E, ovunque, la tragedia bolle sotto gli abiti della commedia

Lettura di “Al calar della notte – Luce e tenebra nel teatro di Mozart” di Marco Jacoviello (ed. Libreria Musicale Italiana).

Teresa Simeone

Inizia con il richiamo a Nietzsche di Così parlò Zarathustra il saggio di Marco Jacoviello dal titolo Al calar della notte, sottotitolo Luce e tenebra nel teatro di Mozart, edito da Libreria Musicale Italiana.

Ne ripropone, a conferma di come il filosofo di Röcken sia lo chaperon dei notturni mozartiani, gli aforismi a corollario dei tre capolavori, Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte, che Jacoviello analizza e nei quali il rapporto parola-musica diventa centrale. Oltre che estremamente complesso. La parola, infatti, ordina e disciplina la musica ma, una volta diventata canto, accetta di eclissarsi. Come ammesso dallo stesso Mozart e chiarito nell’introduzione: “l’ideale è quando si incontrano un buon compositore, che si vuole intender di teatro ed è in grado di dare il suo contributo, e un poeta intelligente, una vera araba fenice. E allora non ci si dovrà certo preoccupare dell’approvazione degli ignoranti”.[1]

Il titolo dichiara già il tema, a lui caro, il notturno, o meglio il rapporto giorno-notte, buio-luce: “L’eternità della notte versus l’accidentalità del giorno” che Jacoviello scompone, sviscera in tutta l’opera di Mozart-Da Ponte e che rappresenta un ulteriore approfondimento, in continuità con il suo precedente “A favor della notte…”.

Il libro è a metà tra il saggio e il trattato: del primo conserva lo stile divulgativo e fluido e la capacità argomentativa, del secondo il respiro ampio e l’indiscussa competenza dello specialista. Poderoso e dettagliato com’è, infatti, in quantità e per qualità, vero concentrato di riferimenti filosofici come di personalissime e dense riflessioni, affronta con sguardo attento la lettura delle opere di Mozart- De Ponte, trasportandoci all’interno del clima culturale settecentesco, di cui ripropone le istanze illuministiche, la volontà libertina di emanciparsi da lacci morali e ipocrisie perbeniste e l’ansia di rinnovamento in una società che ormai sta per vivere la fine del vecchio mondo, con tutte le sue pastoie, ingessature e finzioni.

Jacoviello è competente e ci regala una storia dell’opera di Mozart ricca e articolata. Nel raccontare la storia di Le mariage de Figaro, riferisce con dovizia di particolari le disavventure con la censura, prima per Beaumarchais, da parte di Luigi XVI, che tuttavia sortisce l’effetto opposto nel pubblico parigino accorso in delirio alla sua prima e che ne dichiara il trionfo, non solo artistico ma anche politico tanto che Danton avrebbe esclamato: «Figaro ha ucciso la nobiltà» e poi per Mozart, di fronte a un esplicito divieto di Giuseppe II. In cerca, per una sua riduzione, di un librettista che sia talentuoso e antiaccademico, s’imbatte in Lorenzo Da Ponte, abate italiano ridotto allo stato laicale che, nell’adattamento operistico del testo teatrale di Beaumarchais, si comporta in maniera mirabile. Con lui Wolfgang Amadé Mozart inizia una collaborazione felicissima, saranno insieme dal 1786 al 1790, che avrebbe potuto anche avere risvolti sociali nel sovvertire la logica dell’ancien regime, ma che, per ragioni evidenti, non ne ebbe il tempo. Ridotto a puro esercizio stilistico e consumatosi poi nel Romanticismo, quel loro sguardo ironico, denuncia Jacoviello, si capirà soltanto nel Novecento, quando verrà finalmente riconosciuta la funzione di critica morale in nuce e di anticonformismo verso i regimi, “messaggera del gesto provocatore e geniale di un letterato agnostico e di un massone impenitente.” [2]

E infatti Mozart e Da Ponte, riferisce Jacoviello, hanno molti aspetti in comune: sono massoni, liberali e libertini e si trovano a operare in un tempo che trova il punto critico in quel 1789 che sconvolgerà la storia e che, in qualche modo, traspare e dà valenza sociale alle loro scelte.

L’autore ripercorre l’evoluzione musicale di Mozart e quella librettistica di Da Ponte attraverso la produzione di un quinquennio. S’intuisce, fin dalle prime pagine, che è l’opera matura, di una personalità matura, sull’attività drammaturgica di uno dei riconosciuti geni del panorama mondiale e, per questo, coraggiosa. Musicofilo e filosofo, capace di intrecciare amore per l’opera e passione per la speculazione, Jacoviello, che nulla lascia al caso, padroneggia, aduso com’è a scrivere, la materia; spazia con competenza tra letteratura, filosofia e teatro d’opera; approfondisce ragioni; utilizza in maniera puntuale e rigorosa fonti e contesti. Non si ferma neppure al solo esame testuale delle opere.

L’analisi psicologica dei protagonisti è presente in ogni pagina e tende a rispecchiare fedelmente, in qualche misura, quella mozartiana, che, pur precisa nel tratteggiare i personaggi, è comunque libera da giudizi spietati sui loro comportamenti.  E allora ecco la fiera immagine che rimanda ne Le nozze di Figaro, di Susanna (che donna!), o la fedele ammirazione di Leporello verso Don Giovanni, il suo “feticcio erotico”, a cui concede i servizi di ruffiano e di cui, incapace di altro, vive le fantasie. “Come schermo in cui si proiettano le fasi narcisistiche del suo padrone” [3]. O la figura di Donna Elvira, santità o dannazione, la vera vittima della seduzione di Don Giovanni, che nel cercare la luce, finisce per trovare le tenebre. O di Donna Anna, in cui peccato e senso di colpa ne fanno due volte “olocausto di se stessa”, per aver ceduto al piacere e averlo fatto nel momento del lutto e di Don Ottavio, il quale, ombra della donna, che adora, mette nell’angolo il desiderio di conoscere, preso nel suo limbo erotico. [4]

Don Giovanni, sfuggente a ogni catalogazione, non si pone limiti morali, non conosce il senso di colpa, proprio, perché conosce, invece, e fa leva su quello altrui, desidera in modo infinito, in una spirale di continua ricerca del piacere che brucia irresistibilmente e che lo rimanda sempre verso nuove conquiste. Non teme la morte in quanto non teme la vita e infatti scende vivo tra gli inferi, alla fine unico splendente “perché la sua luce irradia tutti e non conosce zone buie[5].

Il seduttore, al di là del bene e del male, spinto dalla sua voracità, febbricitante, senza tregua, è, nello stesso tempo, tormentato, divorato dalla ricerca del piacere, vittima di se stesso, attraversato da un sentimento tragico di solitudine, simile a quello che, ci ricorda Jacoviello, Kierkegaard ha definito angoscia esistenziale e Heidegger “intuizione del nulla”.[6] Seguendone le battaglie erotiche e l’inquietudine esistenziale, si comprende il senso di “dramma giocoso”, come cioè, nell’ossimoro risalti l’ambivalenza tra la tragicità di una vicenda e il lieto fine con cui si conclude.

Dopo essersi confrontato con l’orrore senza esserne piegato, precipita nell’abisso ma gridando sì alla vita e alla conoscenza, a lui soltanto riservata. In questo senso, scrive l’autore, “Don Giovanni è la voce libertina per eccellenza del luminoso Settecento che pone il piacere dell’intelletto al di sopra di qualunque necessità di ordine naturale”. [7] È il Don Giovanni della conoscenza quello che Jacoviello propone e rilancia.

Anche nella terza e ultima delle “opere buffe” scritte da Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte, Così fan tutte, l’analisi umana è condotta con autonomia, attenta a rimarcare la diversa psicologia dei personaggi. Se Da Ponte, con acume e leggerezza, individua una storia fuori dal comune o forse la riprende dalla cronaca, Mozart ne ridefinisce lo spessore tragico. Il teatro è la sede della speculazione filosofica e il luogo in cui si mescolano serio e tragico col buffo e il grottesco e in cui i giochi d’amore sembrano diretti da una forza cui sembra non potersi sottrarre e che fa emergere tratti prima sconosciuti delle singole personalità. E di cui si presenta il catalizzatore, Don Alfonso, filosofo cinico e misogino, attento malignamente a dimostrare che così fan tutte. “Il flȃneur napoletano non può ancora conoscere il libello giovanile di Arthur Schopenhauer L’arte di trattare le donne – chiarisce Jacoviello – ma è senz’altro cultore di Epicuro e di Aristippo da Cirene”.[8] D’altronde, nel provare l’eterna malafede delle donne, Don Alfonso attesta anche la dabbenaggine dei maschi: il risultato tragico è a sfavore dell’intera umanità. E poi c’è Despina, vivace intellettualmente, astuta e volitiva, che rappresenta la risposta napoletana al prototipo femminile di marca emiliana di Fiordiligi e Dorabella, sciocche e superficiali, che passano le giornate a bere “cioccolatte” e a spendere nella noia la loro esistenza. Vivono del mito della bellezza e della “prestanza amorosa”. Tentate, reagiranno in modo diverso: Dorabella non si farà problemi, Fiordiligi no, resisterà ma, alla fine, entrambe cederanno. I loro fidanzati, Ferrando e Guglielmo, il primo più delicato e introverso, il secondo più grossier, sembrano usciti, ci dice Jacoviello, “dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Qui la dialettica tra signore e servo, là il rapporto intercalare tra chi vuol avere ragione sull’altro.” [9] In questa sfida, in cui l’uno sorveglia l’altro, e viceversa, i due sembrano regrediti a livello infantile.

Cultura e passione, le cifre di Jacoviello. Ma non solo, come nel capitolo Il labirinto dell’eros, in cui riesce, partendo dal Simposio platonico e dalle definizioni di un Socrate a esprimere, nella e oltre l’algida perfezione concettuale della filosofia, la calda magia della poesia e dove inserisce, altresì, il fascino del mito che lo aiuta nell’analisi psicologica, come quando parla di Elettra, corrispettivo per le donne a quello di Edipo per i maschi. Freud e Jung, insieme, nel tentativo di scavo e comprensione dei comportamenti umani. Ma anche Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante. E Kierkegaard, Schopenhauer, Sartre, Heidegger, Levinas, Kant. E di nuovo Platone, quando, con il riferimento al Timeo, l’ultima grande opera che garantisce omogeneità alle teorie precedenti, tratteggia il disegno del Demiurgo che modella ogni aspetto della creazione secondo una perfetta struttura matematico-geometrica che collega il tutto in una visione totale. Per “Platone il mondo ha un’anima che è sostenuta dall’infinita catena relazionale tra cosa e cosa per comprendere il Tutto-Uno creatore. La musica diventa in questo modo la metafora, l’anello di congiunzione razionale, fra il mondo metafisico e quello fisico.”[…] Quel che conta, nella musica, come afferma Mozart, è la capacità di leggere e dare valore tra nota e nota, non soltanto alle note stesse, in altri termini, la relazione.”[10]

In un’epoca, come il Settecento, in cui “il piacere dell’intelletto è la porta d’oro del desiderio[11], Mozart, con i suoi drammi giocosi, il senso della tragicità che irrompe e nobilita il pur dignitoso mondo della commedia, di cui conserva il lieto fine, rivela una straordinaria capacità di intellettualizzare la musica, tanto che Jacoviello conclude il suo poderoso saggio con il richiamo al filosofo della metafisica: “Mozart riprende, forse inconsapevolmente, la lezione platonica della Lettera VII in cui il padre della filosofia chiarisce i presupposti della conoscenza, cioè l’intellezione, l’illuminazione altrimenti detta intuizione intellettuale.”[12]

Riduttivo pensare dunque all’opera di Mozart-Da Ponte secondo lo schema classico aristotelico tragico-comico o quello opera buffa-opera seria. Tali riduzioni, riflette Jacoviello, apparentemente chiare, risultano, dopo la loro trilogia, inadeguate e indistinte: come rimanervi ancorati di fronte a una commedia che dopo il sorriso e la beffa ti trascina in emozioni così profonde da “commutare istantaneamente il sorriso in lacrime”?[13] Come non considerare, nel Don Giovanni, l’elemento drammatico per eccellenza, quella coscienza tragica che ne caratterizza la scelta e l’inabissarsi negli Inferi?

Don Giovanni, in particolare, è l’opera che incarna la filosofia nella musica. Amata a Praga, apprezzata a Vienna, dibattuta e censurata in Italia per tutto l’Ottocento, infine ristudiata e riscoperta, rappresenta la sublimazione del genio del suo autore tanto che Jacoviello afferma che si potrebbe, con Heidegger, sostenere che è in essa che si rivela completamente il suo “senso dell’essere”.

E la notte, sovrana e simbolo della morte, riemerge. Giorno e notte, luce e buio, comico e tragico, nobiltà e miseria, solarità della parola e mistero delle note.

E la grandezza rifulge. D’altronde, scrive Jacoviello: “Quando il divino si fa musica, spalanca le porte dell’infinito e trasfigura anche una storiella comune in epica della coscienza.”[14]

[1] Marco Jacoviello, Al calar della notte, Luce e tenebra nel teatro di Mozart, Libreria Musicale Italiana, 2021, pag. XI

[2] Marco Jacoviello, Al calar della notte, Luce e tenebra nel teatro di Mozart, Libreria Musicale Italiana, 2021, pag.174

[3] Marco Jacoviello, Al calar della notte, Luce e tenebra nel teatro di Mozart, Libreria Musicale Italiana, 2021, pag.119

[4] Op. cit., pag.124

[5] Op. cit., pag.210

[6] Op. cit., pag.226

[7] Op. cit., pag.227

[8] Op. cit., pag. 130

[9] Op. cit., pag. 133

[10] Op. cit., pag. 274-275

[11] Op. cit., pag. 277

[12] Op. cit., pag. 282

[13] Op. cit., pag. 192

[14] Op. cit., pag. 194



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