Aborti negati e gravidanze a rischio: l’impatto della guerra sul corpo e sulla vita delle donne

In Polonia, dove hanno trovato rifugio più di 2 milioni di ucraini, perlopiù donne e bambini, l’aborto è di fatto vietato. Cosa che ha messo le profughe bisognose di questo intervento di fronte a tutte le difficoltà vissute (e denunciate) dalle donne polacche.

Ingrid Colanicchia

La guerra in Ucraina, come qualsiasi guerra, è anche un’emergenza in termini di salute e diritti riproduttivi. Non a caso l’Unfpa, l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva, sin dall’inizio dell’invasione ha espresso forte preoccupazione per l’impatto del conflitto sulla vita di donne e ragazze, richiamando tra l’altro l’attenzione sul fatto che, secondo le stime, nei prossimi tre mesi saranno circa 80 mila le donne che partoriranno in Ucraina, molte delle quali senza accesso all’assistenza sanitaria fondamentale.

Da un lato quindi, tra le tante, la storia di Mariia Shostak che ha iniziato ad avere le contrazioni il 24 febbraio, ha partorito in ospedale con un taglio cesareo e ha visto la prima volta suo figlio nel seminterrato dell’ospedale mentre risuonavano le sirene antiaeree o quella, meno “fortunata”, che abbiamo conosciuto tutti attraverso un’immagine che ha fatto il giro del mondo: quella della donna incinta stesa su una barella, ferita a seguito del bombardamento di un ospedale di Mariupol e morta assieme al neonato nonostante il  cesareo d’emergenza.

Dall’altro quella di quante, fuggite dal Paese, sperimentano le restrizioni in materia di accesso all’aborto della vicina Polonia (dove si stima che abbiano trovato rifugio più di due milioni di ucraini, perlopiù donne e bambini).

Nella patria di Radio Maryja e dell’organizzazione ultraconservatrice Ordo Iuris, l’aborto è infatti permesso solo in caso di minaccia per la vita o la salute della gestante e, limitatamente alle prime 12 settimane, in caso di fondato sospetto di stupro o incesto (confermato da un magistrato). Una situazione ben diversa da quella dell’Ucraina, dove l’aborto è consentito fino alla 12a settimana (e, trascorso questo periodo, in caso di minaccia per la vita e la salute della gestante, in caso di malformazioni gravi e irreversibili del feto, o in caso di stupro o incesto), che ha messo le profughe bisognose di questo intervento di fronte a tutte le difficoltà vissute (e denunciate) dalle donne polacche.

«Le ucraine si sono rifugiate in un Paese in cui è totalmente vietato l’aborto», ha dichiarato il mese scorso a Vice Krystyna Kacpura, a capo della Federacja na rzecz Kobiet i Planowania Rodziny (Federazione per le donne e la pianificazione familiare), raccontando che la sua organizzazione ha ricevuto così tante richieste di aiuto da decidere di lanciare una linea di assistenza.

Stesso quadro dipinto da Aboracyjny Dream Team, organizzazione polacca che fa parte di Abortions Without Border e che aiuta le donne ad accedere all’aborto o all’estero o in via farmacologica, e che ha reso noto che sono decine e decine le donne ucraine che hanno preso contatto con loro con la richiesta di accesso a un aborto sicuro.

Ovviamente è più che possibile che tra esse ci siano anche donne che hanno subìto violenze sessuali durante il conflitto prima di riparare in Polonia, ma a riguardo la posizione delle attiviste di Aboracyjny Dream Team è molto chiara: «Non chiediamo le ragioni dell’aborto, per non creare pressioni e per non costringere nessuno a dare spiegazioni. Crediamo che l’aborto dovrebbe essere disponibile senza dover fornire una motivazione. Tuttavia, ci sono donne che condividono le proprie storie. E tra queste ci sono donne che volevano portare a termine la gravidanza, ma che sono state private del senso di sicurezza dalla guerra e dalla necessità di fuggire. Per questo hanno deciso di interrompere la gravidanza».

E non basta. Secondo gli studi, non solo la violenza sessuale, come noto, è usata come arma di guerra (l’ultimo rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale connessa ai conflitti mette in evidenza gli schemi all’opera in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Libia, Mali, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Repubblica araba siriana e Yemen), ma più del 20% di donne e bambine rifugiate è esposto a violenza sessuale. Per questo, nel breve periodo, qualsiasi intervento non può prescindere da una prospettiva che tenga conto di tutto ciò. Lavorando, nel lungo periodo, affinché nessuna donna debba spiegare perché ha deciso di abortire. In Polonia, come altrove.

Credit immagine: Donne e bambini fuggiti dall’Ucraina sono scortati da un volontario al valico di frontiera di Medyka, appena oltre il confine ucraino, sul lato polacco. Foto: ANSA Christoph Soeder/dpa

 



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