Adam Zagajewski, con l’arma della poesia per la democrazia

Ricordiamo il grande poeta polacco scomparso all'età di 75 anni con questa intervista uscita sul numero 5/2017 di MicroMega.

Irena Grudzińska Gross

Conversazione con Adam Zagajewski di Irena Grudzińska Gross da MicroMega 5/2017

Oggi parliamo di politica, anche se nessuno di noi due se ne occupa a livello professionale. La politica si occupa però di noi e risulta dunque difficile tenersene a distanza, non è vero?
È proprio così, la politica si occupa di noi. Per molti anni non mi sarebbe mai passato per la testa di «prendere posizione sulla politica»: la democrazia all’insegna della Platforma Obywatelska (Piattaforma civica) – imperfetta, grossolana, spesso noiosa – non mi ha mai spinto a farlo. Gli autori più giovani, per lo meno alcuni di loro, hanno affrontato talvolta la questione della fenomenologia delle multinazionali, che erano il nemico numero uno. E basta. Tutto ciò è cambiato dopo la presa del potere da parte degli angry old men del PiS (Prawo i Sprawiedliwość – Diritto e giustizia).

Dopo la presa del potere da parte del PiS hai scritto una poesia per te piuttosto anomala, perché molto amara e ironica, nonché dotata di un messaggio politico diretto. Permettimi di citarne qualche frammento:

Qualche consiglio per il nuovo governo

Abbiamo un nuovo governo.

Tra i membri di questo nostro governo ci sono molti ministri brillanti.

Uno dei nostri ministri parla l’inglese.

Il nostro nuovo governo si è messo al lavoro di buona lena.

Purtroppo non agisce in maniera abbastanza decisa

quando ci sono ancora così tanti liberali impenitenti;

in alcune città sono addirittura di più

rispetto alle tradizionali famiglie cattoliche.

Cos’altro potrebbe fare il nostro governo?

Non può lasciarsi guidare dal sentimentalismo

tipico dei politici occidentali.

Una notte bisognerebbe fucilare qualcuno

di quei registi, senza risparmiare le donne.

Tutti i professori di diritto costituzionale

andrebbero internati a vita.

I poeti possono essere lasciati in pace,

tanto nessuno più li legge.

[…]

Proprio ora gli si è presentata un’occasione storica.

Sarebbe un peccato non approfittarne.

Voglio ricordare anche un’altra tua poesia, piuttosto datata, un elogio della legge, scritta contro il governo comunista di allora:

La Legge

È invisibile, trasparente, col colorito anemico di un ragazzetto malaticcio che tenta di risolvere degli indovinelli; inaccessibile all’emotività di un poeta; adora i balli in maschera, indossa abiti da donna, si cela sotto le tonalità color cenere delle parrucche.

Ma nonostante tutto è proprio lei, tenace come le molle degli orologi sulle torri dei castelli, che sopporta e dà forza alle braccia delle persone libere 1.

In un’intervista hai affermato di aver scritto quella prima poesia «colto dalla rabbia e dall’irritazione, dalla collera causata dal fatto che qualcuno si stesse appropriando del paese, che appartiene a tutti, non solo ai nazionalisti cattolici. Mi ritengo un patriota e sono cattolico», spiegavi, «ma di sicuro non sono un nazionalista cattolico. Quella poesia è un componimento satirico pieno di rabbia, una provocazione». Firmi lettere di protesta, concedi interviste su temi politici… Si tratta di un ritorno all’attivismo politico come negli anni precedenti al 1989?

Esatto. Adesso come ai tempi della Repubblica popolare polacca il governo ci dice cosa dobbiamo pensare. Io mi oppongo e penso che molta gente non sia più disposta ad accettare una situazione del genere. Nella società alcune cose devono essere chiamate con il loro nome affinché non sprofondino in «una lurida pozza di tacito consenso».

Quando sei nato i tuoi genitori erano in esilio, all’ombra della guerra, come ha influito tutto ciò sulla tua vita, sulla tua creatività?

L’uno e l’altro fatto hanno avuto un’influenza considerevole sulla mia vita e sul mio modo di pensare. Da tempo ritengo di essere in qualche modo in debito con le vittime innocenti della guerra: nato in condizioni di vita piuttosto agevoli, ho sempre ritenuto di dover parlare in una certa misura anche per loro, per quelle persone. Pure il fatto di essere stato portato in Slesia quando ero ancora un neonato ha influito sul mio modo di vedere il mondo, anche se non subito. Credo di aver maturato un certo distacco verso il mondo.

Nelle tue poesie possiamo trovare in effetti molti soldati, padri uccisi, case perdute…

I soldati compaiono più che altro nelle mie poesie più vecchie. Ma il sentimento di terrore è presente anche in quelle di oggi. In una poesia relativamente recente, Lato ’95 (L’estate del ’95), riecheggia il massacro di Srebrenica. Il terrore non manca. Al giorno d’oggi persino un innocente bagno nel Mediterraneo può farci pensare alla tragedia dei profughi che vi sono annegati.

L’ombra della seconda guerra mondiale è sempre con noi. E quella guerra è stata causata dal fascismo, dagli egoismi nazionali e da altri fanatismi che, oggigiorno, vengono definiti come populismo. Che si tratti per caso del passato che ritorna?

Per molti anni ho vissuto con la convinzione che il nazionalismo, in quanto fonte di così tante tragedie, si fosse definitivamente compromesso. Ma adesso so già che il mondo della saggezza dei libri e il mondo reale, alimentato dall’ambizione, dalle passioni, dall’avidità, dall’invidia, dalla stupidità, costituiscono due territori completamente distinti. In altre parole: quello che definiamo in termini altisonanti come «cultura europea» non è in grado di giungere a una translatio studii, di trasmettere la propria esperienza e la propria saggezza alle generazioni successive. È sempre stato così, ma adesso lo stiamo provando sulla nostra stessa pelle. La forza del presente è incredibile, acceca i giovani come il sole, mentre i libri non sono altro che una piccola lampada in una biblioteca.

Ti ritieni un poeta polacco? Mi ricordo la tua poesia Dzień Zmarłych (La festa dei morti), un testo carico di simboli nazionali, di memorie storiche. Quando l’hai scritta? Ti sei sempre ritenuto un poeta polacco?

La festa dei morti è una poesia molto vecchia, dell’inizio degli anni Settanta. Raramente penso in maniera decisa, consapevole: «Sono un poeta polacco». E, se proprio mi capita, lo faccio per via di un certo senso di orgoglio dovuto alla meravigliosa generazione di poeti venuti prima di me: Miłosz, Herbert, la Szymborska, Wat. E non senza un po’ di amarezza per il fatto che la Polonia per oltre cent’anni non è stata altro che un fantasma, ha trattato male i propri contadini, arretrata, con un forte antisemitismo eccetera. Che io lo pensi o meno, sono comunque un poeta polacco perché scrivo nella lingua di Miłosz e di Norwid. E il fatto che le mie poesie siano state pubblicate in un’antologia di poeti del Texas 2, o che in questo momento io sia ospite a Palma di Maiorca del Festival della poesia del Mediterraneo, non cambia nulla.

Rivolgersi al lettore è segno di partecipazione sociale. Come sei cambiato in qualità di poeta-cittadino, un poeta cioè che nelle sue poesie si occupa anche delle vicende pubbliche?

Ormai saremo forse i pronipoti di quel meraviglioso modernismo europeo, dell’arte e della letteratura europea di fine Ottocento e inizio Novecento. Joyce nell’Ulisse si prende gioco della figura del «cittadino», vuole fuggire dall’«incubo della storia». Dall’altro lato, però, la «scuola di poesia polacca», resa grande in maniera così meravigliosa da Miłosz, una scuola che, in qualche modo, rientra nel filone del tardo modernismo, ha riabilitato il cittadino e la storia. Ma l’ambivalenza è rimasta e non credo possa essere eliminata. E forse questo è un bene, poiché la tensione tra queste due posizioni non ci consente di fare scelte iperunivoche. Non consente, per esempio, che la poesia si trasformi in propaganda di partito, ma ci tutela dal restare paralizzati in una posa accademica, olimpica. Ci spinge a riflettere di volta in volta sul rapporto tra etica e poesia, per citare Staszek Barańczak. Non mi interessa, però, chi sia il mio lettore. Credo nell’universalità dell’essere umano, credo nel fatto che un abitante di Cracovia non sia poi così diverso da un abitante di Delhi o di Lisbona. So di avere dei lettori in tutte e tre queste città.

Il tuo lettore è universale, ma in fondo scrivi in polacco. Le tue poesie si ricollegano sempre a un quadro concreto, a una passeggiata, a un brano musicale, a un panorama. Il tuo universalismo è molto curioso, essendo allo stesso tempo così «topografico».

Per l’amor di Dio, non vorrei vantarmi della mia età; trovo persino difficile dire ad alta voce «sono vecchio», poiché nella mia esperienza interiore non mi sento affatto vecchio. Ma in fin dei conti sono «non più giovane», pubblico poesie da cinquant’anni, e le scrivo da ancor più tempo. Credo sia impossibile che un autore con alle spalle una strada così lunga possa cambiare sotto l’effetto di una situazione internazionale mutevole, che possa reagire alle nuove minacce politiche con la poesia. La poesia è un’entità ostinata e delicata allo stesso tempo; ma un poeta può, e forse dovrebbe, reagire in maniera diversa. Infatti, se soltanto ha accesso ai media, alla stampa, o semplicemente a internet, non dovrebbe rimanere in silenzio. Egli è, con tutto il rispetto di Joyce, non solo un cittadino, ma un cittadino che è stato in grado di emergere dall’innata anonimità della società moderna, e ciò gli impone un certo dovere, il dovere di parlare. Facendolo non influirà in alcun modo su chi governa, verrà deriso, ignorato, ma potrebbe riuscire a dare coraggio ai propri concittadini.

Riconosco nelle tue poesie, di cui, come ben sai, sono una grande ammiratrice, la voce di un emigrato, nonostante tu sia ritornato nel tuo paese. Ma sei ritornato davvero? Sei davvero a casa? O continui a restare in una «città estranea», come hai detto tu stesso in varie occasioni?

Chi è stato a lungo lontano dal proprio paese vedrà sempre le cose con un certo distacco; del resto, anche il fatto che la mia «piccola patria» (Leopoli) si trovi al di là delle frontiere del paese ha una certa influenza 3. D’altro canto, prima di partire dalla Polonia per vent’anni ho fatto parte di una comunità, la comunità dell’«opposizione democratica», ho fatto amicizia con moltissime persone. Quelle amicizie in parte si sono mantenute e ciò mi aiuta; in piedi sul Tumulo di Kościuszko 4 non posso fingere di osservare dall’alto e in posa byroniana Cracovia ricoperta dalla nebbia.

La tua condizione di emigrato si fa ancora sentire?

La condizione dell’emigrante politico ha assunto la propria piena dimensione nell’ambiente totalitario, oppure nel XIX secolo durante le spartizioni e l’abolizione della partecipazione civile. Quando il principe Czartoryski accoglieva gli emigranti polacchi nell’Hôtel Lambert, tra di essi c’erano anche Mickiewicz, Chopin, ed era lì che si trovava la capitale della Polonia. Allo stesso modo, Giedroyc per decenni è stato la voce della Polonia illuminata. I nostri attuali oppressori non hanno saputo, o forse non vogliono, spegnere le voci critiche. Non solo non hanno raggiunto una posizione di dominio intellettuale in the public place, per utilizzare un’espressione in lingua straniera, ma nelle grandi città è addirittura difficile scovare qualcuno che si trovi d’accordo con loro. Com’è noto, la società civile in questo momento è in fermento. Questo governo perde le battaglie «semantiche», vince in procura e fra poco vincerà sicuramente anche nei tribunali. Perde con la testa, vince con il manganello.

Quando discuto con te della dimensione universale della poesia non posso non ricordare una foto di trent’anni fa (un famoso scatto di Jill Krementz del 1986), in cui sei in piedi accanto a Mark Strand, Iosif Brodskij e Derek Walcott. Per completare l’immagine, in quella foto avrebbe dovuto esserci pure Seamus Heaney. Quei tuoi compagni, ormai, se ne sono andati. Poeti così diversi ma che, nonostante tutto, sono stati così vicini tra di loro (e con te): puoi dirmi come definire quella relazione? Essa aveva forse una dimensione politica o sociale?

Devo ammettere che sono molto affezionato a quella foto. Ci eravamo incontrati da Iosif mentre a New York c’era un’interessantissima conferenza del Pen Club 5. Iosif non vi aveva potuto prendere parte, si stava riprendendo in seguito a un’operazione al cuore, non usciva ancora di casa, anche se Norman Mailer aveva riportato le sue opinioni sul tema della conferenza. In quella cerchia io ero un novizio, il mio primo volume americano, Tremor, era stato pubblicato non più di tre mesi prima. Il suo padrino era stato Iosif (nonché Miłosz). Nonostante ciò ero stato immediatamente accolto in quell’Unione dei Poeti, e ne ero orgoglioso. Quella fotografia ha immortalato un momento di amicizia. Eravamo andati da Iosif, mi pare che non ci fossimo dati appuntamento, ma che ci fossimo semplicemente incontrati lì, com’è normale quando si va a trovare un amico malato. Ma in quel gruppo l’atmosfera era sempre allegra. L’amicizia fotografata in quel momento non aveva una dimensione sociale. Aveva, però, una certa dimensione politica. In un qualche modo difficile da definire si trattava di un’amicizia, per così dire, antitotalitaria. Uno dei suoi presupposti era il disgusto nei confronti di qualsiasi tentativo di controllare il pensiero umano.

Dalla tua professione, dalla tua amicizia con quei poeti, è possibile per noi dedurre un messaggio, un’indicazione, o per lo meno qualche suggerimento?

Qui si pone un certo problema. Come hai giustamente notato, manca per esempio Seamus Heaney; i suoi componimenti, soprattutto i primi, possono costituire un bellissimo esempio di poesia che reagisce con saggezza alle minacce politiche e sociali. Brodskij, come sappiamo, rifiutava l’idea di un intervento diretto della poesia nei confronti del cupo sistema politico. Faceva parte dell’aristocrazia della poesia, disprezzava infinitamente il sistema sovietico. Ma in Urss già la sola scelta di una poesia «alta» rappresentava un energico atto di opposizione al sistema (a differenza della Polonia). Derek Walcott, da questo punto di vista, era simile a Iosif; come sappiamo, è successo più di una volta che altri poeti, anch’essi provenienti da ex colonie, lo abbiano attaccato duramente, accusandolo di non essersi preoccupato dell’eredità postcoloniale, di aver utilizzato le forme poetiche ereditate dai colonizzatori (ossia dai poeti inglesi) eccetera. Nemmeno Mark Strand può essere accostato all’immagine del poeta impegnato, lo sai bene. Tuttavia, oltre a un’allergia verso il totalitarismo, c’era qualcosa di più, una certa percezione della dignità della poesia, del suo status. La convinzione che la poesia affermi di non essere soltanto una combinazione di suoni. Non si tratta di una posizione politica, d’accordo, ma è un modo di mantenere la poesia sempre in allerta, una sorta di avversione verso qualsiasi forma di resa.

Oggi è più difficile riuscire a trovare dei poeti che considerino la poesia così seriamente, ma pronunciando queste parole non sono sicuro di non aver ceduto alla tendenza, tipica degli anziani, a guardare i giovani con un po’ di scetticismo (a cosa siamo arrivati!).

La poesia, però, dovrebbe fornirci un aiuto, a prescindere dalla forma in cui la pratichiamo/leggiamo?

La poesia è tornata a essere una questione privata. Credo che questo sia il suo modo di esistere: a volte è puramente privata, in alcuni momenti, invece, si risveglia in un energico attivismo pubblico, politico, esorta le coscienze, per poi ritornare di nuovo nella sfera intima. In entrambe le sue forme la poesia aiuta il lettore attento, lo salva dalla perdita della fede nel senso della vita, talvolta lo allontana letteralmente dal suicidio, capita anche questo. Ma in qualsiasi momento può tornare di nuovo sulla scena pubblica. Staremo a vedere. Ci troviamo in un momento difficile, e forse proprio ora potremmo assistere a una nuova esplosione di poesia di contestazione…

(traduzione di Marco Valenti)

 

NOTE

1. Dal volume Jechać do Lwowa [In viaggio per Leopoli], Aneks, London 1985.

2. Aa.Vv., The Weight of Addition, an Anthology of Texas Poetry, a cura di R. Watson, Houston 2007.

3. Adam Zagajewski è nato a Leopoli. La città alla fine della seconda guerra mondiale venne inglobata nell’Urss e nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, divenne parte dell’Ucraina, n.d.r.

4. Eroe nazionale polacco del secolo XVIII, n.d.r.

5. Associazione internazionale di poeti, saggisti e romanzieri, fondata a Londra nel 1922, n.d.r.


Foto Udo Weier via Wikimedia Creative Commons 4.0



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