L’alternanza scuola-lavoro tra realtà e ideologia

Due insegnanti analizzano le varie forme che può prendere l'alternanza scuola-lavoro, evidenziando le differenze tra i due canali della formazione professionale da un lato e di quella liceale dall’altro.

Livio Ciappetta e Massimo Gargiulo

La tragedia accaduta a Lorenzo, un ragazzo morto sul lavoro mentre svolgeva un’attività scolastica, ha suscitato una serie di commenti e reazioni. Tra queste ultime sono sicuramente di primaria importanza le proteste degli studenti, i protagonisti, e purtroppo anche le vittime, dell’alternanza scuola-lavoro. Nelle righe seguenti vorremmo dare alcune informazioni e un parere la cui fondatezza deriva dal fatto che viene dal di dentro, dal momento che esprime il punto di vista di due insegnanti, uno di una scuola per la formazione professionale, e l’altro di un liceo.

Come premessa è da dire che la morte di Lorenzo è, se la si guarda cinicamente, parte integrante di un vero percorso di alternanza. Gli studenti italiani, per via di un dramma reso ancora più insopportabile dall’essersi verificato nell’ultimo giorno di stage e dal risalto mediatico che lo ha riguardato, si sono visti sbattere in faccia un dato di realtà del sistema lavoro in Italia: di lavoro, per il lavoro, sul posto di lavoro, si muore. Nel 2021 le vittime nel nostro Paese sono state 1404 (qui i dettagli). Al 22 Gennaio siamo a 48, compreso un ragazzo che svolgeva un’attività scolastica, Lorenzo appunto.

Nelle righe seguenti è nostra intenzione fornire qualche informazione sulle varie forme che la cosiddetta alternanza può prendere, evidenziando in particolare le differenze tra i due canali della formazione professionale da un lato e di quella liceale dall’altro. Tenteremo di farlo in forma asettica e senza addentrarci in particolari eccessivi o tecnici, per poi cercare di individuare alcune idee che ne sono alla base.

I Centri di formazione professionale (CFP)

Lorenzo era inserito in un percorso di Istruzione e formazione professionale (IeFP). Si tratta di percorsi che vengono realizzati all’interno dei CFP, la cui gestione è demandata alle Regioni. Essi rappresentano uno dei canali per l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Come si legge su un sito istituzionale, “pur assicurando una adeguata formazione culturale di base, i percorsi IeFP possiedono un carattere meno teorico, in quanto privilegiano l’apprendimento in contesti pratici; inoltre, a partire dal 2° anno (e comunque dopo il 15° anno di età) sono previsti periodi di stage obbligatori presso le imprese”. Da qualche anno, affianco ai percorsi IeFP sono stati inseriti anche i corsi di cosiddetto sistema duale, che prevedono una compartecipazione dell’azienda nella formazione professionale dello studente; per tale ragione, il monte ore di stage all’interno dei corsi duali è elevato a 400 ore per il secondo anno (contro le 180 previste per i corsi IeFP) e a 500 ore per il terzo anno (contro le 210 dei corsi IeFP).

Ciò detto, la discussione sull’alternanza scuola-lavoro dovrebbe forse svolgersi in modo diverso rispetto agli altri indirizzi quando si parla dei centri di formazione professionale, che nascono appunto per avviare gli studenti al mondo del lavoro.

Sarebbe innanzitutto opportuno stabilire che la scelta di un rapido avviamento professionale potrebbe essere, se sostenuta da un percorso scolastico adeguato, una scelta rispettabile come qualunque altro percorso di formazione e di studio. Ci sembra opportuno premettere ciò, poiché avviare un ragionamento sull’alternanza scuola-lavoro non ha senso se non si considera innanzitutto la ratio attraverso cui queste scuole sono state istituite, e ogni anno vengono scelte da un numero sempre maggiore di studenti. Studenti che approdano alla formazione professionale con alle spalle un’esperienza scolastica spesso malvissuta, che li ha indotti a preferire le abilità manuali, a ricercare la perizia artigiana. Ogni anno tra gli iscritti ci sono studenti con motivazioni chiare e consapevoli, altri con idee molto più confuse, spesso giunti alla formazione professionale perché ritenuti inadatti allo studio, avendo accumulato una grande fatica nell’esperienza scolastica. In entrambi i casi, la popolazione dei CFP non ama le materie teoriche, con pochissime eccezioni. Questo certamente non deve indurre a pensare che queste debbano essere abbandonate, anzi forse è proprio in quel campo che andrebbero investite maggiori energie, ma è opportuno tener conto di quali desideri, ambizioni e caratteristiche risiedano in quella popolazione studentesca.

Partendo dunque dal presupposto che l’amore per una professione e lo sviluppo di competenze professionali, accompagnato da una formazione culturale di ampio respiro efficace e stimolante, sia una scelta legittima e perseguibile, dobbiamo domandarci se l’accostamento al mondo del lavoro, dunque gli stage, siano funzionali o meno all’efficacia di tale percorso. Si tratta a nostro avviso di capire se si è davvero in grado di offrire esperienze di stage di qualità, con le giuste garanzie, con i tutor formativi adeguati e non improvvisati, con un controllo della scuola attento e puntuale. Nella rete di aziende che ogni CFP costruisce per avviare gli stage, quante potranno garantire tale adeguatezza e affidabilità? Le scuole avranno sempre la forza di seguire gli studenti nel loro percorso? Che rischio si corre che gli studenti si ritrovino a svolgere mansioni routinarie di scarso valore per l’intera durata dello stage? Quante opportunità avranno di essere inseriti nell’organico delle aziende ospitanti al termine o durante l’esperienza? Credo che a queste domande si debba dare una risposta seria, non ideologica o frettolosa. Per bandire ogni forma di rischio e di possibile sfruttamento dalle esperienze di stage occorre non solo un controllo rigoroso dei percorsi proposti. Occorre una società che legittimi e dia valore ai percorsi di formazione professionale come a ogni altra scuola. Occorre riconoscere che un/una giovane che voglia lavorare in una cucina, in una falegnameria, in un centro estetico o in una centrale di produzione di energia fotovoltaica, non ha meno diritti, meno bisogni e meno speranze di qualunque giovane che aspiri a uno studio di architettura o a un laboratorio di ricerca.

Accettata questa ovvia premessa, dobbiamo domandarci se le scuole siano in grado di offrire una formazione adeguata a chi sceglie l’avviamento professionale senza ricorrere alle esperienze di stage, oppure se queste siano indispensabili, a patto ovviamente che siano davvero efficaci. Forse il vero limite risiede proprio nell’efficacia e nella serietà delle strutture ospitanti, non nella legittimità della scelta.

Viene da chiedersi se avrebbe senso, quindi, immaginare scuole che propongano una formazione professionale senza neppure sfiorare il mondo del lavoro a cui alludono, se non sul piano puramente teorico. Crediamo di no, per quanto non si possa non ammettere, dopo una esperienza nei CFP da 15 anni, che i limiti di questo sistema sono molti, e sarebbe necessaria probabilmente una riforma strutturale, un’assunzione di massa negli organici delle scuole, una dotazione strumentale e di spazi adeguata alle esigenze formative; problemi in fondo comuni a tutte le scuole, di qualunque indirizzo. Ma non possiamo ignorare che nella manualità e nell’esperienza artigiana risieda una straordinaria opportunità formativa ed educativa, in grado di coinvolgere e appassionare chi della scuola non sa più che farsene, e tutto desidera tranne che passare ancora un altro minuto sui libri. Dobbiamo piuttosto domandarci se le istituzioni scolastiche, i centri di formazione professionale, abbiano la forza di scegliere aziende serie e solide come partner, la capacità di vigilare e condividere il percorso di stage. Forse occorre ripensare le modalità di ingresso negli stage, a quanti anni, per quanto tempo. Forse occorre stabilire con grande onestà intellettuale quanti studenti possano essere inseriti in stage davvero professionalizzanti, e non lanciarsi in collocazioni di scarso valore formativo e garantito insuccesso.

Ma non potremmo mai dire a tutti gli studenti che oggi lavorano nelle aziende che li hanno ospitati, che il loro stage era sbagliato per principio. Perché per loro è stato un successo, in alcuni casi perfino una salvezza.

I licei

A differenza della formazione professionale, l’alternanza è entrata nei licei recentemente, nel 2015 con la Legge 107, la famosa Buona Scuola di Renzi. Essa la inseriva qui per la prima volta aumentandone il volume negli altri indirizzi che già la prevedevano, con le 400 ore degli istituti tecnici. All’inizio si chiese alle scuole, peraltro nel giro di tre mesi, di organizzare attività per 200 ore complessive nell’arco del triennio. Per capire, si consideri che le ore annuali di greco al classico sarebbero 99, che poi non vengono mai realmente svolte; alternanza ne aveva, dividendo 200 per gli anni del triennio, circa 70. Il provvedimento fu uno dei maggiori bersagli delle proteste contro la Legge, culminate nel grande sciopero del maggio 2015. La propaganda renziana, e con essa un’altra serie di corpi intermedi, qualcuno persino in buona fede e con intenti positivi, aveva di che offrire all’opinione pubblica: finalmente si scardinava la dicotomia classista tra licei e formazione tecnica; la scuola italiana usciva dall’isolamento, anche ideologico, e cominciava a dialogare col mondo del lavoro; gli studenti avrebbero avuto una occasione di conoscerne alcuni meccanismi, così da avere anche le idee più chiare sulle scelte future. Alcuni di questi argomenti convinsero parti consistenti della società, nonché settori sindacali e una fetta di docenti. Tra questi ultimi, coloro che si dedicarono all’organizzazione, cercarono di farlo per lo più in maniera fruttuosa. È ancora interessante, a distanza di anni, andare a leggere il modo in cui l’alternanza è spiegata alla fonte, all’interno del sito web di Matteo Renzi. Demandando al lettore la visione del resto, prendiamo qui in considerazione solo pochi punti. Afferma l’ex Presidente del Consiglio: “I giovani studenti alterneranno le ore di studio alle ore di formazione in aula e a quelle all’interno delle aziende. Faranno, insomma, esperienza sul campo, acquisendo le competenze utili per inserirsi nel mercato del lavoro”. L’aula è posta sul medesimo piano dell’azienda: i due luoghi sono omologhi e assolvono entrambi, senza apparenti distinzioni, alla funzione formativa dei ragazzi. L’idea è ribadita sotto: “Alternanza scuola-lavoro: l’espressione ci consente subito di capire che si tratta di un metodo didattico”. Il salto è fatto: il periodo in azienda non è più solo, come dice lo stesso sito, il sapere del braccio che si unisce a quello della mente, ma è una modalità ulteriore del medesimo metodo didattico. Per acquisire cosa? Non certo conoscenze, ma competenze, l’altro grimaldello ideologico: e competenze necessarie all’inserimento nel mercato del lavoro, quale che esso sia. Il capolavoro, che ha ora il timbro sinistro del ghigno, è nella chiusa, nella quale Renzi tenta goffamente di rispondere alle voci di chi rinfacciava una scuola piegata alla produzione, la marginalizzazione del sapere teorico e critico, la messa a disposizione di centinaia di migliaia di studenti alle imprese: “L’alternanza è sfruttamento? Assolutamente no! Anzi, è il contrario: è valorizzazione del talento di ciascun [sic!] studente in un percorso protetto di formazione. E se per i giovani l’alternanza scuola-lavoro rappresenta una interessante opportunità di crescita e di conquista di nuove skills utili per l’inserimento nel mercato del lavoro, per le aziende rappresenta un ottimo investimento nel capitale umano”. Ho evidenziato in grassetto tre espressioni chiave: le skills, gli studenti come capitale umano per gli investimenti delle aziende, e il percorso protetto. Su quest’ultimo aspetto, oggi, è meglio tacere.

L’alternanza come era stata definita dalla Legge 107 del 2015 ora è modificata dalla 145 del 2018. Mutato il nome nell’acronimo PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), le ore per i licei passano da 200 a 90 nell’arco del triennio. Per chi pensi a una marcia indietro tesa a raccogliere le istanze provenienti da ampi settori della scuola e del mondo sindacale, la disillusione è immediata. I percorsi sono obbligatori e sono condizione per l’ammissione all’Esame di Stato; non solo, è detto a chiare lettere che “non possono essere considerati come un’esperienza occasionale di applicazione in contesti esterni dei saperi scolastici, ma costituiscono un aspetto fondamentale del piano di studio”. Il fine è, di nuovo, chiarissimo, come del resto lo è il centro di irradiamento ideologico dell’alternanza e dell’idea di scuola di cui essa è espressione, vale a dire la Comunità Europea: “Questo modo di intendere le esperienze comporta un capovolgimento delle tradizionali modalità di insegnamento, riprogettando la didattica a partire dalle competenze trasversali così come descritte nella Raccomandazione del Consiglio del Parlamento Europeo del 22 maggio 2018, ossia nella definizione di un progetto concordato per la soluzione di un problema, e di impresa formativa simulata, ossia nello sviluppo di attività imprenditoriali così come effettivamente presenti nella realtà, naturalmente con l’apporto fondamentale del territorio (aziende, enti culturali, centri di ricerca etc.)”. Insomma, lo studente dovrà sviluppare essenzialmente una capacità di impresa, essere imprenditore di sé stesso, e la scuola sarà solo una delle agenzie formative del territorio che concorrono a ciò.

A fronte di un impianto ideologico così radicale, la riduzione delle ore si svela per ciò che è, un provvedimento che mira a contenere la spesa rispetto ai 100 milioni l’anno di renziana memoria.

Un po’ di numeri

Ovviamente infatti ci sono risorse che vengono destinate all’alternanza: per orientarsi, rimanendo ai licei, una scuola con circa 1000 alunni e 120 dipendenti tra docenti e ATA, riceve sui 12.000 € l’anno solo per i PCTO; per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si consideri che la stessa scuola riceverà come fondo di istituto circa 60.000 € totali. Vuol dire che l’alternanza da sola è finanziata per un importo pari a 1/5 di ciò che il ministero eroga alle singole scuole.

Per fare cosa? Tralasciando gli esiti più beceri, come gli studenti mandati nei fast food o a staccare i biglietti agli internazionali di tennis, o la ricerca di manodopera a costo zero da parte di taluni enti o imprese ospitanti, fermiamoci pure a quelle istituzioni culturali, o del terzo settore, che assolvono a una funzione importante nel Paese e sono spesso letteralmente rivitalizzate dagli studenti che svolgono presso di loro le proprie ore. Ebbene, per tali percorsi virtuosi l’alternanza non era affatto necessaria: esistevano già i progetti previsti dall’autonomia, l’orientamento in uscita e, dallo scorso anno, la nuova materia (introdotta chiaramente a costo zero) dell’educazione civica. Rimanendo all’istituto preso in considerazione prima, i progetti dei PCTO attivati per l’a.s. 2021/2022 sono così distribuiti: 8 con l’Università Roma Tre; 4 con la Sapienza; 1 con la LUISS; 6 con associazioni no-profit; 1 con Sant’Egidio; 3 con United Network (comprende simulazioni in lingua inglese di partecipazione a sedute delle Nazioni Unite); 1 con il quotidiano Repubblica; 1 con un osservatorio astronomico; 1 con la Rete Nazionale Scuole Green. Ammesso che questa scuola sia particolarmente virtuosa nell’evitare l’esposizione degli studenti ad attività in contesti lavorativi degradanti o degradati, poco sicuri, è del tutto evidente che il meglio dell’alternanza può rientrare senza alcun problema nelle storiche, consuete attività di orientamento e nei progetti didattici votati annualmente dai Collegi Docenti. Non per nulla il nuovo acronimo ingloba al proprio interno proprio la parola orientamento.

Perché allora voler costringere tutto nei PCTO? Evidentemente vi sono ragioni ideologiche.

Si vuole scardinare la visione della scuola, di qualsiasi indirizzo, come luogo essenzialmente di cultura, formazione del pensiero, conoscenze e sì, persino nozioni. Queste debbono essere sostituite dalle competenze, cioè in sostanza da un saper fare generico, in grado di adattarsi ai vari contesti. Quali contesti? In sostanza, dimenticando quella che viene considerata un’altra parentesi da riformare profondamente in tal senso, cioè l’università, un mercato del lavoro che viene descritto come dinamico, nel quale l’ex studente dovrà dimostrare di possedere skills sempre nuove, disponibilità a muoversi e reinventarsi. Tutte cose che piacciono chiaramente a Confindustria e ai rappresentanti del modello economico neo-liberista che hanno dato forma alle politiche scolastiche già a livello europeo negli ultimi decenni.

Per non eccedere in lunghezza, solo un paio di piccoli esempi che svelano ulteriormente l’aspetto ideologico dei PCTO. Nel complesso dei 5 anni di scuola superiore, soprattutto nei licei, il contatto vero con il mondo del lavoro è del tutto marginale. Gli studenti traggono la maggiore fonte di soddisfazione se entrano in relazione con le realtà del volontariato, o della cultura; imparano dai corsi di primo soccorso, a volte anche da incontri con esponenti del mondo delle professioni. Tutte cose, appunto, per cui un’alternanza così strutturata non serviva e che priva i ragazzi di un possibile accesso spontaneo e volontaristico a quei mondi. Eppure, quando mettiamo i voti di condotta, una delle voci da tenere in considerazione è la relazione del referente della struttura presso cui gli alunni hanno operato, il quale molto spesso, ovviamente, non ne riesce neanche a sapere i nomi. Più ancora, se l’esame di Stato sembra disposto a rinunciare alle prove scritte, alla possibilità per gli insegnanti di fare domande sulle discipline perché si devono verificare solo le competenze, il colloquio prevede tassativamente una relazione da parte del candidato sui PCTO. Come se avesse nel suo percorso quinquennale una valenza maggiore rispetto alle materie curricolari per cui ha scelto l’indirizzo il cui ciclo termina proprio con quella prova. Tale sproporzione è una dimostrazione chiara di come dietro vi sia la volontà di imporre un modello, una visione per la quale la scuola deve essere la via d’accesso a un mercato del lavoro fittizio, descritto e mai realmente fatto conoscere.

Ecco allora la grande menzogna. E sembra oggi ancor più una beffa tragica il fatto che gli studenti inizino il percorso nei PCTO proprio con lezioni sulle norme relative alla sicurezza.



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