Addio alle “ali”

Nel confronto ineludibile con “Alitalia” lo scarno e mortificante nome bisillabo della nuova compagnia dice apertamente di vere e proprie mutilazioni.

Nunzio La Fauci

Ora che, dopo tanto patire, Alitalia se n’è ita, è impossibile tacere che la si rimpiange: si badi al corsivo, s’intende la designazione. Bando alle iperboli: non si dirà che era il più bel brand di una compagnia aerea che ci fosse al mondo. Chissà quanti ce ne sono di bellissimi e fare graduatorie in àmbiti che alle graduatorie sono integralmente refrattari è tipica manifestazione di una ormai più che secolare stupidità. Certo è invece che, fuori d’ogni classifica, Alitalia era bel nome. Bello tra i belli, sempre che di belli ce ne siano stati, ce ne siano.

Per difetto di competenze, qui non si sa dire a chi Alitalia fosse venuto in mente e il fatto che la sua ideazione risulti adespota ne aumenta il fascino. Un prodotto collettivo? A propiziarlo fu certo una circostanza: la piccola Alitalia (qui in tondo) nacque, dicono, nel 1947, gemma di una compagnia che soppiantò e che era detta ALII, acronimo di Aerolinee Italiane Internazionali. Alla fine di quell’anno fu promulgata la Costituzione della Repubblica italiana. Non si può dire che la coincidenza non sia ancora oggi suggestiva.

ALII, acronimo d’origine, era ambiguamente allusivo. Quando lo si aggiunse come prefissoide a Italia, l’aggiunta palesò che di ali ce n’è appunto anche lì. Bastò una crasi ed ecco venire fuori una iterazione: Ali-t-ali-a. Nulla è più basicamente, nativamente poetico e più comunicativamente efficace di una iterazione. I like Ike: con tutto il resto, proprio in quegli anni Roman Jakobson l’aveva mostrato, di qua e di là dell’Atlantico, anche se c’è da dubitare che chi aveva lavorato alla costruzione di nome e progetto della società ne fosse disciplinarmente consapevole.

A ogni modo, fu certo euforica scoperta, quella di avere ali nel proprio nome, per una nazione irregolarmente distribuita nella sua area geografica e sempre incerta di sé (non senza ragione), che pochi anni prima s’era consegnata a un regime ridicolo, pensandolo passeggero, e s’era quindi ficcata, illudendosi fosse una partita di calcio, in una spaventosa catastrofe, dagli esiti della quale stava provando a venire fuori, spiccando faticosamente il volo.

Alitalia: significante e significato, inoltre, fusi in mirabile, motivata funzione. Due volte ali nel nome di una società che faceva del volo il suo business e, se ancora si può dire in italiano senza l’interferenza di mission, la sua missione patriottica. Alla nazione con ali nel suo nome, Alitalia, raddoppiando ali, apriva le vie del cielo: “Volare, oh oh…” si sarebbe cantato di lì a poco in italiano nel mondo intero. Ma con la premessa, per gli Italiani forse un presagio, di “Penso che un sogno così non ritorni mai più…”.

In effetti, poi andò come forse doveva andare e come è inutile qui si rivanghi. Venne il momento in cui nella lingua globale, Alitalia fu riletto sarcasticamente come un acronimo. Ancora una prova della brama degli esseri umani di motivare ciò che motivo appunto non ha. E capitò quindi che la compagnia che della poetica motivazione locale di due ali aveva per figura ferito, si avviò in realtà a perire della prosastica motivazione globale, vera o falsa che fosse, di Always Late In Takeoff, Always Late In Arrival. Si avviò a perire per lenta agonia, sommersa dai debiti e appesantita da zavorre esiziali per i tentativi di nuovi decolli. Insufficienti le ali del suo brand, dissipate anche quelle procurate come buffe stampelle dalla nazione, per la quale divenne un peso. La compagnia italiana di bandiera non riuscì più a “staccare l’ombra da terra”. È stata, è permanente allegoria?

All’Italia viene in questi giorni assegnata una nuova compagnia aerea di bandiera, per concessione di autorità ormai superiori. Tali autorità hanno imposto che, fin nel nome o forse principalmente nel nome (le cose seguiranno, è forse la speranza), essa sia diversa dalla vecchia. Nel gioco onomastico, si è così tornati alla casella del Via e, congiuntamente, a un acronimo: ITA, Italia Trasporto Aereo. E va allora detto che dal bello, forse inutilmente seducente, si è passati al brutto, certo mortificante e malamente celato ancora una volta con l’inglese di rito: ITA Airways. C’è da chiedersi quanto lo si sia fatto intenzionalmente, quanto per l’inarrestabile sciatteria che si va impadronendo di ogni contrada dello spirito nazionale.

Con Italia, nome proprio della nazione o, forse, dell’area geografica piegato a fare da scorciato attributo relazionale, la designazione per intero della nuova compagnia è composizione sintagmatica adeguata a dare lustro nel migliore dei casi a una azienda provinciale di logistica: sede a Roccacannuccia, succursale a Pratofiorito. Ma ciò che veramente ferisce è la sigla. Una frana, cui si spera si metterà presto riparo con gli esiti dell’acquisto, letteralmente in extremis, del marchio Alitalia da parte della nuova nata.

ITA ha in effetti un’improvvida omonimia con il femminile del participio passato del verbo ire. Si dirà che ad accorgersene saranno forse pochi italofoni e altrettanto poche italofone dalla cultura consapevole. Ma si tratta di omonimia foriera, se divulgata, di associazioni certo non apprezzabili e lo si è sommessamente segnalato in esordio.

D’altra parte, lo scarno nome bisillabo, piano e trilittero segue certo l’andazzo denominativo del momento ma, nel confronto ineludibile con Alitalia, dice apertamente di drastiche riduzioni. Meglio, di vere e proprie mutilazioni. Appunto, chissà se ci si è pensato, chissà se lo si è fatto di proposito. ITA è in effetti quanto resta non tanto di Alitalia, quanto e propriamente di Italia, una volta che da IT-ali-A si è tarpato tutto ciò che suona come ali.

 

(credit foto ANSA/ TELENEWS)



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Nunzio La Fauci

Riattualizzione del mito e declino di una civiltà linguistica i nuclei del film Palma d'oro a Cannes

La prefezione del libro di Yann Diener “LQI. La nostra lingua quotidiana informatizzata”.

Su Twitter la casa editrice fornisce una lettura grossolana del romanzo di Tomasi di Lampedusa che ripropone vecchi luoghi comuni.

Altri articoli di Società

L’impatto sociale dell’Intelligenza artificiale non è paragonabile a quello avuto da altre grandi innovazioni tecnologiche.

"I ragazzi della Clarée", ultimo libro di Raphaël Krafft, ci racconta una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani.

Il diritto all’oblio è sacrosanto, ma l’abuso che gli indagati per mafia ne è pericoloso.