Addio alle urne

Quando sei elettori su dieci non vanno a votare, non è più tempo di analizzare che cosa ha spinto chi ha scelto, ma quali sono i motivi di chi ha scelto di non scegliere.

Carlo Clericetti

Quando non c’è una proposta credibile da votare, gli elettori non votano. Potrebbe essere questa la scritta per la lapide sulla tomba della politica, la cui scomparsa è ormai certificata dalla partecipazione elettorale più bassa di sempre. Il 37,2% del Lazio ritocca di mezzo punto il record negativo che apparteneva all’Emilia Romagna, ma in Lombardia non è andata molto meglio: nelle due regioni l’affluenza è crollata di oltre 30 punti rispetto alla scorsa tornata.

Entrambi i candidati della destra hanno superato il 50% delle preferenze: sembrerebbe un trionfo, se non fosse che lo schieramento nel suo complesso ha perso un milione di voti rispetto all’ultima votazione. E dunque il significato di questo risultato non può essere letto che in un modo: i partiti alternativi allo schieramento di destra hanno talmente deluso i loro vecchi elettori da non ottenerne il consenso nemmeno per sbarrare il passo a quelli che una volta erano visti come avversari, ma ormai, evidentemente, sono accomunati agli altri secondo il vecchio adagio qualunquista “tanto sono tutti uguali”.

Sembra di intuire, però, che ci sia qualcosa di più dell’indifferenza verso quella che una volta era la propria parte politica. C’è probabilmente quella rabbia che fa dire agli astensionisti: “Succeda quel che succeda, io questi non li voto più”. La rabbia di chi si è sentito imbrogliato, di chi ricorda come l’Europa di Maastricht e la moneta unica erano stati dipinti come un viaggio verso il paese di Bengodi e invece dopo un trentennio si ritrova più povero, più precario, con meno garanzie e meno prospettive.

Si dirà: che c’entra questo con un voto amministrativo? C’entra proprio per il clima che si è creato, quello che abbiamo descritto.
Francesco Giavazzi, l’economista liberista già stretto collaboratore di Mario Draghi, ci ricorda sul Corriere della sera che questa settimana comincia la trattativa finale per cambiare le regole europee sospese dall’inizio della pandemia e che dovrebbero tornare in vigore con il nuovo anno. Giavazzi dà un giudizio favorevole sulla proposta elaborata dalla Commissione di Bruxelles, che, con ogni probabilità, sarà accolta al massimo con qualche modifica non sostanziale. Anche molti economisti che hanno criticato le vecchie regole ritengono che ci sia un miglioramento. A parere di chi scrive, si tratta di un miglioramento simile a quello di chi sta affogando in un lago profondo 100 metri che, dopo che un terremoto ha fatto innalzare il fondale, è diventato di soli 20 metri. Forse sarà meglio, ma si affoga lo stesso.

Il fatto è che la logica non è cambiata. Non solo perché ci si concentra solo sui conti pubblici ignorando – almeno in quell’ambito, che diventa centrale nella governance dell’Unione – problemi almeno altrettanto importanti (o magari di più). Per esempio, i temi della concorrenza fiscale: si continua a tollerare che esistano “paradisi” persino all’interno della Ue. Per esempio, l’occupazione, il cui livello è di risulta rispetto alle politiche necessarie per “rispettare le regole”. Ma soprattutto, quelle regole comportano meccanismi che sono completamente nelle mani dei cosiddetti “tecnici”. Alla fine, è il loro lavoro che traccia i confini entro i quali la politica si potrà muovere.

Se n’è accorto il governo di destra, che, pur con le regole ancora sospese, ha dovuto fare una legge di bilancio “come se…”. In questo caso si sono evitati guai peggiori, come ad esempio la follia della flat tax, ma è stata comunque una riprova dell’ambito limitato in cui si può muovere la politica nazionale.

Ciò detto, però, proprio le prime mosse del governo di destra stanno facendo vedere che, pur nell’ambito di manovra limitato, si possono fare cose buone e cose assai meno buone. E di queste ultime, nell’ultimo quarto di secolo, quello che era il centro-sinistra ne ha fatte a iosa. A partire dall’adesione incondizionata al Trattato di Maastricht e alla moneta unica: certo, fuori dall’Europa non si poteva restare, ma altri paesi hanno per esempio utilizzato le clausole di “opting out” per evitare di ingoiare almeno una parte della medicina. E poi, le privatizzazioni fatte senza criterio, la rinuncia a una politica industriale, la precarizzazione del lavoro, i maggiori poteri alle Regioni con una pessima riforma costituzionale… Il centro-sinistra – e il Pd nelle sue varie incarnazioni – quando è stato al governo questa linea l’ha sposata con entusiasmo. Il renzismo è stato il punto di arrivo di una lunga marcia all’interno della cultura dominante. Dopo (a parte l’appendice Gentiloni) è come se le teste di quel partito si fossero spente. Solo un annaspare tra una crisi e l’altra senza un’analisi del passato, e l’attuale corsa alla segreteria mostra che quell’analisi non la si vuol fare, oppure non se ne è capaci. Avevamo provato a stimolare qualche presa di posizione chiara sui temi più importanti,  ma i candidati si sono guardati bene dal rispondere.

Inutile parlare di Italia Viva, piccolo partito di guastatori che tra qualche anno sarà forse utile a qualche laureando in storia per fare la tesi. Alternativi al governo restano i 5Stelle, che dopo l’abbraccio mortale con la Lega e le parentesi del governo con il Pd e quello di Draghi, si sono salvati dalla scomparsa assumendo la rappresentanza dei diseredati del Sud. Bene che qualcuno lo faccia, ma non può bastare per andare molto più in là della consistenza attuale. Anche lì, manca un progetto, e anche una direzione precisa.

Stupirsi perché la maggioranza non va più a votare significa ignorare questo desolante panorama. Da cui non si vede via d’uscita perché sembra che gli attuali protagonisti non vogliano uscirne. Forse in futuro, sfiancati anche gli ultimi elettori, si programmeranno un paio di intelligenze artificiali che fingano di essere alternative e votino al loro posto. La democrazia sarà salva.

 

 

Foto Pexels | Element5 Digital



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