Afghanistan, le false narrazioni e il marketing della guerra

Le menzogne che hanno accompagnato il conflitto afgano e le omissioni di oggi preludono a nuove e complesse strategie di manipolazione dell’opinione pubblica.

Bruno Ballardini

Che lezione abbiamo imparato dall’Afghanistan? Nessuna, si direbbe. È andata così, pazienza, torniamo a casa. Abbiamo fatto il nostro dovere, era una missione di pace. E poi, tutto sommato, ci sono state poche vittime. Questo è quello che i media con le loro omissioni hanno fatto credere alla massa. Purtroppo non è così. La prima vittima, in Afghanistan, come in tutte le guerre, è stata la verità. Ma mentre le buone vecchie bugie di una volta avevano le gambe corte, negli ultimi decenni le bugie si sono evolute in complesse strategie di comunicazione, o meglio in false narrazioni, e hanno le gambe piuttosto lunghe. Soprattutto, sono programmate per durare a lungo.

Ho già accennato alle false narrazioni che hanno preceduto e preparato il conflitto in Afghanistan. Tuttavia, per comprendere meglio ciò che avverrà prossimamente dobbiamo tornare sulle menzogne che hanno accompagnato il conflitto e le omissioni di oggi che preludono a nuove strategie di comunicazione, tanto più complesse in quanto dovranno tener conto di quelle precedenti e rimodularsi su esse. Mai come ora le narrazioni ufficiali non hanno alcun significato se non quello di tranquillizzare e orientare l’opinione pubblica dissimulando la verità sui disastri che abbiamo creato e quelli che eventualmente creeremo ancora. Mai come ora le narrazioni sulla guerra sono e continueranno ad essere in mano ai servizi segreti.

Riassumiamo. La prima falsa narrazione è stata la retorica del peace keeping durata vent’anni, quando si è trattato di guerra fin dall’inizio. In Afghanistan, 47 paesi hanno partecipato, su richiesta del governo insediato dagli americani, all’operazione International Assistance Security Force (ISAF) guidata dall’ONU. Anche l’Italia è stata coinvolta con una forza di spedizione schierata nella regione occidentale. Ma mentre i comandanti e i soldati mantenevano il diritto all’autodifesa, la situazione della sicurezza in Afghanistan giustificava l’uso offensivo della forza, e per questo la NATO ha prontamente fornito una guida che allargava un po’ le regole d’ingaggio (in inglese ROE, Rules of Engagement) [1]. Tuttavia, le truppe delle nazioni partecipanti sono rimaste sotto l’autorità delle rispettive leggi nazionali e dei caveat. E così, per decenni, le nostre unità speciali, dagli incursori della Marina Militare, agli uomini del Col Moschin, del Comsubin, fino ai GIS dei Carabinieri, in Iraq, Siria e Libia, sono andati in prima linea con regole d’ingaggio da pattugliamento. La contraddizione che si è venuta a creare ha suscitato un dibattito talmente acceso che i vertici del nostro Esercito probabilmente su suggerimento della NATO, hanno preferito risolvere il problema con le “missioni segrete”. Basta riuscire a parlare con qualsiasi generale in pensione che abbia partecipato a questi conflitti che viene fuori la rabbia per l’ipocrisia con cui gli alti vertici delle nostre forze armate e i politici hanno insistito sulla retorica della “missione di pace”. Il dato più impressionante è l’omertà trasversale mostrata dai governi che da noi si sono succeduti riguardo alla vera natura di queste missioni. La maggior parte dei nostri politici ha mentito agli italiani: si direbbe che l’intera politica italiana sia sotto ricatto e sia costretta a sostenere la farsa per cui abbiamo obbligo di intervenire periodicamente in missioni di guerra per arginare i danni prodotti dalle “missioni di pace” degli USA. Possibilmente, condividendole sul piano politico insieme all’opinione pubblica.

Per ottenere quest’ultimo risultato è indispensabile costruire una strategia di comunicazione che parta dal controllo assoluto delle notizie provenienti dai teatri di guerra. L’uso di giornalisti embedded (ovvero registrati e autorizzati dal comando militare delle operazioni, e al seguito delle truppe) fu introdotto per la prima volta in modo sperimentale in Bosnia e poi in modo sistematico in Iraq con l’aggiunta di briefing quotidiani dei militari per i giornalisti, per meglio “indirizzare” la comprensione del conflitto [2]. Di fatto, da questo sistema industriale di disinformazione non poteva uscire una sola riga che non fosse in linea con la visione del comando americano. In Iraq i pochissimi giornalisti non embedded, come ad esempio i francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, Giuliana Sgrena ed Enzo Baldoni, furono visti come “mine vaganti” e divennero presto vittime di rapimenti e attentati.

Come scrive Christiane Eilders, “Sebbene i media possano mancare di autonomia e tendano a inseguire il consenso parlamentare, le parti in guerra non possono contare su un atteggiamento dei media automaticamente favorevole. È ovvio che esse debbano sviluppare continuamente nuove strategie di controllo dell’informazione per assicurarsi che i media non contrastino le loro opinioni. Per le parti in guerra, la percezione pubblica degli obiettivi della guerra e la guerra stessa, cioè l’opinione pubblica sulla guerra, è una risorsa fondamentale. Al giorno d’oggi le guerre non possono essere condotte senza il sostegno dell’opinione pubblica. Meno gli Stati Uniti hanno sentito di poter fare affidamento sulla complicità dei loro alleati durante l’intervento in Iraq, più hanno cercato di convincere il proprio pubblico della necessità di quella guerra. In questo, la copertura mediatica gioca un ruolo decisivo. Non solo l’opinione pubblica è espressa dai media, ma è anche prodotta e regolata attraverso i media. Esercitando il dovuto controllo sulla copertura mediatica, è possibile influenzare l’opinione pubblica verso l’accettazione o il rifiuto della guerra. […]

La gestione militare dell’informazione che ne deriva si occupa sia dei soggetti interni o stranieri della politica o della società, sia delle parti in guerra coinvolte. Gli obiettivi più importanti sono la legittimazione, la deterrenza e la mimetizzazione. Per raggiungere questi obiettivi vengono adottati diversi approcci: oltre a garantire la propria catena di informazioni e comandi, la regolazione e la selezione dei flussi di informazioni sono considerate decisive per la superiorità militare in guerra e in tempo di pace. L’interruzione dei processi informativi della parte avversaria attraverso un sovraccarico di informazioni è considerato altrettanto essenziale quanto l’inganno sistematico e la costruzione dell’immagine della propria superiorità attraverso la comunicazione. I mass media vengono utilizzati per tutte queste strategie: i giornalisti embedded, la pianificazione e la realizzazione di campagne mediatiche su questioni militari e la creazione di stazioni televisive militari sono solo alcuni esempi di tale utilizzo”. [3] A questo sistema si aggiungono oggi le tecniche per la costruzione di senso. Come osserva Christiane Eilders, il concetto high-tech di “guerra elettronica” ora include anche la sicurezza delle informazioni, le relazioni pubbliche e il controllo della percezione, nonché gli strumenti della cosiddetta “diplomazia pubblica” i cui contenuti vengono puntualmente aggiornati su Internet. L’idea è quella di modificare le percezioni tra le élite politiche, i soldati e i civili e far capire loro che la guerra si combatte nella mente della gente piuttosto che sul campo di battaglia.

Ma esistono anche i provvedimenti di legge embedded, inseriti cioè in documenti di programmazione economica di carattere generale e “fra le righe”, affinché passino inosservati senza incontrare opposizione. È ciò che è accaduto con una voce che nessuno ha notato nel Documento Programmatico Pluriennale 2021 redatto dal Governo nello scorso luglio, perché “mimetizzata” a regola d’arte con sinonimi, termini tecnici e circonlocuzioni. Con questo provvedimento, i droni Reaper in dotazione alle nostre Forze Armate per funzioni di ricognizione verranno trasformati in bombardieri telecomandati con un investimento di 168 milioni di Euro. Questa tecnica di depistaggio fa parte delle strategie per aggirare il dibattito parlamentare scongiurando il rischio che proprio il dibattito finisca per impedire il conseguimento di un obiettivo vitale per la NATO.

Ma oltre alle false narrazioni, le cui catene di produzione richiedono un lavoro complesso, l’omissione e la censura rimangono ancora oggi le tecniche più facilmente utilizzabili quando si tratta di impedire la contro informazione. La madre di tutte le censure, è la strategia con cui gli USA hanno nascosto ai media per decenni l’utilizzo di decine di migliaia di mercenari (contractors) dalla guerra in Iraq in poi, per limitare al massimo la presenza di soldati americani sul teatro di guerra. Tutto questo, con l’obiettivo di concretizzare la promessa “no boots on the ground” coniata da Barack Obama, e ripetuta in pubblico in almeno 16 momenti chiave della sua amministrazione, ma contraddetta alla fine da evidenze che hanno rivelato la falsa narrazione.

La liberalizzazione del mercato della guerra, era stata inaugurata da Bush Jr, dando un grande impulso alla creazione di compagnie militari private e, nel decennio successivo all’11 settembre, questo mercato è cresciuto in modo impressionante: a dicembre del 2013 i contractors costituivano il 62% delle forze dispiegate in Afghanistan. In questo arco di tempo il governo statunitense ha speso più di 3.3 trilioni di dollari in contratti con compagnie militari private [4]. Con gli enormi tagli all’esercito ancora previsti dal governo americano, per le imprese private militari sarà una pacchia. Nei prossimi anni l’esercito degli Stati Uniti taglierà 50.000 soldati e i Marines ugualmente elimineranno circa 20.000 unità. Così, se prima gli affari andavano a gonfie vele per i privati, da adesso andrà ancora meglio. Sono questi i benefici frutti del marketing applicato alla guerra: ravvivare un indotto industriale e creare nuovi posti di lavoro in un business che non è destinato a finire perché è l’ultimo possibile, mentre tutti gli altri settori dell’industria e del commercio sono entrati in una crisi definitiva. Gli eserciti di mercenari sono addestratissimi, virtualmente di stanza in tutto il mondo, a immediata disposizione dei governi riluttanti a utilizzare le proprie truppe, ovunque non siano in grado o non vogliano andare.

Approfittando dell’instabilità globale, le compagnie militari private hanno fatto fortuna. La seconda azienda più grande del mondo, infatti, è una compagnia militare privata, eppure la maggior parte delle persone non ne ha mai sentito parlare. È il colosso della security G4S il secondo più grande datore di lavoro privato nel mondo dopocon più di 625.000 dipendenti, nota anche per avere sul suo libro paga i «signori della guerra» afghani. Nel 2008, G4S ha assorbito Armorgroup con 9.000 unità addestratissime, che ha protetto circa un terzo di tutti i convogli di rifornimento non militari in Iraq. Seguono gli australiani della Unity Resources, l’Asia Security Group fondata dal primo cugino di Hamid Karzai, la DynaComp della Virginia con un fatturato di circa 3,4 miliardi dollari (nota anche per avere un po’ il «grilletto facile»), la Triple Canopy che ha vinto un appalto per la security in Iraq di 1,5 miliardi di dollari, la Defion Internacional che recluta migliaia di combattenti provenienti da Paesi in via di sviluppo, e infine la Academi che gestisce una struttura di formazione di 7.000 ettari nel deserto della Carolina del nord, uno dei più grandi e complessi campi di addestramento militari privati del mondo. Nel 2007, l’impianto della compagnia ha prodotto un esercito di 20.000 soldati, 20 aerei, una flotta di veicoli blindati e un gran numero di cani addestrati alla guerra. La maggior parte di queste risorse sono state spedite in Iraq e in Afghanistan con contratti stipulati col governo degli Stati Uniti [5].  La storia di Academi si lega anche all’altro grande business nato con la privatizzazione della guerra: quello dei servizi segreti privati che svolgono le stesse mansioni della CIA, ma a pagamento. Uno dei più grandi segreti dell’era post-11 settembre, infatti, è stata la decisione del presidente George W. Bush autorizzare la CIA a creare un’unità segreta con licenza di uccidere, con l’obiettivo di rintracciare ed eliminare membri di al-Qaida. Il programma fu nascosto perfino al Congresso per ben sette anni. E quando Leon Panetta, ex capo di Gabinetto nell’amministrazione Clinton ed ex direttore della CIA nominato da Obama, ne parlò per la prima volta nel 2009, rivelò che la CIA, su ordine di Dick Cheney, aveva avviato un programma clandestino che prevedeva l’utilizzo dell’organizzazione privata Blackwater per costituire la squadra della morte che avrebbe lavorato in outsourcing per conto della CIA stessa. Fu un passaggio storico in cui il governo degli Stati Uniti per la prima volta dava ufficialmente in subappalto a società private l’attività di assassinio in operazioni coperte [6].  Lo scandalo Blackwater sembrò stroncare sul nascere lo sviluppo di questo mercato. E invece no: la Blackwater cambiò nome due volte, prima in XE Services, per due anni, e infine nell’innocuo Academi. Da allora, decine di altre sigle affollano questo nuovo ricchissimo mercato. In testa sono le agenzie statunitensi come GK Sierra, Kroll Inc., Smith Brandon International Inc., Stratfor, Booz Allen Hamilton, Pinkerton National Detective Agency, poi le inglesi AEGIS, Control Risks Group, Hakluyt & Company, e infine la francese GEOS la spagnola AICS.

Le organizzazioni di intelligence private sono le stesse che offrono servizi di spionaggio industriale. Il travaso costante dalla guerra vera alle guerre di mercato, e viceversa, fa comprendere che entrambe le attività si svolgono sul terreno comune del marketing. Non è lontano il giorno in cui una nazione dovrà difendersi dall’aggressione non di un’altra nazione ma di una compagnia privata. La prospettiva è quella di eliminare gli eserciti, in quanto spesa insostenibile oltre che inutile in tempi di pace, «affittando» invece eserciti privati solo quando serve. Il fondatore della Blackwater afferma: «Stiamo cercando di fare per l’apparato della sicurezza nazionale quello che FedEx ha fatto per il servizio postale». Questa è una minaccia per la pace ancora più grande di quanto non lo siano stati finora gli eserciti stessi: tutte queste società private in concorrenza fra loro hanno infatti bisogno di un mercato stabile per continuare a vivere e per questo non possono far altro che alimentare il marketing della guerra. Dunque, siamo entrati in un’era in cui la guerra è diventata il business definitivo. Un business che si ricrea da solo, inventando continuamente nuovi nemici e nuova concorrenza. Nessuno fin qui ha osservato che tecnicamente le organizzazioni militari private equivalgono in tutto e per tutto a organizzazioni terroristiche a disposizione del miglior offerente. La loro esistenza rende ancora più dinamico il mercato della guerra. [7]

Dove non bastano più le false narrazioni e le omissioni interviene il segreto di Stato. Ed è così che, in un’ottica di pieno servilismo verso i nostri “azionisti di maggioranza” che dal dopoguerra a oggi detengono quote ingenti della nostra coscienza geopolitica e di quella degli alleati, Matteo Renzi, presidente del Consiglio, ha aperto la strada a un nuovo interventismo telecomandato dell’Italia. Un suo decreto varato il 10 febbraio 2016 autorizza l’impiego in zone di crisi di forze speciali della Difesa con tutti i conseguenti assetti di supporto, con la clausola che, ove necessario, il premier in carica può ordinare l’utilizzo di droni, elicotteri, navi ed aerei senza un voto ufficiale del Parlamento, ma solo informando il Copasir, il Comitato per la sicurezza della Repubblica. Su questo Dpcm Felice Casson aveva sollevato seri dubbi di costituzionalità, ma tutto è stato inutile, il decreto è passato e vi è stato subito apposto il sigillo del segreto di Stato.

A un livello superiore a quello del segreto di Stato c’è il segreto NATO. È stata la rete WikiLeaks nel 2020 a far notare che la NATO può esercitare un controllo anche sui segreti di Stato degli alleati, ma non il contrario. Nel frattempo, l’alleanza atlantica è diventata uno strumento utilizzato prevalentemente dagli USA per i propri interessi geopolitici, molto utile per dividere le spese belliche con gli alleati risparmiando. L’Art. 1 del trattato istitutivo firmato dalle nazioni fondatrici nel 1949 impegnava le parti a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale ed è su questo articolo che si è costruita poi tutta la retorica del peacekeeping. Viceversa, l’Art. 5 prevede: “Le parti convengono che attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”.

È interessante notare che per tutta la durata della Guerra Fredda nessuno si è mai appellato a questo articolo: l’hanno fatto gli USA per la prima volta il 12 settembre 2001, dopo l’attacco terroristico a New York e Washington. Subito dopo, si chiese di ingaggiare una guerra senza fine coinvolgendo le altre nazioni in un disastro di cui l’Afghanistan è stato il primo e l’ultimo atto. Tutto iniziò infatti con l’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre del 2001 allo scopo di rovesciare il regime dei talebani, ma il programma era fin dall’inizio quello di estendere il conflitto all’Iraq adducendo soltanto dei “sospetti” sui rapporti fra Saddam Hussein e al-Qaida. In realtà non c’era mai stato alcun rapporto ma questa narrazione fu sufficiente a convincere l’opinione pubblica mondiale ad accettare l’invasione dell’Iraq nel 2003. A questo concorse anche un falso dossier preparato dai servizi segreti britannici che doveva dimostrare che Saddam possedeva armi di distruzione di massa. Questa colossale bufala costruita a regola d’arte fu smentita dallo stesso Tony Blair nel 2016 addossando comodamente la colpa all’inefficienza dei servizi segreti e chiedendo scusa pubblicamente dopo essere stato smascherato da una commissione d’inchiesta. Il segreto NATO ha un ruolo fondamentale in questi casi perché custodisce le giustificazioni di quelle guerre, perché se i giornalisti e gli analisti non possono avere alcun accesso a quei documenti, chi li detiene può dosare la distribuzione di frammenti parziali degli stessi su cui lasciar costruire narrazioni utili a convincere l’opinione pubblica.

Per ultima, torna la narrazione sull’esercito europeo. Josep Borrell, vicepresidente della Commissione Europea e Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, all’alba del ritiro dall’Afghanistan ha rilasciato un’intervista con alcune dichiarazioni piuttosto significative: “Gli americani sono stanchi di combattere le guerre per gli altri”. In realtà gli americani mal sopportano la “disunione” europea, perché troppo faticosa da gestire per convincere tutte le nazioni alleate ad aderire alle guerre organizzate dalla NATO. Già è difficile riuscire a farle “validare” prima dall’ONU. Ma una volta iniziato a infiltrare l’ONU con “influencer” di varia estrazione, resta solo l’ostacolo costituito dalla UE. Ci sono europeisti della prima ora che sono sinceramente convinti che soltanto la formazione di un unico esercito permetterebbe all’Europa di dire no alle guerre americane, mentre con la nostra divisione politica i nostri interlocutori d’oltreoceano potrebbero più facilmente imperare. Il discorso di Borrell è molto abile perché fa leva proprio su coloro che sono già convinti della necessità di un esercito europeo, e tenta di dedurre una morale “costruttiva” dalla sconfitta dell’Occidente in Afghanistan. Usa strumentalmente questo pretesto per convincere il Parlamento Europeo a deliberare al più presto per la formazione di “una Initial Entry Force europea che possa agire rapidamente nelle emergenze. La Ue deve essere in grado di intervenire per proteggere i propri interessi quando gli americani non vogliono essere coinvolti.

Personaggio prepotente, cinico (è sua l’affermazione per cui gli USA si sono guadagnati l’indipendenza massacrando in fondo solo quattro indiani) e corruttibile, Borrell è senza dubbio l’uomo giusto per dare la spinta finale al progetto tanto voluto dagli Stati Uniti. Ma è proprio questo il punto: chi ci assicura che una volta creata questa forza di pronto intervento venga usata solo quelle poche volte in cui c’è da salvare qualcuno, e non venga invece spedita continuamente in giro in missioni di guerra per conto degli americani?

Borrell usa qui un’argomentazione fallace per persuadere la sua distratta audience: “Rafforzando le nostre capacità, rafforziamo la NATO”. La fallacia introdotta fa credere che l’unità sia superiore alla somma delle forze che già vengono messe in campo dai governi europei e coordinate comunque e sempre da un unico comando: quello della NATO. Fortunatamente, nello stesso discorso Borrell si scopre dicendo che con questa forza interverremmo tutte le volte in cui gli USA “non vogliono essere coinvolti”. E perché mai dovremmo essere coinvolti solo noi quando nella NATO dovrebbe valere un principio di paritetica partecipazione? La risposta è nelle note conclusive di Biden sulla campagna d’Afghanistan in cui si annuncia la capacità tecnologica raggiunta dagli Stati Uniti di intervenire nei conflitti restando lontani dai conflitti stessi. Vorremmo ancora credere nella buona fede di Josep Borrell ma se colleghiamo il suo discorso con la vecchia retorica di Obama e le ultime dichiarazioni di Biden scorgiamo una sola volontà di cui Borrell si fa ultimo portavoce, e cioè quella di usare l’esercito europeo al posto dell’esercito USA al pari dei droni killer e dei mercenari che gli americani sono già abituati a utilizzare per limitare al massimo il numero delle proprie vittime. Gli europei rischierebbero di trovarsi, loro malgrado, a fare guerre per procura mentre paradossalmente, negli USA, grazie alla forte ingerenza del governo nei media, nessun contribuente verrebbe più a sapere di finanziare con le sue tasse guerre incomprensibili in paesi di cui ignora perfino l’esistenza. Per quanto ci riguarda, con una forza militare unitaria, l’Europa rischierebbe di diventare sempre meno indipendente sul piano politico ed economico: la falsa narrazione con cui si esortano le nazioni europee a rinunciare a un pezzo di sovranità nazionale per un “bene comune” superiore, l’Europa appunto, nasconde in realtà una strategia americana per indebolire l’UE e renderla più subalterna politicamente ed economicamente. Alla luce delle considerazioni fatte, un esercito europeo sarebbe accettabile soltanto uscendo dalla NATO, istituzione ormai funzionale solo alla geopolitica americana.

Un antico proverbio Hopi diceva: “Coloro che sanno raccontare una storia governano il mondo”. Nella nostra epoca, governerà il mondo chi arriverà a controllare tutti i mezzi con cui si produce l’informazione.

NOTE

1) Sulla controversa materia delle ROE si veda Federico Sperotto, Considerazioni sul regime giuridico applicato ai contingenti militari in Afghanistan: legittima difesa, uso della forza e regole di ingaggio, in AA.VV., “Pace diritti umani – Peace Human Rights”, Anno VII, numero 3, settembre-dicembre, Marsilio, Venezia 2010; e Matteo Tondini, Regole d’ingaggio e diritto all’autodifesa. Riflessioni e suggerimenti, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 1/2005 (Gennaio – Marzo 2005)

2) Greg McLaughlin, The War Correspondent, Pluto Press, London 2016, p. 142

3) Christiane Eilders, Media under fire: Fact and fiction in conditions of war, International Review of the Red Cross, Vol. 87, Number 860, December 2005. pp. 642-643

4) Fonte: «Vice News» 01/05/2014.

5) Fonti: «Business Insider» 26/02/2012; «New York Post» 28/12/2014.

6) Cfr. Arkin, William M.,Top Secret America: The Rise of the New American Security State, Little, Brown and Company, New York 2011; Wright, Evan, How to Get Away with Murder in America, Byliner Inc., San Francisco 2012.

7) Cfr. Bruno Ballardini, ISIS® Il Marketing dell’Apocalisse, Baldini&Castoldi, Milano 2015, pp. 48-49.

 

(credit foto EPA/SHAWN THEW)



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