie matematiche con la stessa incoscienza di cui darebbe prova il matematico che non resistesse alla tentazione di improvvisarsi chirurgo per scoperchiare e rimescolare i loro cervelli nella speranza di renderli funzionanti[10].
Negli anni Trenta la non corrispondenza tra fatti e teorie era verificabile nelle cose, nei terribili effetti sociali della crisi.  La critica delle teorie dominanti, dunque, (classiche le chiama de Finetti, ma sono chiaramente le neo-classiche) poteva godere del solido sostegno dell’evidenza empirica. “Che dottrine e sistema abbiano urgente bisogno di profonda revisione è ormai troppo evidente perché alcuno possa negarlo in buona fede, salvo al più che viva fra le nuvole o su una cattedra”[11]. Bruno de Finetti, scomparso nel 1985, avrà ancora il tempo per vedere gli inizi di un processo per cui l’ “evidenza empirica” non è, di per sé, capace di mettere in crisi le istituzioni deputate a definire il corpo ideologico dei rapporti economici dominanti, “cattedre” ben comprese.
In contemporanea con il suo libro non pubblicato del 1934 il grande matematico esprimeva chiaramente il carattere ideologico della dissociazione tra le teorie assiomatiche e l’evidenza empirica:
Non è più possibile considerare come una utopia in contrasto con le immutabili leggi economiche l’ideale e il concetto stesso di una giustizia sociale più umana, più civile, più cristiana, trattandola alla stessa stregua dell’aspirazione al moto perpetuo, inconciliabile con le immutabili leggi fisiche. […] All’errore d’impostazione nella ricerca dell’”optimum”, si aggiunge un più grave e odioso sofisma nell’indicazione dei mezzi atti a condurvi: è il sofisma ottimistico del liberalismo, la superstizione dell’anarchia autoregolantesi, secondo cui per giungere al massimo benessere per tutti il modo più semplice e più sicuro consisterebbe nel permettere a ciascuno di tendere a realizzare il massimo tornaconto egoistico. […] Ma è vero un simile assioma? Molte pseudo dimostrazioni si basano su pretese analogie con la meccanica, […]
Agli esseri viventi, e agli uomini in particolare, si possono chiedere prove ben più intelligenti, ma non quella di comportarsi secondo la coerente logica determinista della meccanica razionale. E proprio questo è l’errore grottesco di quanti pensano di modellare l’economia o la sociologia sugli schemi della meccanica, e credono pertanto alla possibilità di un equilibrio spontaneo in regime economico e politico di anarchia liberale[12].
Dov’è il progresso della teoria economica neoliberale novant’anni dopo?
c) Il cosiddetto teorema della mano invisibile è ancora il presupposto base della teoria economica neoliberale.  Così lo definisce Kaushik Basu: Se abbiamo un’economia competitiva in cui tutti gli individui scelgono liberamente sulla base del rispettivo interesse razionale, allora (date alcune condizioni tecniche) l’equilibrio che si produrrà sarà ottimale.
Ma subito precisa: L’elemento di maggior rilievo, per quanto riguarda la politica economica, è stato il fraintendimento e l’uso distorto che è stato fatto di questo teorema. Tanto per cominciare, un punto che non sempre viene considerato è che il teorema della mano invisibile, come tutti i teoremi matematici, non dice nulla di sperimentalmente verificabile riguardo al mondo reale, e nulla che possa è consentirci di fare una qualunque previsione. Quello che fa è stabilire l’equivalenza fra due definizioni: equilibrio e ottimalità. In questo senso non è diverso dal teorema di Pitagora, che stabilisce un’equivalenza fra i quadrati costruiti sui due cateti di un triangolo rettangolo e il quadrato costruito sull’ipotenusa[13].
Prima di continuare è necessario vedere come Adam Smith tratta la metafora della mano invisibile.
La metafora della mano invisibile– solo di una metafora si tratta – compare nell’Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776) una sola volta in IV.ii.9; era già comparsa, sempre come un hapax, in un contesto non economico nella History of Astronomy (III.2), uno scritto degli anni Cinquanta, e in The Theory of Moral sentiments (IV.i.10), opera del 1759 ma rivista e riedita più volte sino al 1790: un uso parco dell’espressione, che dovrebbe far riflettere e invitare alla prudenza. Questo il passo: “egli [ogni individuo] non intende, in genere, perseguire l’interesse pubblico [publick interest], né è consapevole, della misura in cui lo sta perseguendo. Quando preferisce il sostegno dell’attività produttiva del suo paese invece di quella straniera, egli mira solo alla propria sicurezza [he intends only his own security] e, quando dirige tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile [invisible hand], in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni [he intends only his own gain, and he is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote an end which was no part of his intention]. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni, è sempre un danno per la società. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo”[14]
Chi ha inteso questa metafora nel senso di una teorizzazione de “la magia dei mercati e i pericoli di interferire troppo nei loro meccanismi” è caduto in un fraintendimento. Smith indubbiamente sostiene l’eterogenesi dei fini, meccanismo che non agisce solo nella sfera economica e si realizza motu proprio per un determinato concorso di azioni e circostanze non calcolabili negli esiti dagli agenti in gioco; ma non ignora che questo meccanismo dei risultati non intenzionali dell’agire umano non implica che questi siano sempre necessariamente coerenti con l’ “interesse della società” (espressione e preoccupazione ricorrente in tutto Smith), non comporta cioè che questo interesse generale si realizzi immancabilmente tramite la dialettica spontanea, non regolata, degli interessi e dei calcoli economici degli attori sociali in competizione. Come è palese in molte pagine dell’opera, Smith sa bene che questa dialettica nella realtà effettuale del mercato è conflittuale e che, senza una regolamentazione, non genera vantaggi per tutti. L’amore di sé (self-love), movente legittimo dell’agire umano, sentimento naturale che spinge ogni uomo a prendersi cura della propria conservazione e del proprio benessere, può degenerare (di fatto scade) in puro egoismo (selfishness), dando luogo ad una condotta priva di considerazione per gli altri, sacrificati al raggiungimento dei propri fini esclusivi, anziché ad un comportamento interessato sì ma improntato a regole di moderazione, di “prudenza”. Non a caso Smith riteneva l’economia politica un “ramo della scienza dello statista e del legislatore”[15] . Si potrebbe sostenere per la mano invisibile di Smith che si tratta di un’espressione ellittica, perché nulla dice del modo con cui si ottiene benessere sociale: “concludo – scriveva con ponderazione Mandeville nelle ultime righe di A Search into the Nature of Society (1723) – ripetendo l’apparente paradosso il cui concetto è stato presentato nel titolo e cioè che i vizi dei privati, attraverso l’accorta manipolazione di un abile politico [by the dextrous Management of a skilful Politician], possono divenire  vantaggi per l’intero corpo sociale”[16].
Per l’ “economia volgare” la “mano invisibile” ha sempre funzione regolatrice, a prescindere. Come ha detto il sociologo Bauman: “Può anche davvero essere invisibile, ma non abbiamo molti dubbi a chi quella mano appartenga e chi ne diriga i movimenti…” [17]
Per l’ “economia volgare”, “mondo modellizzato degli economisti”, lo chiama Basu, “dove i mercati sono sempre efficienti (…) il sistema è equo perché tutti i lavoratori guadagnano in base alla loro produttività marginale. Il fatto che i saggi pubblicati sulle riviste scientifiche non seguano più questa tendenza ha effetti limitati su questa ‘linea di fondo’ della scienza economica e sul suo sottobosco di giornalisti, tecnocrati e funzionari internazionali” [18].
Nella storia del mercato del lavoro concreto durante la modernità capitalista, quindi durante tutta la nostra età contemporanea, non si sono mai verificate condizioni simili.
Un modello di mercato del tutto corretto dal punto di vista della rappresentazione matematica tramite sistema di equazioni differenziali tutte legate tra loro. Un modello del tutto esterno ai processi dell’economia reale. Un modello, per ritornare ancora al già citato Marmeladoff di Dostojevski, per il quale le domande di senso nell’economia sono espressamente vietate dalla scienza
Un modello portatore di una razionalità contraddittoria rispetto ad una delle promesse fondamentali della modernità, cioè lo sviluppo progressivo di tutto ciò che c’è di “umano nell’uomo” (l’espressione è di Vasilij Grossman) è l’aspetto principale intorno al quale si articolano le domande di senso che possiamo trovare in così tanta parte della grande letteratura di fine Ottocento e di inizi Novecento. Dostojevskij, in Delitto e castigo, fa delineare ad un “umiliato e offeso” questo ritratto dell’orizzonte ideologico di tale naturalizzazione tramite teoria economica: l’umanità “…nella nostra epoca, è addirittura proibita dalla scienza”[19]. Cechov e tanti dei grandi scrittori del suo tempo, si sarebbero perfettamente riconosciuti nell’immagine della teoria economica uscita dalla bocca del povero ed angariato Marmeladoff. E Cechov, infatti, mette fuori dalla dimensione dell’umano proprio la supposta naturalità delle leggi economiche: … quella non è più una legge, ma un’incongruenza logica, quando il forte e il debole cadono vittime delle loro scambievoli relazioni, assoggettandosi senza volere a una certa forza direttiva sconosciuta, che sta fuori della vita ed è estranea all’uomo[20].
Che cosa c’era di più antitetico allo sviluppo dell’ “umano nell’uomo” del processo di progressiva e completa mercificazione dell’esistenza umana?
Le puntate precedenti di Rileggiamoli Insieme.

[1] B. de Finetti, L’invenzione della verità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pp. 83-84.
[2] B. de Finetti, Econometristi allo spettroscopio, «Rivista trimestrale», 1965.  Cit. in G. Lunghini, Bruno de Finetti e la teoria economica, Relazione presentata alla Accademia dei Lincei nella Bruno de Finetti Centenary Conference, 15-17 novembre 2006, p. 8.
[3] K. Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. XIII.
[4] E. J. Hobsbawm, De Historia, Milano, Rizzoli, 1997. p. 87.
[5] L. Tolstoj, Anna Karenina, Torino, Einaudi, 2014, p. 159.
[6] Is there Progress in Economics? Knowledge, Truth and the History of Economic Thought, Edited by S. Boehm, C. Gehrke, H.D. Kurz, R. Sturn, Cheltenham, Elgar, 2002.
[7] M. Pantaleoni, Del carattere e delle divergenze d’opinioni esistenti tra economisti, e Dei caratteri che debbono informare la storia delle dottrine economiche, in «Giornale degli Economisti«, 1897, pp. 501-530, 1898, pp. 407-431.
[8] Is there Progress in Economics?, cit. p. XIII.
[9] A. Zanini, Filosofia economica. Fondamenti economici e categorie politiche, Milano, Bollati Boringhieri 2005. Le cit. pp. 106, 114.
[10] B. de Finetti, Un matematico e l’economia, Milano, FrancoAngeli 1969. Cit. in G. Lunghini, Bruno de Finetti e la teoria economica, Relazione all’Accademia dei Lincei, 15-17 settembre 2006, p. 6.
[11] B. de Finetti, Il tragico sofisma, «Rivista Italiana di Scienze Economiche», 1935, III, pp. 431- 451. Cit. p. 433.
[12] Ivi. Cit. da p. 440 a 444.
[13] K. Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, cit. pp. 30-31.
[14] A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, Isedi, 1973, p. 444.
[15] Ivi, p. 417.
[16] B. de Mandeville, Ricerca sulla natura della società, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 51.
[17] Z. Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. (Falso) Laterza, Bari, 2013, p. 42.
[18] K. Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, cit. pp. r0-31
[19] F. Dostojevskij, Delitto e castigo, Torino, Einaudi, 2013, p. 17.
[20] A. Cechov, Un caso di pratica medica, in Anima Cara, Milano, Rizzoli, 1957, p. 24.



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