Stanno tutti bene. A Venezia 80 il cinema italiano va forte, ma va solo al maschile

Con ben sei pellicole in concorso e numerose altre presenze, il cinema italiano si è presentato a Venezia in tutto il suo vigore, mostrando varietà di registri e immaginari. Questo se si vuole non vedere quanto pesi l’assenza delle donne, a segnare una cultura escludente a monte, che comincia togliendo loro spazio già in sede di produzione.

Barbara Sorrentini

Questo articolo è un’anticipazione dello speciale di MM+ dedicato all’80° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia che uscirà domani, venerdì 8 settembre. Abbonati per leggerlo.

I sei film italiani in concorso a Venezia 80 descrivono una certa varietà stilistica nel panorama cinematografico di questo paese. Non c’è un filo conduttore, non c’è una similitudine di stili o di genere, non c’è un’unità di luogo e si potrebbe andare avanti con altre caratteristiche proprie di ognuno di loro e che vedremo più avanti. Intanto però fa riflettere il fatto che su sei film italiani selezionati per il Leone d’Oro non ci sia neanche un film diretto da una donna. È una mancanza che probabilmente va cercata a monte, perché evidentemente le produzioni al femminile degne di stare in un concorso ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia si contano con le dita di una mano. Bisognerebbe farsi delle domande a cui segue una sola risposta: negli altri paesi evidentemente c’è più spazio e vengono coltivati talenti in maniera più equilibrata. Tornando ai film del concorso, si tratta di sei titoli originali e differenti tra loro. Si potrebbe dire che l’unico elemento comune, ma solo tra due film è Pierfrancesco Favino, protagonista di Comandante di Edoardo De Angelis oltre a uno dei personaggi di Adagio di Stefano Sollima. Cito Favino volutamente per sfiorare il caso che lo ha coinvolto nei giorni della Mostra del Cinema, quando durante la conferenza stampa di Adagio ha fatto partire il dibattito sulle produzioni americane in Italia che non utilizzerebbero maestranze del luogo. Osservazione corretta ma forse mal interpretata, o mal posta, tant’è che poi è stata cavalcata dal Presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati Federico Mollicone per farne una questione di orgoglio nazionale. È bello quando un regista straniero riesce a sfruttare i talenti del territorio in cui va a girare, come ha fatto per esempio Woody Allen con il suo Coup de Chance, girato a Parigi, con attori e attrici francesi e ovviamente in lingua francese. Ed è sicuramente avvilente che l’Italia non sia riuscita a stabilire delle regole quando le produzioni americane ricevono dei soldi, grazie al tax credit, per venire a girare in Italia storie come quelle di Ferrari o Gucci. Due film interpretati anche in modo eccellente da Adam Driver che si è trovato suo malgrado nell’occhio del ciclone. Il dibattito è ancora aperto, ma ricordiamoci che la storia del cinema è costellata da interpretazioni magnifiche di attori internazionali come Burt Lancaster nei panni del Principe di Salina in Il Gattopardo di Luchino Visconti o Marlon Brando che dà il volto a Don Vito Corleone in Il Padrino di Francis Ford Coppola. Ma torniamo ai film selezionati nel concorso ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia e in gara per il Leone d’Oro.
Nel libro Comandante, scritto a quattro mani dallo scrittore Sandro Veronesi e il regista Edoardo De Angelis, nell’introduzione di Veronesi si legge che la storia del comandante Salvatore Todaro viene raccontata per ricordare che i salvataggi in mare dovrebbero essere un imperativo categorico. È evidente il richiamo con l’attualità, con la negligenza di chi respinge e permette che migliaia di persone in arrivo sulle nostre coste muoiano in mare. La storia esemplare di Todaro risale alla Seconda Guerra Mondiale, quando nel 1940 il comandante del sottomarino Cappellini portò in salvo l’equipaggio di una nave di Belgi, affondata dalle sue truppe dopo essere stati attaccati. Quindi, per difendersi hanno incendiato il barcone e poi offerto ai naufraghi le scialuppe di salvataggio. Il libro nasce contemporaneamente al film, con i ritratti di chi si trovava a bordo, ognuno con la propria mansione e dialetto d’origine. La Campania, la Sicilia, il Lazio; il comandante Salvatore Todaro è interpretato da Pierfrancesco Favino, che recita con forte cadenza veneta. Comandante è ambientato quasi interamente all’interno del sommergibile e in mezzo al mare con alcuni momenti nello stile di un film d’azione. Edoardo De Angelis si sofferma sui personaggi, sui loro racconti e sulle loro storie, descrivendoli attentamente riuscendo a ricostruire un’epoca e un contesto storico in un unico spazio. La storia la ritroviamo anche nel film Lubo di Giorgio Diritti. Il film inizia nel 1939, quando Lubo interpretato dall’attore Franz Rogowski viene chiamato in guerra dall’esercito elvetico in difesa dei confini dall’invasione tedesca. Lubo e la sua famiglia sono nomadi Jenish, si esibiscono per strada e al momento della chiamata in guerra i bambini vengono portati via per un programma di rieducazione della Pro Juventute, fondata nel 1921 in Svizzera con l’intento di sostenere i diritti e le esigenze dei bambini. Tra il 1926 e il 1973 la Pro Juventute mise in atto in Svizzera una campagna di ispirazione nazionalista denominata «Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse» (Opera di soccorso per i bambini della strada) perché i parametri applicati dalle autorità nel primo ‘900, i nomadi erano considerati pericolosi e da tenere a bada con metodi repressivi.  La campagna consisteva nell’ allontanamento forzato dai propri genitori di bambini appartenenti al gruppo Jenisch. E con il sostegno delle autorità svizzere i bambini Jenisch vennero sistematicamente sottratti alle loro famiglie e collocati in case, famiglie affidatarie, orfanatrofi, istituti psichiatrici e prigioni. Molti di loro subirono violenze e furono sfruttati come manodopera a basso costo, le ragazze venivano sterilizzate. Parte da qui il film di Giorgio Diritti, per poi intraprendere il viaggio di Lubo, in fuga dalla guerra e alla ricerca della sua famiglia. Un percorso sotto mentite spoglie, con una falsa identità, furti, menzogne e incontri pericolosi. Fino alla scoperta della verità. La storia diventa il contesto giusto per raccontare a cosa porta la disperazione, al cambiamento come unica forma di salvezza. Giorgio Diritti aveva già affrontato pagine storiche. Difficile dimenticare la ricostruzione dell’eccidio di Marzabotto del 1944, nel suo film L’uomo che verrà, girato nella zona di Monte Sole con una ricostruzione impeccabile dell’epoca. Un’altra faccia della storia, quella cinematografica fa da sfondo a Finalmente l’alba di Saverio Costanzo. La Roma degli anni ‘50, in una Cinecittà che ricorda un po’ Bellissima di Luchino Visconti, con una superba Anna Magnani. Seguiamo Mimosa, interpretata dalla giovane attrice Rebecca Antonaci, in una sola notte. Diventa figurante in un peplum di produzione americana, accanto a star internazionali (Lily James e Joe Keery) e a produttori viscidi, che ricordano quelli denunciati dal movimento mee too. Sullo sfondo risuonano gli echi del caso irrisolto legato all’omicidio di Wilma Montesi nel 1953 su una spiaggia a Torvaianica. Anche questo terzo film ha un suo stile, che si discosta dagli altri in concorso, rifacendosi al passato della fabbrica dei sogni in cui sembra che tutti vivano sotto a un velo di polvere, in cui può comparire persino Alida Valli interpretata da Alba Rohrwacher. Restiamo a Roma con “Adagio” ed “Enea”. Diversissimi, in comune hanno solo la città. Presa da punti così differenti che potrebbe anche non essere la stessa. Stefano Sollima con Adagio mette insieme un gruppo di attori composto da Adriano Giannini, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva e l’esordiente Gianmarco Franchini. Una Roma che brucia, maledetta e che si inserisce come ultimo capitolo della trilogia di Sollima, dopo ACAB e Suburra. Ci si perde tra le luci e le ombre in cui si muovono i protagonisti, tra regolamenti di conti e inseguimenti. Enea di Pietro Castellitto è invece in una Roma borghese. Al centro c’è una famiglia, quella di Enea, interpretato dallo stesso Pietro, che si porta in scena anche il padre Sergio Castellitto e il fratello Cesare, anche nel film. Famiglia cinica e arrivista? In realtà no, ma bisogna scavare molto per capirlo. Secondo film, dopo “Predatori”, meno arrabbiato, più ironico e antropologico nello studio dei caratteri di una generazione perduta nell’incapacità di scegliere la strada giusta. Il linguaggio è personalissimo, spezzettato e originale, ma alla fine si riesce a rimettere insieme i pezzi. Il sesto film del concorso è “Io Capitano” di Matteo Garrone, che ci porta in Senegal, nel villaggio di due ragazzini minorenni che a un certo punto decidono di partire per l’Europa, dove immaginano che si potrebbe avere successo come musicisti. Se ne vanno di nascosto, pagando l’impossibile per avere un passaggio in auto, attraversando il deserto, perdendosi e subendo torture. Il viaggio dall’Africa verso le coste italiane è raccontato da Garrone con estremo realismo nei dettagli ma con uno stile epico e picaresco. “Io Capitano” può essere letto come una dimostrazione reale di quello che accade a chi lascia il proprio paese, invitando i governi a farsi carico in modo legale e dignitoso degli spostamenti dei migranti.
Alla fine della visione di questi film, che usciranno al cinema e poi andranno su qualche piattaforma (per esempio “Adagio” sarà su Netflix) la sensazione è che il cinema italiano abbia ancora molto da dire. La spesa complessiva e gli investimenti per realizzare queste opere è alta. È stato calcolato un investimento che gira intorno ai 150 milioni di euro. Sono film che hanno tutti i requisiti per essere comprati all’estero, alcuni di questi (Lubo e Finalmente l’alba) hanno un cast internazionale. Anche le produzioni presentate in altre sezioni del festival: Orizzonti, Giornate degli Autori, Settimana della Critica sono di buon livello. Sezioni in cui vediamo anche presenze femminili, Micaela Ramazzotti con Felicità o About last year diretto Dunja Lavecchia, Beatrice Surano, Morena Terranova. La varietà delle tematiche rende più viva la partecipazione al cinema di un pubblico con gusti differenti. Alcuni di questi lavori hanno un forte impatto politico, Comandante e Io Capitano, si concentrano su un tema importante; da una parte l’essenzialità dei salvataggi in mare e dall’altra i viaggi disperati e con poca speranza che fanno i migranti per raggiungere le nostre coste.  Ci sono film con accenni storici che rimandano all’oggi (Lubo) e analisi sociali urbane, dalle periferie alla malavita come in Adagio o all’interno di nuclei borghesi che non riescono a mantenere un equilibrio etico e morale all’interno della propria famiglia, come in Enea.
Il cinema in Italia sta abbastanza bene, al di là dei gusti e le preferenze personali. Bisogna sperare che questo andamento sia mantenuto, estendendolo anche a produzioni più piccole e che non si tratti di un breve momento in stato di grazia.
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