L’ambiente è la vera sfida del nuovo governo e di quelli a venire

Storicamente la tutela dell’ambiente è sempre stata vista come un ostacolo alla produttività da parte delle elite industriali. Sarà quindi contro la “produttività a tutti i costi” (ambientali prima e umani poi) che lo sviluppo sostenibile dovrà vincere la sua sfida epocale. Non c’è tempo per esitazioni e soprattutto non c’è tempo per il greenwashing, ovvero dare una patina verde a soluzioni per nulla sostenibili.

Francesco Suman

Nel primo discorso programmatico di fronte all’aula del Senato, il presidente del consiglio Mario Draghi si è impegnato esplicitamente, confermando un’iniziativa già avanzata dal precedente premier Giuseppe Conte, a inserire i principi di uno sviluppo sostenibile in Costituzione, includendo quello di giustizia tra generazioni.

Sebbene i lavori per confezionare una legge costituzionale siano ancora in corso d’opera, le direttive economiche per lo sviluppo sostenibile per gli anni a venire sono già state tracciate nella bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) approvato dal precedente consiglio dei ministri a gennaio di quest’anno.

Il Recovery Plan o PNRR si muove su 3 assi: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale. A loro volta gli assi si suddividono in 6 missioni, un lessico che si deve all’economista dello University College di Londra Mariana Mazzucato che ha di recente pubblicato il suo ultimo libro, Mission economy – a moonshoot guuide to changing capitalism. La seconda missione del PNRR è appunto dedicata a “Rivoluzione verde e transizione ecologica”.

La transizione ecologica sarà alla base di un “nuovo modello economico e sociale di sviluppo, in linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite” si legge nel PNRR.

Drastica riduzione delle emissioni di gas clima-alteranti, miglioramento dell’efficienza energetica (della filiera produttiva e degli edifici) e lotta all’inquinamento dell’aria e dell’acqua sono gli elementi in cima alla lista delle cose da fare, per rispettare gli impegni presi con gli accordi di Parigi nel 2015 prima e quelli fissati dal Green Deal europeo poi.

La sfida non è solo ecologica, ma anche e soprattutto economica. Servono investimenti per indirizzare le filiere industriali, dall’energia ai trasporti, dalla siderurgia alla meccanica, verso prodotti e processi produttivi efficienti e con un ridotto impatto sull’ambiente. Sono necessari investimenti nell’agricoltura sostenibile e in un’economia circolare volta alla riduzione degli sprechi e a un ripensamento del ciclo dei rifiuti, in modo da dipendere meno da estrazione e importazione di materie prime.

Un ruolo strategico lo giocherà il sistema agricolo e forestale, che tramite una gestione sostenibile potrà essere in grado di assorbire una significativa quota delle emissioni di gas climalteranti. Le aree verdi assumono dunque un valore strategico nella visione green dell’Italia e dell’Europa. Oltre ad azioni per contrastare il dissesto idrogeologico, saranno necessari interventi di rimboschimento e azioni per invertire il declino della biodiversità e il degrado del territorio.

Dalla gestione del patrimonio naturale, assieme a quello storico e culturale del Bel Paese, dipenderanno anche settori trainanti come il turismo. Next Generation EU, il fondo europeo da 750 miliardi di euro, non è solo un progetto economico e ambientale: “È un progetto culturale europeo che qualifica gli obiettivi di sostenibilità dello sviluppo” si legge nel PNRR.

Degli oltre 200 miliardi del PNRR quasi 70 saranno destinati alla transizione ecologica. In gioco, è bene ribadirlo ancora una volta, ci sono le sorti delle generazioni future.

Secondo le stime correnti, il debito pubblico italiano ha raggiunto il 158% del PIL nel 2020. Nel PNRR viene esplicitato che la programmazione finanziaria “punterà a conciliare l’esigenza di mantenere la dinamica del debito su un sentiero virtuoso con quella di dare un forte e duraturo impulso alla crescita del PIL. Quest’ultima è fondamentale per garantire sia la sostenibilità del debito sia la stabilità socio-economica del Paese e richiede un solido programma di investimenti in beni pubblici quale quello disegnato nel PNRR”. Secondo le proiezioni del Ministero di Economia e Finanza, infatti, riusciremo a far tornare il debito pubblico ai livelli pre-pandemici (circa il 135% del PIL) non prima di 10 anni.

Ai tempi del governo tecnico presieduto da Mario Monti (2011-2012), il debito era minacciato dai tassi di interesse, ritenuti troppo alti: ricordiamo tutti lo Spread quale termometro dell’andamento dei tassi di interesse. Oggi invece si ritiene che il debito pubblico, che nel frattempo è lievitato, sia minacciato dai tassi di crescita del PIL troppo bassi.

È il tasso di sviluppo che determina la crescita di un Paese e il modello di sviluppo sostenibile che l’Italia vuole e deve adottare dovrà farsi carico anche della responsabilità di generare crescita economica. Se non ci riuscirà, il debito che graverà sulle future generazioni sarà sempre più pesante.

Storicamente però, la tutela dell’ambiente è stata generalmente percepita come un freno alla crescita economica, specialmente da alcune “elite” produttive e industriali. Il caso della siderurgia dell’Ex Ilva di Taranto è ancora tragicamente lì a ricordarci come la produzione industriale di acciaio nel nostro Paese abbia considerato l’ambiente e di conseguenza della salute dei cittadini un ostacolo alla produttività.

È in prima istanza contro questa cultura della produttività a tutti i costi (ambientali prima e umani poi) che il modello di sviluppo sostenibile dovrà prevalere, dovendo al contempo vincere la sfida cruciale di aumento del tasso di crescita economica.

Non saranno scelte semplici perché dalle sole industrie del petrolio e dell’automotive dipendono milioni di posti di lavoro nel mondo. Lo strappo ci sarà. Ma più si aspetta ad avviare questa transizione più grandi saranno i costi che dovremo pagare. Occorre che tutti si convincano che non c’è altra soluzione e che la strada della sostenibilità va imboccata con serietà e convinzione.

Se però è vero come ha sostenuto l’onorevole Pierluigi Bersani che il precedente governo, il Conte 2, è stato fatto cadere perché non piaceva a quella fetta di “Paese che conta”, a rigor di logica quella elite produttiva e industriale dovrebbe ora appoggiare il nuovo governo che fortemente ha voluto.

C’è da chiedersi allora quanto serio e convinto sia il supporto di quella fetta di “Paese che conta” allo sviluppo sostenibile che pone al centro del suo modello l’ambiente.

Per rispettare gli obiettivi dell’Agenda 2030, ovvero ridurre del 55% le emissioni di gas climalteranti rispetto ai livelli del 1990, dobbiamo correre, perché significa che in meno di 10 anni dobbiamo fare meglio di quanto non abbiamo fatto nei 30 anni precedenti. Non c’è tempo per esitazioni e soprattutto non c’è tempo per il greenwashing, ovvero dare una patina verde a soluzioni per nulla sostenibili.

Facciamo un esempio preso dalla filiera energetica. Ad alto rischio di greenwashing è la filiera dell’idrogeno, una soluzione energetica che potrebbe andare ad affiancare e sostituire il diesel nei trasporti di lungo raggio (come treni, navi, camion) e il carbone nell’industria pesante (come quella siderurgica). L’inghippo dell’idrogeno sta nel fatto che va utilizzato nella sua forma molecolare (H2): per ottenerla bisogna produrla ed esistono diversi metodi per farlo, a ciascuno dei quali è assegnato un colore che ne riflette il grado di sostenibilità. Verde è l’idrogeno ottenuto dall’acqua (H2O) tramite elettrolizzatori alimentati da energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (come fotovoltaico o eolico). Solo l’idrogeno verde è davvero sostenibile. L’idrogeno si può anche estrarre dal petrolio o dal metano (CH4), solo che il carbonio di scarto si lega all’ossigeno dell’aria e produce CO2. Viene chiamato infatti grigio l’idrogeno che viene prodotto dal metano emettendo CO2. Ma se invece l’anidride carbonica così prodotta viene “catturata” e “sequestrata”, ovvero spinta nel sottosuolo, si parla di idrogeno blu.

Le grandi aziende energetiche dispongono ancora di grandi quantità di metano a cui non sono disposte a rinunciare tanto facilmente. Spingono allora per l’idrogeno blu. Il problema è che ad oggi le tecnologie per catturare e sequestrare la CO2 non sono sviluppate a sufficienza per rendere l’idrogeno blu una realtà veramente percorribile. Lo sostiene tra gli altri Nicola Armaroli, direttore di ricerca dell’Istituto Isof (Istituto per la sintesi organica e fotoreattività) del CNR di Bologna. In altri termini l’idrogeno blu ha una patina di sostenibilità che in realtà non è affatto verde, ma grigia e, è il caso di dirlo, fumosa.

Insomma se la pandemia da CoVid-19 è il problema più urgente che il nuovo governo dovrà risolvere, ce n’è uno ben più grande che impegnerà le legislazioni dei prossimi decenni e la cui priorità non è più derubricabile. Quest’anno l’Italia avrà la presidenza del G20 e a novembre organizzerà in partnership con il Regno Unito la COP26, la conferenza delle parti sul cambiamento climatico in cui i paesi dell’ONU dovranno presentare, coordinare tra loro e mettere in pratica i piani d’azione contro la crisi climatica. Ad oggi di circa 200 Nazioni, solo 75 hanno condiviso i dati sulle proprie strategie nazionali.

Per vincere questa battaglia c’è bisogno di tutti, anche e soprattutto di coloro che hanno sempre visto nell’ambientalismo solo una moda da fricchettoni alternativi. In psicologia sociale si dice che per formare l’identità di un gruppo occorre un nemico contro cui schierarsi compatti. Sars-Cov-2 ci ha fatto capire che le risposte disunite e ostinatamente locali non sono efficaci, perché un virus se ne infischia dei confini nazionali. Ecco, la crisi ambientale e climatica dei localismi se ne infischierà ancora di più.

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