Alberto Prunetti, “Non è un pranzo di gala”

Con la sua scrittura, Prunetti vuole aprire in Italia la via a un filone letterario snobbato dall'editoria nostrana: quello della letteratura working class.

Emiliano Pagani

Uno spettro si aggira per il mondo delle lettere: Alberto Prunetti.
Uno spettro grande e grosso, con la voce e l’incedere di chi nel mondo delle lettere ci sia trovato per caso, per strane congiunture favorevoli e non per diritto di nascita o di elezione. Uno che, come racconta lui stesso, quando si presenta all’ingresso delle grandi case editrici viene scambiato per il tecnico delle caldaie e che quando viene invitato a partecipare a cene e aperitivi, mangia troppo e troppo velocemente, ridendo ad un volume superiore alla media accettabile e dando pacche sulle spalle agli altri commensali.
Uno che non è uscito da una delle tante scuole di scrittura da migliaia di euro al mese o che abbia avuto corridoi preferenziali per imparare “il lavoro culturale” in qualche redazione prestigiosa, grazie alle conoscenze dei genitori, anzi. Prunetti nel mondo delle lettere ci è entrato raccontando proprio la storia del padre, operaio specializzato, saldatore tubista.

Un lavoro pericoloso dove per proteggersi (e proteggere soprattutto l’impianto al quale si sta lavorando, spesso composto da tubazioni in cui scorrono sostanze altamente infiammabili) era obbligatorio indossare un telone grigio, realizzato con un prodotto leggero e resistente alle alte temperature: l’amianto. Una sola fibra nei polmoni e dopo vent’anni sei morto. Questo è stato il destino del padre, Renato, e questa è la congiuntura favorevole che ha portato Alberto Prunetti nel mondo delle lettere.
“Amianto”, questo il titolo del suo primo libro, ha iniziato a diffondersi tra un numero sempre crescente di lettori, fino a venir persino tradotto e pubblicato all’estero.

Di seguito, Alberto ha pubblicato “108 metri”, dove racconta la sua esperienza da migrante nel Regno Unito, per pulire i cessi al minimum wage, la paga sindacale minima, ed è proprio lì, nel Regno Unito, che ha iniziato a rendersi conto che nell’italico mondo delle lettere c’era qualcosa di strano. È dovuto uscire dalla stanza, per poter vedere l’elefante che faceva bella mostra di sé, all’interno della stessa. Sì, perché mentre nell’ambiente culturale anglosassone (parlo di narrativa, ma non solo: basti pensare a Ken Loach, ad esempio, per fare un esempio tra i più conosciuti) esiste una forte tradizione di letteratura “working class”, in Italia sembra che le porte dell’editoria siano sbarrate a questo genere di storie, di scrittrici, scrittori e di narrazioni.

Da qui l’urgenza di scrivere (e di leggere, aggiungo io) un libro come “Non è un pranzo di gala – Indagine sulla letteratura working class” (minimum fax). Innanzitutto per dare un nome alle cose e iniziare a chiamare dette cose col loro nome. Quando vuoi emarginare un gruppo sociale gli togli la possibilità di parlare con la propria voce, di raccontare le proprie storie, magari impossessandotene per raccontarle da un piedistallo intellettualoide piccolo borghese, forse pure di sinistra, forse pure in buonafede, ma comunque elitario. Una cosa che gli schiavisti facevano (e ancora fanno) era quella di cambiare il nome e la lingua agli esseri umani che compravano, in modo da privarli di una loro identità: esistevano non in quanto esseri umani, ma solo grazie al riconoscimento dei loro padroni.

In secondo luogo, per capire come muoversi, come riconoscersi tra simili, come creare un immaginario alternativo a quello piccolo borghese che da anni sta funestando il mondo della letteratura italiana.
Per ogni privilegiato che racconta quanto sia difficile crescere a Roma nord o per ogni piagnisteo autocompiaciuto che esplora l’interiorità del soggetto, raccontando come unica crisi narrativamente accettabile quella interiore, quella delle proprie ossessioni minimali, quante voci working class vengono respinte al mittente o magari pubblicate, ma senza promozione, senza recensioni su quotidiani illustri, senza distribuzione e magari nemmeno compenso?
Ecco, queste sono le premesse da cui parte Alberto Prunetti nella sua indagine.

Operazione che lo porta a pendere atto che esiste un problema e che questo problema è sociale e culturale allo stesso tempo.
Preso atto che le porte dell’industria della cultura sono ben presidiate dai figli della classe media, se non addirittura delle classi più agiate, da persone, cioè, che hanno avuto famiglie in grado di investire sulla loro formazione, anche e soprattutto dopo l’università, con corsi spesso in scuole private e master a pagamento, oppure semplicemente mettendo a loro disposizione il bagaglio di conoscenze nel mondo della cultura o i soldi per poter affittare un appartamento a Roma o Milano (si è tagliati fuori da tutto quando si vive in provincia, lo dice Prunetti e lo conferma anche chi scrive, per esperienza diretta) magari senza dover lavorare, per potersi dedicare tutto il tempo alla propria formazione, Prunetti insiste sulla necessità di trovare innanzitutto una propria voce e in seguito, un mezzo per diffonderla attraverso l’industria della cultura.
Come sostiene la poeta femminista black, Audre Lorde: “gli attrezzi del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone” ed è per questo motivo che gli scrittori working class dovranno forgiare degli strumenti propri che non siano quelli del romanzo classico (struttura narrativa borghese per eccellenza) ma neanche quelli del turismo di classe, utili per far provare ai lettori delle classi medie, il brivido (o la pietà) di un safari nelle case popolari, nelle cucine dei ristoranti, nei piazzali delle fabbriche o della logistica.

La prima domanda alla quale Prunetti tenta di rispondere è esattamente questa: i comuni modelli tematici narrativi valgono per il romanzo borghese come per la narrativa working class, oppure c’è bisogno di intervenire anche sulle strutture più profonde del racconto?
Da questo problema ne origina un altro: dato per assodato che chi sceglie le opere da pubblicare e promuovere proviene nella quasi totalità dei casi dalla classe media, a quale classe appartiene chi tali opere dovrebbe leggerle?
A chi devono parlare le storie working class? Ai lettori borghesi, magari pure di sinistra, che hanno voglia di fare un giro nei bassifondi, per poi riemergere sostenendo che “sì, è bello, ma non ci vivrei”, oppure a chi fa le pulizie, a chi lavora nei cessi, a chi lavora nella ristorazione, agli operai licenziati, agli addetti alla logistica?

E non si tratta solo di parlare con le persone povere o working class, ma anche di costruire fiducia attorno alla necessità di rendere collettive le esperienze quotidiane e di costruire una narrazione comune per creare un pubblico di lettori nuovo, più ampio e cosciente, perché se c’è una cosa che si impara nascendo nelle classi popolari è che da soli non si va da nessuna parte.

Questo è il primo insegnamento e anche il tesoro che ogni aspirante scrittore working class dovrebbe portarsi dietro.
Spesso chi lavora nell’editoria, e nella cultura in generale, viene pagato (quando avviene) poco o comunque meno di un muratore o un di idraulico. Questo avviene perché negli anni si è lavorato a lungo sulla demonizzazione del lavoro manuale, a vantaggio di quello “intellettuale”.

Secondo molti insegnanti, e anche qualche ministro, le vere scuole sono i licei, mentre i ragazzi che frequentano gli istituti professionali sono muli, ignoranti e vili. Ma allora perché chi fa un lavoro manuale ha spesso un salario migliore rispetto a chi lavora nell’industria della cultura?
Certo, perché i secondi lo fanno per l’immagine, non per i soldi. Un operaio della Fiat non lavora per andare in giro a vantarsi di lavorare nell’industria metalmeccanica, quindi il suo lavoro devi pagarlo in soldi, non in visibilità.
Ma c’è anche un altro fattore: gli altri lavoratori fanno sciopero e hanno, nella maggior parte dei casi, compagni e compagne che insieme lo sostengono le loro lotte.
È possibile immaginare scenari del genere all’interno dell’industria culturale?
Alberto Prunetti non ha una risposta ma in questo suo libro stimola riflessioni, ribalta punti di vista comunemente accettati, racconta la sua esperienza di lavoratore e di scrittore working class, fornisce una bibliografia di genere davvero interessante, dà alcuni suggerimenti con quello che chiama il suo “Piccolo manifesto di scrittura working class” e soprattutto si fa promotore e organizzatore del primo festival italiano di letteratura working class, con la collaborazione del collettivo di fabbrica della GKN di Firenze, da mesi in lotta contro la chiusura dello stabilimento, annunciata per sms, mentre i lavoratori erano in ferie.
Insomma, grande è la confusione sotto al cielo: la situazione è eccellente.



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