A proposito di turismo

La prima estate del governo Meloni volge al termine, e a livello globale coincide con una netta ripresa del turismo dopo la pandemia. È il momento giusto per alcuni bilanci e spunti di riflessione, tra le strategie di Santanché, i trionfalismi di Sangiuliano e sullo sfondo degli accadimenti politico-economici mondiali.

Mariasole Garacci

Dopo la flessione negativa dovuta alla pandemia (e sperando di non dovere affrontare la prossima), le ultime due estati sembrano aver portato in Italia un decisivo aumento del flusso turistico: per farsene un’idea, è sufficiente ascoltare le dichiarazioni dei politici, da una parte, e le preoccupazioni e i disagi espressi dalle popolazioni locali, dall’altra. Tuttavia, il turismo è un argomento sul quale la politica e l’informazione indulgono in una propaganda trionfalistica che, così come le impressioni empiriche sul suo andamento, si scontra con dati talvolta difficili da interpretare. Per esempio, secondo i rilievi della Banca d’Italia pubblicati a giugno 2023 e relativi al 2022, rispetto all’anno precedente c’è stato un incremento della spesa dei viaggiatori stranieri in Italia e dei viaggiatori italiani all’estero, con un ritorno ai valori del PIL precedenti alla pandemia; però in termini reali (tenendo conto, cioè, dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi) la spesa risulterebbe ancora inferiore di quasi il 10%. Dobbiamo ancora attendere dati relativi all’anno in corso, ma sostenere acriticamente che l’Italia si stia arricchendo con il turismo è un po’ avventato e superficiale se non si prendono in considerazione dinamiche più ampie e complesse su cui proverò a ragionare qui.
Certamente, dal mio punto di osservazione sul campo (quello di guida turistica regolarmente autorizzata, ma anche di ricercatrice indipendente), posso testimoniare un aumento dei turisti rispetto alla fase subito successiva alla pandemia; purtroppo, concentrato prevalentemente nei mesi estivi e in alcuni luoghi, comportando situazioni davvero sgradevoli. Manca ancora gran parte del turismo orientale, proveniente dalla Russia (per i tristemente noti fatti geopolitici) e dalla Cina, il Giappone e la Corea (dove le restrizioni ai movimenti per motivi sanitari si sono protratte per larga parte del 2022, e che però quest’anno ho visto riaffacciarsi). Londra e Parigi, intanto, restano in vetta alla classifica delle mete europee.
Come interpretare questo stato di cose apparentemente contraddittorio? Un’ipotesi che ritengo valida è che la nostra percezione sia prodotta dalla claudicante gestione del turismo e dalla quasi totale conversione di molte nostre località a questo settore, più che dal numero reale di presenze. Il fenomeno dell’overtourism, ormai arcinoto ed evocato in molti articoli e saggi degli ultimi anni, deve individuarsi anche nella percezione e nell’impatto socioculturale negativo che esso comporta sugli abitanti attraverso l’aumento del costo dell’abitare, lo sfaldamento della relazione tra gli abitanti locali e i loro luoghi, l’insostenibilità del costo (o della distanza fisica) della cultura per i cittadini italiani meno abbienti.

Se valutiamo il momento attuale nella prospettiva della storia contemporanea del turismo di massa, è ormai acquisita l’aumentata capacità di spostamento del ceto medio quale fattore fondamentale. Dunque ci si potrebbe aspettare che l’attuale livello di inflazione delle economie occidentali, contestualmente alla contrazione del potere d’acquisto, abbia prodotto una diminuzione del turismo di massa e, per la gioia di quei politici e giornalisti che ogni tanto lanciano strali verso il visitatore con il pranzo al sacco, una flessione verso il cosiddetto luxury travel. Effettivamente, secondo dati pubblicati da ENIT a marzo 2023, quest’ultimo segmento mostra la tendenza a una crescita lenta e costante. Del resto, in generale gli americani sono stati primi nella classifica delle presenze, nonostante le turbolenze dell’euro-dollaro e l’inflazione non paragonabili, comunque, alla crisi economica del 2008.
Soprattutto, però, il problema del turismo resta una combinazione letale tra l’impatto socioculturale e ambientale, prodotto da questa specie di industria pesante, e la gestione, gli scopi, la cultura stessa del turismo: musei e siti archeologici trasformati in sovraffollati blockbusters intorno ai quali prolificano disordine, inerzia e opacità; il basso livello dei servizi; monumenti messi a profitto (penso al Pantheon, per il quale è stato istituito un biglietto a pagamento). Durante la pandemia alcuni osservatori diretti, giornalisti e studiosi avevano cercato di indicare le criticità del turismo di massa, e di fornire spunti di riflessione utili a invertire questo meccanismo (o almeno, provarci); ma sono rimasti inascoltati. Non è cambiata, per esempio, la considerazione del patrimonio storico, artistico e culturale come una risorsa da cui estrarre un valore economico che raramente è restituito in termini di sviluppo globale alle comunità che quell’impatto devono sostenere, né il fatto che monumenti e musei vengano spesso valutati positivamente in base al numero di visitatori senza sufficiente considerazione della qualità della visita, che è invece un elemento fondamentale per l’educazione e il godimento della bellezza. Eppure, se ripenso a quel momento di stasi quasi totale nel 2020, c’era qualcosa di molto importante e quasi commovente nel fatto che proprio mentre tutto era fermo e i lavoratori del settore erano disperati, si riuscisse a parlare di come avremmo voluto che fosse il domani. Quel momento ci ha fatto intravedere come avremmo voluto vivere le nostre città e interagire con le nostre bellezze: come luoghi ed eredità che hanno una funzione reale e attiva nella vita civile. Ma la politica e le istituzioni competenti non hanno fatto molto per dare forma a quella visione. Perché, e lo abbiamo visto con la Venere influencer, i soggetti preposti, dal Ministero del Turismo all’ENIT, non si comportano come attori politici il cui scopo sia la crescita culturale, sociale e, certo, anche economica del Paese (e dunque in grado di elaborare interpretazioni complesse della realtà e produrne propositi e indirizzi); ma come agenzie turistiche il cui scopo è solo la crescita economica di un settore che, peraltro, è in larga parte lasciato in mano privata. Si tenta, insomma, di innescare un meccanismo di trickle-down sperando che questo porti vantaggi per il resto della cittadinanza e per l’economia italiana attraverso l’indotto e la circolazione del denaro. Ma siamo certi che questa proiezione funzioni sempre e che non comporti una costosa contropartita nella durata?

Tornando al turismo di massa, e alle sue molte contraddizioni legate al potere economico dei viaggiatori (uno dei nodi nevralgici raccontati da Marco D’Eramo nel suo libro Il selfie del mondo, del 2017), è impossibile ignorare che moltissime persone, ormai, possono permettersi di spostarsi e visitare una città d’arte; però non riescono a fermarsi abbastanza a lungo o ritornarci, e devono quindi concentrarsi su quegli highlights irrinunciabili, must-see sempre più affollati e disagevoli. Recentemente, parlando dell’aumento dei biglietti d’ingresso ai musei, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha detto che la visita agli Uffizi non può costare quanto una pizza, perché si tratta di “un’esperienza di vita, unica e irripetibile”. Ebbene, non dovrebbe affatto essere unica e irripetibile. Bisognerebbe creare le condizioni perché i musei e i luoghi della cultura siano luoghi da frequentare quotidianamente, dove tornare per studio, per passatempo, per esercizio di cittadinanza. E, del resto, non c’è nulla di unico e particolarmente emozionante nel trovarsi accalcati in un fiume umano che scorre lungo la galleria di un museo.
Spesso sono i turisti a essere biasimati per questo stato di cose. Ogni estate mi capita di leggere l’intervento di qualcuno che, senza aver approfondito tali dinamiche, tuona contro quei visitatori del nostro Paese colpevoli di non essere ricchi, colti ed eleganti come li vorremmo (e bisognerebbe stabilire se noi, per primi, rispondiamo a questo parametro antropologico). Lo ha fatto, per esempio, Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera lo scorso 18 giugno, in una spericolata associazione tra le “torme di turisti del tutto privi di rispetto e di consapevolezza” che avrebbero trasformato Roma “in un parco giochi, nel silenzio e a volte con la complicità degli amministratori”, e l’inaccettabile morte di un bambino di cinque anni investito da un’automobile.
Per come la vedo io, il rapporto di responsabilità tra coloro che vengono in visita in Italia investendo tempo, denaro e aspettative e chi li accoglie (in primis gli amministratori) è diametralmente invertito: non sono i turisti ad aver trasformato la città in un parco giochi, e non ci si dovrebbe permettere di considerare queste persone dei barbari invasori ma cittadini che hanno diritto di accedere a un patrimonio universale che, a dispetto dell’orgoglio campanilista, è anche il loro, e di cui noi siamo eredi e custodi. Tutti hanno il diritto di incontrare la bellezza, e di essere posti nella condizione materiale e intellettuale di annoverare tale incontro tra i momenti realmente salienti della propria vita. Scopo e responsabilità precipue dagli enti preposti al turismo è assicurare il valore culturale e umano della visita. Ma questo non è possibile senza entrare nelle problematiche evocate sopra e senza pensare il turismo come una forma di fruizione della cultura, oltre che come un settore economico.
Purtroppo, la combinazione tra un più esteso accesso alla cultura (e ai consumi) e i fenomeni prodotti dal turismo di massa è uno dei paradossi di un modello democratico cui, evidentemente, manca qualcosa per essere davvero tale (e ciò vale, io credo, anche al di fuori del tema affrontato qui). E, del resto, dietro la democratizzazione del turismo c’è sempre l’occasione per l’esclusività (cioè per l’esclusione): chi può permetterselo gode di aperture private straordinarie e può visitare luoghi, o sezioni di luoghi, che normalmente sono chiusi al pubblico proprio per essere protetti dall’afflusso giornaliero di turisti (ecco un caso in cui, per un perfido paradosso, è la democratizzazione della cultura a ritagliare spazi di esclusione) o per mancanza di investimenti, di interesse, e altre ragioni. Il privilegio, insomma, diventa la possibilità di ricreare proprio la solitudine e la quiete necessarie a una significativa connessione con l’opera d’arte.
Questi sono, ora, i veri problemi del turismo (ma anche i margini di miglioramento e lavoro). Rinunciamo, almeno momentaneamente, ad effimeri trionfi. Consentiamoci di lasciare in secondo piano i numeri e le percentuali. E concentriamoci su altri aspetti. Altrimenti, ad attrarre le persone nel nostro Paese sarà sempre e soltanto quel letto di allori (e di fragile bellezza) su cui riposiamo da secoli, costituito da ciò che i nostri antenati hanno creato, più che politiche consapevoli volte a uno sviluppo culturale duraturo, profondo e realmente democratico.
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CREDITI FOTO Flickr | Marco Donati



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