Alla ricerca della parola giusta

In “La mia Babele” (Solferino) Marcello Fois racconta i passaggi fondamentali che lo hanno portato a essere uno scrittore, focalizzandosi sulla materia prima del suo lavoro: le parole.

Massimo Castiglioni

La mia Babele di Marcello Fois, pubblicato da Solferino, è un libro che comincia in Sardegna, a Nuoro, città natale dell’autore, e termina in diverse parti del mondo. È quindi un libro di viaggio? Sì, in un certo senso, ma ben piantato a terra. Perché non si tratta di descrivere e raccontare i luoghi attraversati e visitati da una persona, ma di tracciare la traiettoria di una vita, quella di uno scrittore, che quando ancora non è uno scrittore cresce in Sardegna, si trasferisce a Bologna, inizia a pubblicare libri e finisce con l’essere tradotto in varie lingue. Il viaggio è anche fisico, ma soprattutto intellettuale ed esistenziale. È dunque un romanzo di formazione? Sì, in un certo senso, pure stavolta. E non solo perché il romanzo di formazione ha storicamente a che fare con il viaggio, come anche il suo antenato più nobile, il romanzo picaresco, ma in particolare perché la formazione prevede l’incontro e lo scontro, la scoperta e l’abbandono di qualcosa; e di scoperte e abbandoni, anche difficili, Fois ci parla abbondantemente, pur nella brevità del testo.

Questa introduzione per arrivare a dire che La mia Babele è principalmente un libro che ha a che fare con le parole, come del resto suggerisce il titolo. Le parole natie del dialetto sardo, le parole dell’italiano – quella quasi seconda lingua che cerca di imporsi sull’altra grazie all’intervento della scuola –, le parole di un libro che come un’epifania rivelano la cosa giusta da fare (così accade leggendo Il giorno del giudizio di Salvatore Satta), le parole di un illustre professore di letteratura italiana all’Università di Bologna di nome Ezio Raimondi, le parole dei primi libri di Fois, le parole dei funzionari editoriali che hanno in parte accompagnato la sua carriera, le parole ancora dei libri che cambiano veste e grazie a traduttori più o meno sensibili si depositano in un’altra lingua. Ed essendo, quindi, un libro del genere, non può non riferirsi al suo stesso autore, che nel tracciare questa biografia, nel raccontare i passaggi fondamentali che lo hanno portato ad essere uno scrittore, si focalizza proprio sulla materia prima del suo lavoro.

Fin dall’inizio, cioè dal racconto dei primi anni di vita, a partire da quella nascita così complessa e dalla singolare scelta del nome di battesimo, si presenta l’urgenza dell’impatto tra Marcello e il mondo, la necessità cioè di uscire dal proprio Io verso ciò che si ha intorno, a cominciare dalla scuola, dove da parlante del dialetto è costretto a imparare la lingua ufficiale. In classe è anche l’unico a portare gli occhiali, «che sono, a pensarci, un ulteriore schermo tra me e il mondo reale: lingua, identità, sguardo. Tutti linguaggi che devo costantemente tradurre da me al mondo circostante. Sto costruendo una torre attraverso una miriade di linguaggi che devo necessariamente ricondurre ad una koiné. La mia personale torre di Babele, insomma. Se diventerò qualcuno che racconta, e questo mi pare di intuirlo fin da subito, dovrò imparare ad attivare e rendere sempre più efficiente il mio traduttore simultaneo».

Negli anni delle scuole medie, quando il traduttore simultaneo si rivela sempre più avvezzo al suo compito, si infittisce il rapporto con la lettura: dai testi religiosi e dalle enciclopedie di casa si arriva ad alcune collane di classici, arrivano Il Conte di Montecristo e il decisamente più ostico Moby Dick. E con essi, arrivano anche i primi tentativi di scrittura, come L’evasione, dramma carcerario d’esordio stimolato dal romanzo di Dumas.

Più avanti, con l’avanzare dell’età e l’avvicinarsi di alcune scelte problematiche, Marcello decide di abbandonare la Sardegna e di passare dalla facoltà di Medicina a Sassari a quella di Lettere a Bologna (decisivo il libro di Satta di cui si è detto), dove ha modo di conoscere Ezio Raimondi, con cui si laureerà, e dove prende sempre più piede l’idea di diventare uno scrittore.

Nella parte finale questa idea si concretizza definitivamente. Viene ricordata la vittoria del premio Calvino nel 1992 e i titoli di alcuni dei primi libri: Picta, Ferro recente e Sempre caro (che «mi aprì le porte della grande editoria e del mondo»). Insieme a loro ecco comparire alcune storiche figure dell’editoria italiana come Piero Gelli e Giulio Einaudi. Da qui il libro approfondisce il discorso della trasformazione, del passaggio a qualcos’altro, toccando quel campo che, in letteratura, rappresenta forse più di ogni altro l’idea di contatto con terreni lontani dal proprio: la traduzione, il trasmigrare da una lingua all’altra grazie all’ausilio di quegli intellettuali quasi invisibili che sono i traduttori. Sono pagine divertenti e interessanti, quelle in cui Fois, non senza una punta di autocompiacimento, ci parla delle sue voci nelle principali lingue mondiali. Ed è solo il momento più avanzato di una storia iniziata molti anni prima, dove la costante sembra essere dunque la necessità di aprirsi all’altro in dialettica col proprio Io. Uscire dal parlato familiare per abbracciare l’italiano, andare via dalla Sardegna per scoprire Bologna, oltrepassare i confini dell’editoria nazionale per essere tradotti in altri paesi. La mia Babele scandaglia la memoria dell’autore raccontando questa uscita da sé stessi senza mai abbandonare sé stessi. Un percorso complesso e intricato, su cui l’ironia e l’agilità dello stile di Fois cercano di far luce, che mette in risalto un aspetto tutt’altro che secondario del fare letteratura e del mestiere dello scrittore.

(credit foto Dread83 via wikimedia commons)



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