A proposito di “postismi”

Un’analisi della critica di Jameson al postmodernismo e del concetto di realismo capitalista di Mark Fisher.

Paolo Favilli

Fredric Jameson, “Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo”, Roma, Fazi Editore, 2007 (Duke University Press, 1992)

“Non insisterò mai abbastanza sulla distinzione radicale tra una prospettiva secondo la quale il postmoderno è uno stile (opzionale) tra i tanti a disposizione, e un’ottica che si sforza di intenderlo come la dominante culturale della logica del tardo capitalismo. In effetti i due orientamenti generano due modi molto diversi di concettualizzare il fenomeno nel suo insieme: da un lato i giudizi morali (ed è indifferente che siano positivi o negativi), dall’altro un tentativo autenticamente dialettico di pensare il nostro presente dentro la Storia”.

In questi termini Fredric Jameson, indicato, con qualche enfasi, ma non esagerata per quanto riguarda la sua ricerca fondamentale sul postmodernismo, come «il più importante critico culturale vivente, il maggior esponente mondiale della Teoria Critica e il teorico del postmoderno»[1], concettualizza un preciso criterio di periodizzazione del nostro lungo presente.
È possibile che a distanza di quasi quarant’anni da quando Jameson ha riproposto con forza la categoria analitica di «tardo capitalismo», una categoria utilizzata da Werner Sombart già all’inizio del Novecento (1902), e argomentata ampiamente poi da Ernst Mandel (Der Spätkapitalismus. 1972), si debba oggi ritornare in maniera problematica sul termine «tardo», (del resto Mandel utilizza più volte la locuzione «terzo periodo»), Non, però, sulla sua concettualità periodizzante.

Questo «terzo periodo» è «denominato “tardo capitalismo” per segnarne la continuità con ciò che lo ha preceduto, piuttosto che la frattura»[2]
Gli ultimi decenni hanno prodotto un’ingente quantità sia di studi che di pubblicistica sulla fase storica in corso. Ciò era inevitabile visto che un ciclo, quello dell’«età dell’oro» si era davvero concluso e i caratteri del «nuovo» erano percepiti o come inversione della direzione, e quindi con tratti fondamentali di fasi precedenti, o proiettati in età storica del tutto inedita.
I tentativi di periodizzazione di una fase storica in corso di svolgimento, in particolare quando la si presume come fase di transizione ad un’età diversa rispetto a quella tradizionalmente periodizzata come «storia contemporanea», o addirittura già facente parte di questa età nuova, comportano notevoli difficoltà interpretative. Promuovere a categoria interpretativa il «breve periodo» che stiamo vivendo e studiando mentre è in corso di svolgimento è un’operazione molto rischiosa. Se i risultati cui è approdata questa impostazione restano, a mio parere, largamente controvertibili, tuttavia alcuni interrogativi che sono stati posti sono degni di attenta riflessione. Il «nuovo capitalismo» delle reti, delle merci immateriali, della prevalenza del capitale finanziario… è caratterizzante di un’epoca nuova? Oppure «il capitalismo è sempre e inevitabilmente un “nuovo capitalismo” rispetto a quello che è stato in precedenza»?[3] Intanto, nonostante che la tesi sulla fine di quella che chiamiamo «età contemporanea» sia stata, ormai, avanzata da tempo, i suoi sostenitori sono ben lungi ad averne trovato una denominazione.

Quando ci inoltriamo all’interno dell’ampia letteratura di cui si è detto ci accorgiamo che è il prefisso post il vero passe-partout indicatore dei caratteri della «nuova» era.
In alcuni casi, ad esempio «postfordismo», il prefisso indica con relativa precisione un fenomeno verificabile nei tempi e negli esiti. Già con «postindustriale» le cose sono più complicate. Definire, infatti, la società in cui viviamo come «postindustriale» è piuttosto azzardato.
Poi i termini più usati, per lo meno fino a non molto tempo fa: «postmodernismo», riferito ad un insieme di stili e culture, e «postmodernità», riferito ad un periodo storico. Più recentemente è cresciuto l’uso della parola «postcapitalismo», diventata anche titolo di apposito libro[4]. E non c’è dubbio che in questo caso si tratterebbe davvero di un’altra epoca storica.  Al contrario la «postumanità»[5] riguarderebbe un aspetto della transizione in atto, così come «postdemocrazia». Una «postdemocrazia» che, infatti, come dice Colin Crouch, l’autore del libro che ha per titolo la parola (Postdemocrazia, Laterza 2003), «si afferma al tramonto dei diritti sociali di cittadinanza»[6], cioè l’elemento centrale del dopo «età dell’oro».

Altri suffissi nettamente oppositivi al post, «neomoderno», «ipermoderno», sono attualmente indicativi di una crisi del complesso culturale «postmodernista». La condizione neomoderna[7], titolo di un libro uscito nel 2017, intende manifestamente chiudere con la stagione aperta, nel 1979, da La condizione postmoderna[8].
Come si vede i modi dell’associazione delle locuzioni «modernità» e «capitalismo» finiscono per essere declinati in un universo concettuale dai significati molteplici, anche contraddittori.
In tale universo concettuale il termine «postmodernismo», proprio per il carattere polisemico assunto con rapidità, ha un’altrettanta rapida diffusione.
Il termine «postmodernismo» nasce nell’ambito della dimensione estetica. Fu utilizzato per la prima volta nel 1934 da Federico de Onis, professore di letteratura spagnola alla Columbia University, in un saggio relativo alla poesia latino-americana.
Poi, prevalentemente a partire dal secondo dopoguerra, si estese alla più ampia sfera delle arti: architettura, scultura, arti figurative in genere, ed inoltre moda e design. Tutti settori, tra l’altro, strettamente legati ai mercati della sperimentazione creativa, a mercati dipendenti dal mutamento (innovazione?) continuo degli stili.

“… s’era (…) levata in volo (…) una febbre alata. Nessuno sapeva esattamente cosa stesse nascendo; nessuno era in grado di dire se sarebbe nata una nuova arte (…). Ma ovunque insorgevano uomini pronti a combattere contro il passato. (…) Certo [c]erano contraddizioni e gridi di battaglia profondamente diversi, ma avevano un respiro comune; se si fosse analizzata quell’epoca, ne sarebbe emerso un non senso, (…) ma in realtà tutto s’era ormai amalgamato acquistando un senso nuovo e brillante[9]”.

Potremmo pensare che in questo testo si faccia riferimento alla temperie da cui emerge l’insieme disomogeneo della cultura «postmodernista». In realtà si tratto di un passo tratto da uno dei romanzi fondamentali della modernità, delle sue fasi, dei suoi ritmi: L’uomo senza qualità di Robert Musil, ambientato nella Vienna di inizio secolo XX.
Il meccanismo descritto da Musil, quello del sempre più rapido alternarsi del «flusso eracliteo»[10] nelle arti e nella cultura, un flusso che rende instabile il confine tra reale innovazione e mode culturali, è un aspetto tipico della «modernità». Labilità dei presupposti e logiche divergenti dei flussi acquistano «un senso nuovo e brillante» solo quando il «postmodernismo» si pone come dominante culturale della «postmodernità».

Lo sguardo originario del «postmodernismo» sull’arte (e sulla realtà) è lo stesso della «modernità» evocata per la prima volta da quel Charles Baudelaire i cui Les Fleurs du Mal sono stati considerati «le livre-clef de la poésie moderne»[11]. Che cosa cerca l’artista nella realtà per trasformarla in una rappresentazione che abbia pienezza di vita? «Egli cerca quell’indefinito che deve essere permesso di chiamare la modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda. Il segreto è, per lui, di distillare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nella trama del quotidiano, di estrarre l’eterno dall’effimero. (…) La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile»[12].
L’idea della continua «frammentazione», della «caducità» è già un aspetto della modernità. Agli inizi del XX secolo Georg Simmel, il sociologo autore della Filosofia del denaro, in un saggio di grande interesse pubblicato nel 1911 (La metropoli e la vita mentale) analizza il fenomeno non più soltanto nella dimensione artistica, ma nelle dinamiche psicologiche cui gli innumerevoli stimoli della vita nelle grandi città sottopongono gli individui.

Se il «postmodernismo» fosse rimasto un problema di insieme di stili in opposizione con il «moderno» avrebbe seguito «il tipico destino degli stili, soggetti (…) a un sempre più rapido ricambio». In breve sarebbe stato sorpassato, e avremmo dovuto chiederci «cosa sarebbe venuto dopo questo postmodernismo dal nome ormai paradossale: ci sarebbe stato un post-postmodernismo»?[13] Se però il postmodernismo viene considerato «la logica culturale del tardo capitalismo», allora diventa la base di «una nuova e precisa antropologia»[14] con funzione periodizzante.
Che l’espressione sul postmodernismo come «logica culturale del tardo capitalismo» abbia carattere periodizzante non c’è dubbio. Lasciamo per ora da parte l’indicazione sul tipo di periodizzazione, suggerita da «tardo capitalismo», cioè un giudizio su esiti assolutamente non prevedibili della fase storica in corso. Dobbiamo prendere in considerazione anche che l’attuale età in cui appaiono preminenti i segni di insostenibilità sistemica del processo di accumulazione del capitale possano «stemperarsi in una nuova “età dei torbidi” (Toynbee). E in questo senso il capitalismo potrebbe continuare a «contare i secoli»[15].

Nel contesto di quella galassia, addirittura insieme di galassie che attraversano tutto l’universo culturale dall’urbanistica alla filosofia, galassie accomunate dalla narrazione del «nuovo inizio», galassie in gran parte sottoposte da Jameson ad analisi critica, il professore di letteratura mette in evidenza il problema della storia:

“La dimensione retrospettiva indispensabile a qualsiasi riorientamento vitale del nostro futuro collettivo è diventata nel frattempo una vasta collezione di immagini, un immenso simulacro fotografico. (…) Una società spogliata di ogni storicità, il cui supposto passato è poco più di un insieme di spettacoli polverosi. (…)  Il passato come “referente” viene gradualmente messo tra parentesi e quindi cancellato del tutto; a noi non restano che testi[16]”.

Un mucchio di frammenti, insomma.
La critica di Jameson nei confronti del postmodernismo come dominante culturale, nei confronti della sua funzione ideologica, è molto serrata e radicale. Nello stesso tempo però egli intende cogliere il «momento di verità» che esiste comunque nel suo manifestarsi come elemento fondamentale di periodizzazione della «postmodernità». Come indicatore di trasformazione del «reale». Ed il «momento di verità» del postmodernismo è la rappresentazione del nuovo spazio del capitalismo mondo in questa nuova fase di globalizzazione.

I tentativi distorti e irriflessi della produzione culturale più recente di esplorare e di esprimere questo nuovo spazio devono essere considerati, alla loro maniera, come altrettanti approcci alla rappresentazione della (nuova) realtà.

“(…) Per quanto paradossali possano sembrare, i termini potrebbero essere letti seguendo un’opzione interpretativa classica, come nuove forme peculiari di realismo (o almeno di mimesi della realtà) e nello stesso tempo parimenti analizzati come altrettanti tentativi di distrarci e di sviarci da quella stessa realtà o di mascherarne le contraddizioni per risolverle sotto le spoglie di varie mistificazioni formali.[17]”.

E la mistificazione più importante riguarda la scomparsa del «capitalismo» che non può essere pensato per «frammenti». La «postmodernità», allora, coinciderebbe con la fine della storia dei modi di produzione, il «capitalismo» fuori della storia sarebbe nella natura stessa delle cose. E la natura non può essere oggetto di analisi critica. Situazione tradotta in termini para-teorici dall’economista francese Alain Minc, oggi presidente di un’importante società finanziaria: «Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società»[18].

Mark Fisher, “Realismo capitalista”, Roma, Nero, 2018
Mark Fisher condivide l’interpretazione di Jameson del «postmodernismo» e, con lui, accetta come presupposto il fatto che il capitalismo abbia occupato tutto l’orizzonte del pensabile, «si sia sedimentato nel nostro inconscio, (…) abbia colonizzato i sogni delle persone e oggi [sia] un dato di fatto talmente accettato da non meritare più alcuna discussione»[19]. Contemporaneamente mette in evidenza che, allorché scriveva Jameson, «c’erano ancora delle alternative almeno a parole. Quello che invece stiamo affrontando adesso è un più profondo e pervasivo senso di esaurimento, di sterilità culturale e politica»[20].
Gli anni Ottanta, quando Jameson pubblicava il primo contributo sul postmodernismo, erano gli anni in cui prendeva corpo la dottrina thatcheriana del There is No Alternative, ma solo nel periodo seguente «il perfetto slogan realista capitalista – si trasformò in una spietata profezia che si autoavvera»[21]

Attraverso la «trasformazione dell’ideale in estetica, del coinvolgimento attivo in spettorialità, (…) il realismo capitalista si presenta come uno scudo in grado di proteggerci dai pericoli di qualsiasi ideale o credenza. L’atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. Abbassare le nostre aspettative è il piccolo prezzo da pagare per essere messi al sicuro da terrore e totalitarismi. (…)  Ci viene presentato come l’unico possibile e reale uno stato di cose brutale e profondamente ingiusto. Ma ci si dice che tutto il resto è orribile e criminale. (…) Uccidiamo iracheni coi nostri aerei, ma non tagliamo mica gole con i machete come in Ruanda.
Il realismo è qui analogo alla prospettiva al ribasso di un depresso che crede che qualsiasi stato positivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un’illusione pericolosa»[22].

È la scomparsa dell’antitesi che permette al capitale, divenuto ormai «totale», di cancellare un futuro che sia strutturalmente diverso dal presente. È un dato di fatto che il rapporto di forza tra la meccanica dominante nell’odierno processo di accumulazione e le forze in grado di opporvisi ha raggiunto uno squilibrio siffatto che la prima può imporsi quasi senza ostacoli. Ciò non significa che l’antitesi sia «scomparsa» né, soprattutto siano scomparse le condizioni per una sua ricostruzione. Facciamo fatica a individuarne momenti di solido perché è diventata «liquida», una componente sella «società liquida». Tuttavia in questa liquidità l’antitesi non si è dissolta, ma ha perduto il nucleo centrale aggregante, la classe operaia dell’Occidente industriale.

Gli operai non sono scomparsi, anzi il loro numero complessivo è aumentato negli ultimi trent’anni, diluendesi contemporaneamente nell’ambito del capitalismo-mondo. Nelle lezione dedicata alle ragioni per cui la cosiddetta accumulazione originaria è invece per sempre, abbiamo constatato la necessaria compresenza nella medesima temporalità di modi di produzione del plusvalore tipici di temporalità diverse. Una situazione  che si propone oggi in orizzonti sempre più ampi sia dal punto di vista spaziale che temporale. «È facile prendere la descrizione delle condizioni di lavoro oggi, per esempio nelle fabbriche di elettronica a Shenzhen, nelle industrie tessili del Bangladesh o negli sweat-shop di Los Angeles e inserirle nel classico capitolo di Marx sulla “giornata lavorativa” nel Capitale e non notare la differenza. È facile in modo sconvolgente prendere le condizioni di vita delle classi lavoratrici, degli emarginati e dei disoccupati di Lisbona, San Paolo e Jakarta e metterle accanto alla classica descrizione engelsiana del 1844 de La situazione della classe operaia in Inghilterra e trovarvi poca differenza sostanziale»[23].

Ora è possibile che la contraddizione capitale-lavoro possa non essere percepita come centrale nel contesto della società liquida, ma è certo che  nel suo ambito la ricostruzione dell’antitesi può avere funzione aggregante sull’intero panorama delle contraddizioni esistenti
Molti studiosi hanno sottolineato il fatto che «oggi ci confrontiamo con le stesse problematiche emerse alla fine del diciottesimo secolo»[24].
Nelle profonde differenze tra queste due diverse temporalità c’è però comune l’imprescindibile punto di partenza, allora per la costruzione dell’antitesi, ora per la sua ricostruzione: la resistenza.
Percorsi e modalità di aggregazione certamente diversi, ma senza la «resistenza» non si inizia nessun percorso.

Pure allora la resistenza iniziò contro il nuovo mondo disumanizzante, e divenne anche opposizione culturale all’insieme teorico che quel mondo rispecchiava e giustificava. Questo e non altro era il contesto da cui necessariamente sarebbe nata l’esigenza di un «mondo diverso», e dunque l’esigenza  di «cambiare il mondo». Il tutto nell’ambito, del  «pensiero unico» che svolgeva la nuova scienza, l’economia politica, molto più sulla base del paradigma del «prete delicato» Townsend, come lo chiama ironicamente Marx[25], che di quello di Adam Smith.
Joseph Townsend, medico e curato, nell’affrontare il problema della povertà e gli interventi per mitigarla (A Dissertation on the Poor Laws, 1786), propone il meccanismo di una completa naturalizzazione delle relazioni economiche, delle relazioni di dominio.

I poveri spiegava Townsend, erano naturalmente portati ai lavori servili e volgari, in modo da permettere ai «delicati» di dedicarsi alla loro superiore missione. Tale naturalità doveva essere assecondata non lasciando al povero vie d’uscita artificiali ai morsi della fame (Hunger will tame the fiercest animals, it will teach decency and civility, obedience and subjection)[26]. E Townsend continuava a spiegare che gli equilibri sociali erano soltanto il frutto dello svolgimento di «leggi naturali» così come l’equilibrio naturale delle isole di Juan Fernandez turbato dalla proliferazione eccessiva di capre immesse artificialmente era stato ristabilito dall’immissione di cani. La lotta per la vita aveva automaticamente eliminato gli individui inadatti alla sopravvivenza,  e ora gruppi selezionati di capre e cani forti vivevano in mutuo e vitale antagonismo. «Nessun governo era necessario per conservare questo equilibrio che si conservava da un lato per i morsi della fame, dall’altro per scarsezza di cibo. Hobbes aveva sostenuto la necessità di un despota perché gli uomini erano come bestie, Townsend insisteva sul fatto che in realtà essi erano bestie e che proprio per questa ragione era necessario soltanto un minimo di governo»[27].

E del resto oggi non ci viene continuamente ripetuta dai media, (assai spesso anche dagli economisti) la metafora della gazzella e del leone per invitarci comunque a correre già dalla mattina appena svegli?
Per quanto concerne questo aspetto le analogie tra la fase storica che stiamo vivendo e quella che, due secoli fa, vide nascere pressoché assieme Scienza Economica e moderno capitalismo industriale sono davvero impressionanti. I criteri dell’affermazione di una razionalità economica che diventa anche spiegazione e norma di nuovi rapporti sociali sono strettamente coniugati al dispiegarsi di un mutamento strutturale di carattere epocale.

Non c’è dubbio che l’attuale tendenza alla distruzione dello stato sociale, od alla sua configurazione come stato sociale minimo, abbia fortissime analogie con la lotta contro lo spirito di Speenhamland, lotta condotta con tanta energia nei primi decenni dell’Ottocento ed infine, nel 1834,  vittoriosa. A Speenhamland nel 1795 i magistrati del Berkshire avevano legato i sussidi salariali per i lavoratori poveri all’evoluzione del prezzo del pane. Una sorta di scala mobile che trasformava una parte del salario in una variabile indipendente dalla prestazione lavorativa. Nella società dell’ homo oeconomicus, ovviamente, non poteva esservi alcun posto per leggi ispirate a quel diritto di vivere del tutto estraneo ai rapporti naturali  secondo razionalità economica.

Dunque quel nuovo fondamentale fattore di storia che per più di un secolo e mezzo è stato il movimento operaio, quella novità assoluta di un’«azione operaia che rimette in discussione i rapporti di produzione in nome della produzione stessa»[28], ha le sue basi nella resistenza contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo «pensiero unico» del paradigma di Townsend.
Si riparte sempre da una resistenza.  Quella che è stata fino a non molto tempo fa la storia del movimento operaio ha avuto una caratterizzazione sempre scandita dal conflitto, dagli scioperi. In particolare  nel momento fondante di tale storia ed in genere nei momenti di mutamento profondo del ciclo e dell’organizzazione del lavoro. In genere, proprio in quei momenti, gli scioperi falliscono. Alcuni scioperi sfidano evidentemente le ragioni delle «compatibilità» e magari sembrano difendere modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico. Eppure furono proprio i «fallimenti», gli «anacronismi» a creare quelle organizzazioni nuove e quel nuovo spirito collettivo che fu determinante per arrivare anche a nuove relazioni sociali.

Nelle pieghe del capitalismo reale, del capitale-totale nel nostro tempo, ci sono, numerosi, semi di questa pianta ed anche qualche germoglio. A differenza delle streghe shakespeariane, noi non possiamo sapere se si trasformeranno in piante forti e rigogliose. Ma sappiamo che le possibilità che ciò avvenga hanno fondamento. Nelle seconda modernità si sono verificate. In questa possibilità/ probabilità consiste, secondo un usato modo di dire, la libertà della storia, il suo essere irriducibilmente antidetermista.
Persino in questo suo libro «disperato» Mark Fisher non può fare a meno di avvertire: «Vale la pena ricordare che anche quello che oggi va sotto la voce di “realistico” fino a non molto tempo fa era ritenuto “impossibile”»[29].

[1] S. Homer-D. Kellner, Introduction, in Aa.Vv., Fredric Jameson: a Critical Reader, Palgrave Mc Millan, New York 2004, p. XII.

[2]F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, cit. p. 15

[3] V. Ronchi, Voci del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014, p. 44.

[4] P. Mason, Postcapitalismo,. Una guida al nostro futuro, Milano, ilSaggiatore, 2016.

[5]S. Zizek, Come un ladro in pieno giorno. Il potere nell’epoca della postumanità, Firenze, Ponte alle Grazie, 2019.

[6] Precarietà e postdemocrazia, Intervista di B. Vecchi a C. Crouch, «il manifesto», 27 ottobre 2019.

[7] R. Mordacci, La condizione neomoderna, Torino, Einaudi, 2017.

[8] J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981, (Paris, 1979).

[9] R. Musil, L’uomo senza qualità, Milano, Mondadori, 1992, Vol. I. pp. 70-71.

[10] Il primo saggio è del 1984) p. 326.

[11] A. Adam, Introduction, a C. Baudelaire, Le Fleurs du Mal, Paris, Garnier Fréres, 1961, p. XXII.

[12] C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna (1863), Opere, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1285-1286.

[13]F. Jameson, Prefazione all’edizione italiana, Idem, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, cit. p. VII.

[14] D. Balicco,  Nietzsche a Wall Street, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 111.

[15] G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, cit., p. 261.

[16] F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, cit., pp. 35-36.

[17] Ivi, p. 65.

[18] Cit. in P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2013, p. 6.

[19] M. Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 37.

[20] Ivi, p. 35.

[21] Ivi, p. 36.

[22] Le cit. pp. 31 e 32.

[23] D. Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 288.

[24] C. Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, cit., p. 56.

[25]K. Marx, Il Capitale, Vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 798. Idem, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Meoc, vol. XXX, 1986, p. 242.

[26] J. Townsend, A Dissertation on the Poor Laws, https //socialsciences.mcmaster.ca › ugcm, sect. IV.

[27]K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 145.

[28]D. De Masi, Introduzione a Touraine, Wieviorka, Dubet, Il Movimento Operaio, Milano, Angeli, 1984, p. 59.

[29] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 52.



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