Affaire Mar-a-Lago: altri guai giudiziari per Donald Trump

Il rinvio a giudizio, che sarà ufficializzato martedì 13 giugno di fronte al giudice federale del Southern District della Florida, rappresenta il primo atto di accusa sul piano federale nei confronti di Trump. È una mossa senza precedenti nella storia degli Stati Uniti, non soltanto perché ad essere accusato è un ex presidente, ma anche e soprattutto perché Donald Trump è il candidato più forte in corsa per le prossime presidenziali.

Elisabetta Grande

A un mese esatto dalla condanna al risarcimento dei danni per aggressione sessuale e diffamazione nei confronti della scrittrice E. Jean Carroll da parte di una giuria newyorkese, una nuova tegola giuridica si abbatte sulla testa di Donald Trump. Questa volta si tratta della richiesta di rinvio a giudizio formulata da un grand jury federale di Miami, cui il prosecutor speciale nominato da Merrick Garland -Jack Smith- aveva chiesto di valutare se ci fossero elementi di prova sufficienti per portare a giudizio Trump, con accuse che vanno dalla detenzione dolosa di documenti relativi alla difesa nazionale in violazione dell’Espionage Act, all’accordo con un terzo per violare le leggi (conspiracy), all’ostruzione della giustizia, alla falsa testimonianza, alla cattiva gestione di documenti ufficiali e infine alla disubbidienza agli ordini di una Corte di giustizia. Si tratta di reati per i quali la pena nel massimo varia, nel caso dell’Espionage Act, dai 10 anni di reclusione per documento, ai 20 anni per l’ostruzione alla giustizia, ai 3 per la cattiva gestione dei documenti e infine ai 5 per l’ostruzione alla giustizia e la conspiracy.

Il rinvio a giudizio, che sarà ufficializzato martedì 13 giugno di fronte al giudice federale del Southern District della Florida, con la formulazione dell’imputazione definitiva da parte del prosecutor, rappresenta il primo atto di accusa sul piano federale nei confronti di Trump. È una mossa senza precedenti nella storia degli Stati Uniti, non soltanto perché ad essere accusato è un ex presidente, ma anche e soprattutto perché Donald Trump è il candidato più forte in corsa per le prossime presidenziali contro l’attuale presidente in carica, di cui l’amministrazione che lo accusa è longa manus. Una situazione davvero esplosiva sul piano politico, come ben dimostrano le subitanee critiche di un uso distorto e strumentale del diritto mosse dall’intero establishment repubblicano all’amministrazione della giustizia di Biden, nonché l’immediato flusso di ingente danaro a sostegno della campagna elettorale di Trump proveniente dalla sua base che, ricordiamo per inciso, nel 2020 era costituita da una platea composta da più di 74 milioni di persone.
Se, dunque, sul piano politico questa imputazione per diversi capi di reato nei confronti dell’ex presidente rischia di avvantaggiarlo nei confronti tanto dei suoi avversari interni, quanto del suo futuro avversario democratico e, nel contempo, di delegittimare il piano giuridico percepito come manipolato e servente rispetto a quello politico, la sfida su entrambi i piani per Smith -e di rimbalzo per Garland e Biden- riguarda le possibilità di una sua vittoria a giudizio.

Che i 23 componenti del grand jury – a maggioranza- abbiano ritenuto gli elementi di prova portati al suo cospetto sufficienti a muovere le accuse a Trump (che esso abbia, cioè, ritenuto sussistente la così detta probable cause, ossia “elementi sufficienti a far sì che una persona media concluda che l’imputato sia colpevole del reato addebitatogli”) significa, infatti, assai poco dal punto di vista delle probabilità di una condanna a processo. Il grand jury è istituzione nota per essere un docile strumento nelle mani dell’accusa, che –nel segreto di una procedura tipicamente inquisitoria- le offre con grande arrendevolezza l’opportunità di raccogliere (con meccanismi privilegiati) materiale probatorio non necessariamente ammissibile a dibattimento. Il risultato della partita che si giocherà a processo non è dunque per nulla scontato e l’onere probatorio di dimostrare vere le accuse al di là di ogni ragionevole dubbio gravante sul prosecutor, di fronte a una giuria che in Florida sarà certamente più pronta ad ascoltare le ragioni di Trump e dei suoi scafati avvocati rispetto a quella di New York, rappresenta una sfida molto impegnativa per Jack Smith.

Qualora quest’ultimo dovesse ottenere la condanna dell’ex presidente la sua mossa odierna apparirebbe comunque strumentale alla sconfitta politica nelle elezioni del 2024, ma nel caso in cui non dovesse riuscirci Trump ne verrebbe fuori senza dubbio quale vittima ignobilmente perseguitata per puri scopi politici.
Per rendere la confusione fra piano giuridico e piano politico ancora più forte, la sorte ha poi voluto –giacché si è trattato di una nomina avvenuta secondo meccanismi puramente casuali- che fra 15 possibili candidati il caso sia stato affidato a una giudice nominata da Trump – Aileen Cannon – la quale si era già in precedenza espressa a suo favore in una lite che aveva visto coinvolto l’ex presidente dopo la perquisizione dell’FBI a Mar-a-Lago.

Il giudice competente per il dibattimento, attraverso la decisione su quelle che si chiamano le pre-trial motions, ha pervasivi poteri di controllo sul giudizio che si svolgerà davanti a lei. Dopo l’arraignment, ossia il momento in cui l’imputato si deve dichiarare colpevole o innocente, ciò che nel nostro caso dovrebbe succedere martedì, a fronte di un plea of not guilty, Aileen Cannon dovrà prendere posizione sulle tante motions che i legali di Trump presenteranno, prime fra tutte quelle relative all’archiviazione dell’accusa e alla soppressione degli elementi di prova, senza contare la decisione che le spetta sui tempi del giudizio e sulla possibile accusa nei confronti di Smith e del suo staff di aver minacciato i futuri testi o di aver commesso altre attività illecite. Con la possibilità, è il commento di un esperto, che siano proprio loro a finire a processo prima dello stesso Trump!

 

Foto Flickr | Gage Skidmore 



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