Tra la magia e la medicina, il medioevo attento alla malattia

Tommaso Duranti, attraverso un excursus di citazioni, miniature, affreschi e altro materiale iconografico, ci consegna un medioevo non polarizzato in senso manicheo e nemmeno anchilosato in una fede cieca, ma complesso, vivido, caleidoscopico.

Marilù Oliva

Ammalarsi e curarsi nel medioevo”, edito da Carocci, è un saggio scritto da Tommaso Duranti, professore di Storia medievale all’Alma Mater Studiorum di Bologna, specializzato in storia della medicina, della malattia e delle figure terapeutiche nel medioevo. Questo libro, come recita il sottotitolo, è anche “Una storia sociale” in quanto ci delinea la società e i suoi cambiamenti in un periodo storico millenario (che abbraccia un arco temporale esteso dal 500 al 1500 circa), alla luce del rapporto delle comunità non solo con la malattia (e quindi con l’infermo), ma anche con la rappresentazione e la considerazione della stessa. L’autore cerca di superare una lettura banalizzante e si apre alla complessità di situazioni che implicano una decodifica più impegnativa, ampliando il discorso dagli attori (malati e guaritori) agli spazi e concludendo con tre quadri patologici: la malinconia, la lebbra e la peste. Vengono sfatati alcuni luoghi comuni, come ad esempio quello che vuole un medioevo insensibile ai malati o cinico rispetto alle morti infantili. È vero: allora era molto più frequente morire prima dei diciott’anni rispetto ad oggi, almeno oggi nelle società industrializzate, ma si rileva ai tempi un’attenzione verso le problematiche dei più piccoli, confermata anche dal sorgere di strutture che accoglievano bambini abbandonati ed orfani.

Diverse cose cambiarono, nel corso dei secoli. Ad esempio, se all’inizio il principale ambito di cura era quello domestico, nel corso degli anni la malattia si “spazializzò”, sorsero ovvero ospedali, santuari, infermerie monastiche che seguirono iniziali forme di politica sanitaria.

Alcune malattie spaventavano e provocavano repulsione, come l’idropisia e le reazioni della gente ci vengono raccontate con tanto di fonti citate, come ad esempio il caso di Guinemaro, colpito appunto da idropisia, citato nelle “Storie dei Franchi”, il quale «divenne insopportabile a tutti, oggetto di ribrezzo totale: gli stessi suoi amici e familiari si allontanavano da lui, respinti dal fetore che il suo corpo emanava. Il puzzo era tale che nemmeno il medico riusciva ad avvicinarsi a lui per curarlo. Ormai interamente decomposto, escluso dalla comunione dei cristiani, già in parte corroso dai vermi, questo uomo infame e sacrilego fu così allontanato da questa vita».

La gamma di alternative a ciò che oggi chiamiamo dottori e specialisti era amplia: medici, taumaturghi, guaritori, ostetriche e donne terapeute (seppur, queste ultime, in misura minore rispetto ai colleghi maschi), perfino santi e chiunque esercitasse la magia, non rinnegata dalla medicina ufficiale: «era infatti anche preso in considerazione anche l’utilizzo di incantesimi e amuleti: il fine restava quello di creare nel paziente una condizione favorevole.[…] Si tratta, in certi casi, di una teoria che precorre, almeno in parte, quella contemporanea dei placebo».

Un excursus attraverso citazioni, miniature, affreschi e altro materiale iconografico ci consegna un medioevo non polarizzato in senso manicheo e nemmeno anchilosato in una fede cieca, ma complesso, vivido, caleidoscopico. Un’epoca in cui la follia era già considerata una malattia a tutti gli effetti, la lebbra poteva essere diagnosticata sulla base dell’osservazione dei sintomi (indurimento, ispessimento, disfacimento della pelle e della carne e perdita del naso) e si erano captate le capacità contagiose della peste, anche se, ovviamente, non nei termini attuali. C’è molto da imparare da questo libro interessantissimo, sia sul passato sia su un presente che ci riguarda direttamente. Perché, se oggi vogliamo stare bene e talvolta pretendiamo con supponenza che la medicina guarisca tutto (e subito), allora le cose andavo diversamente: «che fosse per la sua condizione antropologica di peccatore o per l’inesorabile decadenza naturale dei corpi biologici, l’essere umano fu, per il medioevo, innanzitutto un infirmus».



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