L’aborto negli Stati Uniti, punto dolente della democrazia

Ciò che sta accadendo sull'aborto è l'ennesima dimostrazione dell’obsolescenza della costituzione americana.

Mauro Barberis

La Costituzione federale statunitense (1787) ha duecentocinquant’anni, e li dimostra tutti: specie per la forma di governo, nella quale il Presidente tende ormai a prevalere sul Congresso, e la Corte suprema, un tempo guardiana dei diritti, si politicizza ogni giorno di più. Si credeva che il punto più basso fosse stato raggiunto con la presidenza Trump, e l’assalto finale al Campidoglio: ma la sua presidenza ha sparso semi avvelenati. La tempesta perfetta che si sta scatenando sull’aborto, dopo la pubblicazione da parte del sito politico.com dei lavori preparatori di una sentenza della Corte che, da qui a giugno, lo limiterebbe irrimediabilmente, è un’altra dimostrazione dell’obsolescenza di una costituzione servita a costruire la maggiore potenza mondiale, e che ora sembra solo contribuire a dividerla.

Ricordate quando, alla fine della presidenza Obama, il presidente nero non riuscì a nominare uno dei nove giudici della Corte suprema per il boicottaggio della maggioranza repubblicana del Senato? E allora neppure si immaginava che il successore di Obama sarebbe stato Trump, il quale ne ha poi approfittato per nominare lui, l’uno dopo l’altro, altri tre giudici, l’uno più retrivo e più giovane dell’altro (alla Corte le nomine sono a vita…) sbilanciandone definitivamente l’equilibrio a favore della destra: sei a tre, oggi. Bene, negli ultimi cinquant’anni, a ogni nomina di un nuovo giudice della Corte, la prima domanda che tutti si fanno è: come la penserà sull’aborto?

I cinquant’anni decorrono dalla sentenza Roe v. Wade (1973), che con una motivazione semplicistica, basata sul solo principio della privacy della donna, la proprietà sui frutti del proprio corpo, fece dell’interruzione di gravidanza un diritto tutelato dallo Stato federale. Anche questa debolezza giuridica originaria, forse, ha contribuito a fare di Roe v. Wade il tallone d’Achille del progressismo statunitense: le corti costituzionali europee, più ragionevolmente, hanno cercato di bilanciare due principi, la vita del concepito e la salute della donna. Si arriva così al paradosso odierno: mentre la cattolicissima Colombia porta a 24 settimane dal concepimento il limite entro il quale la donna può abortire, e la laica Francia a 14 (in Italia sono 12), gli Stati del Sud e del Midwest degli Usa potrebbero tornare a criminalizzare l’aborto. Costringendo le donne che vogliono interrompere la gravidanza a lunghi e costosi viaggi per andare a farlo in Stati liberal come la California, salvo tornare ad affidarsi a quelle che in Italia, ai tempi, si chiamavano mammane.

Il principio su cui si basa il documento preparatorio del giudice Alito, e riconosciuto dal Presidente della Corte Roberts come autentico ma non definitivo, pare il seguente. La Corte decide solo sui diritti espressamente riconosciuti dalla Costituzione federale: e fra questi l’aborto non c’è. Quindi, sul tema dovrebbero decidere il Congresso, oggi diviso pure lui, oppure i parlamenti statali: insomma la democrazia. Ma nella Costituzione federale, se è per questo, non è vietata neppure la schiavitù: il Texas, faccio per dire, potrebbe dunque reintrodurla a maggioranza? Detto altrimenti, la democrazia liberale o costituzionale – nella quale i diritti sono tutelati da istituzioni indipendenti come le Corti supreme o costituzionali anche contro maggioranze reazionarie – non viene solo aggredita militarmente in Ucraina. È attaccata anche dall’interno degli Stati Uniti, dagli stessi giudici che dovrebbero difenderla.

 



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