Alla ricerca di Federico Caffè

"Dove la luce" (La Nave di Teseo, 2024) di Carmen Pellegrino è un intreccio, a tratti autobiografico a tratti di fantasia, caratterizzato dalla delusione esistenziale a ridosso di due epoche: quella dei "trenta gloriosi", del welfare state e dei diritti sul lavoro, e quella degrado dello Stato sociale dato dal neoliberismo. L’autrice elabora un dialogo ipotetico con un anziano Federico Caffè, apostolo del pensiero keynesiano in Italia, sulle promesse mancate della crescita economica degli anni d’oro del capitalismo e sull’amarezza della decrescita causata da uno Stato sconfitto dalle forze predatorie del mercato.

Pierfranco Pellizzetti

«La disperazione è una forma superiore di critica.
Da oggi noi la chiameremo: felicità»
Leo Ferré
«Solitaire, solidaire».
Albert Camus

Una civiltà possibile, ormai cancellata
Più che un romanzo – quello di Carmen Pellegrino – è un crocevia, dove si incontrano e intrecciano biografie e autobiografia. In qualche misura creazioni letterarie? Invenzioni – come si premura di suggerire l’autrice al termine della sua narrazione?
Di certo non è un personaggio di fantasia Federico Caffè, il celebre economista che percepisce come una ferita la sua crescente inattualità, mentre non solo l’Italia ma l’intero Occidente – come si diceva – “industrialmente avanzato” prende tutt’altra direzione rispetto agli assetti democratici e inclusivi del secondo dopoguerra. Gli anni che i francesi definirono Les Trente Glorieux e lo storico inglese Eric Hobsbawm “l’Età dell’oro”. Il periodo in cui l’ortodossia in materia di governance politico-economica trovava il proprio riferimento intellettuale primario nella lezione profetica di John Maynard Keynes; i destinatari del cui messaggio erano le moltitudini degli ‘ultimi’, quelli che bussavano a porte che potevano schiudergli l’accesso a migliori condizioni di vita. E lo strumento per operare tale redenzione si chiamava diritto al lavoro. Anni in cui Federico Caffè è l’apostolo italiano di tale predicazione, quale intellettuale di riferimento per le forze di progresso in un Paese che si avviava – proprio grazie al lavoro – verso la stagione di crescita chiamata “Miracolo Economico”. Agli “inizi del secondo dopoguerra” e dopo le distruzioni belliche; quando gli italiani “hanno riempito di cose concrete quel vuoto. Hanno cercato gli appigli ideologici, hanno costruito il proprio bagaglio di certezze partendo letteralmente dalle macerie, in una sorta di solidarietà affettuosa e letale con un’idea di progresso che cancellasse l’immagine di popolo straccione, dominato e poi miracolato”. Per cui “hanno puntato a una sostanza umana diversa, che si è consolidata con le certezze acquisite attraverso il fabbricare, fabbricare, fabbricare e il lavorare con forza cieca: quelli senza scuola, nelle fabbriche e sui cantieri; i più fortunati, con almeno un titolo di studio, negli uffici”. Come il padre della nostra autrice: “la schiacciante ombra del padre” pragmatico e cinico come un vero socialista craxiano, in costante dialettica (seppure ormai a distanza e dunque intermittente) con sua figlia; per reazione militante nella gioventù del PCI. Il reciproco richiamo di quel familismo (che Edward Banfield bollava ‘amorale’, nelle sue ricerche sulla cultura delle società agricole lucane anni Cinquanta), per cui il genitore, ormai pensionato dopo una vita di impiegato statale, tornava alla terra e ai suoi frutti, alle sue coltivazioni, alle sue vendemmie e alle spremiture delle olive; mentre la figlia ritroverà periodicamente la via di un ritorno sempre negato alla casa natia. “Dove c’è il pozzo dal quale, a quel tempo prendevano l’acqua per lavarsi e io, da bambina, andavo a lanciare i desideri mai avveratisi”. Riscoprendo ogni volta l’insegnamento di Gertrude Stein: “a cosa servono le radici se non puoi portartele dietro?”.
Ma il dialogo letterario principale – in “Dove la luce” – è quello tra la ragazza e l’anziano economista, il cui punto d’incontro (oltre la comune provenienza da un Meridione fiero e appartato; abruzzese di Pescara l’uno, nata a Postiglione degli Alburni, nel Cilento tra Campania e Basilicata, l’altra) è la condizione di essere entrambe sensibilità ferita. Il trauma di una profonda delusione esistenziale. Per questa, la scoperta che “credevamo di essere salvi. Figli di un miracolo, guardavamo all’Europa che si univa, guardavamo a una nazione che era stata vestita di pezze, poi con la camiciola nera, che ora, tutto a un tratto, poteva comprarsi la pelliccia di visone, a rate”. Eppure “nessuno ci aveva detto che eravamo perduti all’origine”.
Per l’altro, l’inevitabile presa d’atto di aver perso la battaglia della vita; quando – come fu scritto – “alla stagione di Keynes ormai stava sostituendosi l’epoca di Friedrich Hayek e Milton Friedman”, dalla valorizzazione delle persone alla loro mercificazione. La scoperta sconvolgente di una corsa all’indietro in atto, verso la cancellazione impietosa di ogni generosità solidale, le conquiste civili del paradigma welfariano, di cui il grande professore, ma anche il fragile omino, scorge l’insensata follia dall’alto del suo metro e cinquanta di statura.

Dalla crescita alla decrescita
La grande disillusione, che colpisce due coorti di italiani accomunati dall’esperienza del Boom che involve in Flop. Come scrive la nostra autrice, a livello personale: “la sua generazione era quella della crescita, la mia è quella della decrescita non volontaria, obbligatoria”. ‘Felice’ solo nell’illusionismo da rive gauche di Serge Latouche”.
Come è noto Federico Caffè scompare misteriosamente, gravato dal peso delle sconfitte intellettuali e dall’avanzare di un mondo da cui si sente sempre più estraneo, il 15 aprile 1987. Eppure poco più di un anno prima aveva dato alle stampe un agile saggio come un manifesto delle convinzioni che ne avevano accompagnato l’intera esistenza di intellettuale impegnato. Dal titolo icastico “In difesa del Welfare State”; e con l’epigrafe amara “più che di contestazione, preferiremmo che la nostra posizione fosse profetica”: “L’insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica; può dare l’impressione di qualcosa di datato e di un’inclinazione al ripetitivo e al predicatorio, tollerabile per sopportazione più che per convincimento. Tuttavia, non è improbabile che questi ‘punti fermi’ di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrano essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino – in realtà si stanno già ripresentando – sotto aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata da un’etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con una economia ‘al servizio dell’uomo’”. Una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale.
Intanto si allargava la spaccatura sul tema cruciale della scala mobile, attraversando il Paese e lo stesso fronte sindacale: il ritorno in auge della vecchia tesi secondo cui solo disaccoppiando salari e inflazione – in cambio delle solite ‘contropartite’ promesse ai lavoratori – si sarebbe potuto salvaguardare l’occupazione. La posizione di Caffè era diametralmente opposta, ribadita in un’intervista all’economista Ezio Tarantelli, suo allievo ed amico: “non si possono stabilire criteri di moderazione salariale e contemporaneamente avere aumenti continui di prezzi di alcuni generi di prima necessità”. Un’impasse superata con il colpo di spugna operato dal governo Craxi il 14 febbraio 1984, con un decreto che tagliò di tre punti percentuali la scala mobile. La mossa scatenante l’immediata reazione del Paese: il 24 marzo un milione di persone sfilò per le strade di Roma contro l’accordo. Ciò nonostante il decreto fu convertito in legge l’8 giugno, dopo una durissima battaglia parlamentare costatra addirittura la vita a un parlamentare comunista: il senatore Dario Valori stroncato da un infarto. Il giorno prima – 7 giugno – durante un comizio contro la politica della maggioranza (il CAF, acronimo per il patto Craxi-Andreotti-Forlani), tenuto a Padova, Enrico Berlinguer era stato colpito da emorragia cerebrale. Il 27 marzo 1985 le Brigate Rosse assassinavano Tarantelli nel parcheggio dell’ateneo romano. Il 9 e 10 giugno successivi il referendum abrogativo della norma venne respinto dal 54,32% dei No. Alla fine di un drammatico crescendo che sancì la fine in Italia della cosiddetta “fase laborista”, iniziata con gli scioperi del 1964, sull’onda lunga del compromesso keynesiano-fordista fondativo dei Trenta Gloriosi. A cui Caffè si era consacrato, come uomo e come studioso. Ma altrettanto drammatico risultò il susseguirsi di eventi che avrebbe destabilizzato irrimediabilmente il mondo carico di speranze della generazione X, a cui si iscrive anche Carmen Pellegrino: “la promessa fatta a noi figli dei fiori, noi venuti al mondo con i cannoni che sparavano rose e girasoli”. Dunque, la nube radioattiva sfuggita al reattore numero 4 di Chernobyl il 26 aprile 1986; e prima ancora la diossina tossica sprigionata il 10 luglio 1976 da Seveso, in Brianza. E a seguire l’invasione del Kuwait da parte del rais iracheno Saddam Hussein (2 agosto 1990), fino alla Serajevo 1993 assediata da diciassette mesi. L’apoteosi dell’insensatezza culminate nelle mattanze del G8 2001 genovese, a cui Carmen aveva partecipato: “i segni di quelle giornate li ho ancora, in forma di cicatrici più o meno evidenti sulla rotula sinistra e all’attaccatura del braccio, sempre a sinistra”. Sempre restando sulla scena genovese, la tragica metafora della fine di un periodo storico: “il 14 agosto 2018 si è accartocciato su sé stesso uno degli emblemi di quell’epoca. Sotto una pioggia battente, poco prima di mezzogiorno, il ponte Morandi, costruito in calcestruzzo armato e inaugurato il 4 settembre 1967 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, è crollato causando morte e distruzione, e facendo precipitare, con il cemento armato, le contraddizioni di un secolo che non abbiamo saputo sciogliere”.

Beati gli ultimi
Ormai Carmen e Federico avevano raggiunto – sia pure nelle rispettive diversità caratteriali – la chiara consapevolezza della rottura avvenuta a livello di società.
Dei conseguenti effetti biografici di quanto – con ineffabile franchezza – avrebbe confessato Warren Buffett, uno dei tre o quattro uomini più doviziosi al mondo: “c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra. E stiamo vincendo”.
Nella scrittrice combattiva tale coscienza si esprime in risentimento lumpenclass contadino nei confronti dell’agiatezza, identificata nell’avversione sprezzante verso il povero – ‘il reietto’ disturbante la vista con la sua presenza – ribadita nelle pratiche del lusso; tutto questo ridotto alla minimalia esemplificativa di presunte attitudini “delle signore dei quartieri ricchi: le grandi buste di boutique per raccogliere i rifiuti”. La fredda rabbia della figlia del popolo cafone, ormai ridotta alla condizione della déracinée: resa transfuga di classe dalla scolarizzazione, l‘acculturamento, la scrittura raffinata che scoloriscono i segni dell’appartenenza in bilico tra mondi contrapposti, senza ritrovarsi in nessuno dei due. Mantenendo una rabbia fredda da marginalità e – al tempo – la fierezza della propria specificità. Il “non mi avrete” del protagonista di un film annata 1966 – “Le stagioni del nostro amore” di Florestano Vancini – premonitore dei tempi a venire: la pulizia etnica del non omologato di lì a venire. Nella presa di distanza ostentata attraverso l’abbigliamento all black. Lo sguardo severo di quegli occhi iper-truccati dark, da sembrare pesti, nell’immagine fotografica dell’autrice riprodotta in terza di copertine del suo libro per la Nave di Teseo.
Nel mite professore di economia il senso di abbandono da cui cerca riparo nella frequentazione dell’umanità finita ai margini della vita. Il povero come “figlio di dio” delle beatitudini evangeliche, intatto e puro, che il comune sentire della restaurazione turbo-capitalista, respinge e ghettizza come “brutto, sporco e cattivo”.
L’angelica figura che Caffè crederà di riconoscere nel dropout incontrato a una mensa dei poveri e con cui stringerà amicizia. Milo Marsico, non propriamente un innocente vittima degli eventi e della cattiveria altrui – come lo giudica il nuovo amico – stante l’alcolismo e la ludopatia borsistica grazie alla quale ha dilapidato lasciti dei genitori e dote della moglie. Ma che comunque farà da guida al professore per la sua fuga come “una rivolta senza proclami”. Su cui il libro non dice nulla che possa svelarne il mistero. La sua scomparsa senza lasciare traccia nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1987. Come già nel romanzo sempre sullo stesso tema di Ermanno Rea, “L’ultima lezione”.
Dunque, come concludere questa storia incompiuta? Magari facendo ricorso a quella poesia che ritorna in permanenza nel testo della Pellegrino, a partire la titolo ungarettiano, ripreso dalla raccolta “Sentimento del tempo” del 1933. In questo caso i versi finali del Viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni annata 1960, che Caffè avrebbe dovuto conoscere; e magari trarne ispirazione per il suo estremo addio silente:
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero amici, addio
Di questo sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
     Scendo, Buon proseguimento.



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