Andrea Crisanti: “La sanità ha enormi problemi strutturali. Il Pnrr? Un pannicello caldo”

Il capolista al Senato per il Pd nella circoscrizione Europa spiega come andrebbe cambiato il nostro sistema sanitario nazionale e quali saranno i suoi primi atti se sarà eletto. E prende posizione su reddito di cittadinanza e salario minimo.

Cinzia Sciuto

Andrea Crisanti, microbiologo dell’università di Padova nonché una delle voci scientifiche più autorevoli durante la pandemia, è capolista al Senato per il Pd nella circoscrizione Europa. Come mai la scelta di lasciare i laboratori e gli ospedali per entrare in politica?
In realtà il mio interesse per la politica, in particolare per tutte quelle iniziative che hanno l’obiettivo di diminuire le differenze sociali e distribuire uguali opportunità, non è nuovo. Negli anni dell’università ero iscritto alla Fgci di Berlinguer e da alcuni anni sono iscritto al circolo Pd di Londra. Certo l’impegno politico diretto è una novità. Ho alle spalle una carriera scientifica che mi ha dato importanti soddisfazioni, la più grande delle quali è vedere che i progetti che ho iniziato sono talmente solidi che possono andare avanti anche senza di me. Sono quindi pronto per una nuova sfida.

A tre anni dall’inizio della diffusione del Sars-COV2, anche se la pandemia non è ancora finita, che bilancio fa della sua gestione finora?
Io penso che se non avessimo avuto il vaccino non ne saremmo venuti fuori e non so quantificare i danni in termini vite perse e di danni sociale che avremmo avuto. Sono stati fatti errori gravissimi soprattutto all’inizio, non si è capita la portata del problema e non è stato fatto quello che si sarebbe dovuto fare. L’Italia era totalmente impreparata. Ma il rimpianto più grande è che siamo arrivati completamente impreparati anche alla seconda ondata, nonostante sapessimo esattamente quello che dovevamo fare.

La gestione della pandemia ha portato al collasso uno dei sistemi sanitari che sembrava un modello di efficienza, quello lombardo. Perché è accaduto?
Il nodo è il rapporto con la sanità privata, che in Italia è regolato dal regime delle convenzioni, che offre una straordinaria opportunità di guadagno agli enti privati che di fatto sfruttano l’inefficienza del sistema sanitario nazionale, quando non sono essi stessi a provocarla. Il sistema sanitario si basa su 3 pilastri: il trattamento degli acuti, il trattamento dei cronici e la prevenzione. In genere i tagli vengono fatti sulla prevenzione, sulla quale i privati non fanno pressoché nulla perché i guadagni della prevenzione si vedono a lungo termine e quindi non sono interessati per i privati che guardano al breve-medio termine. Quindi i privati non fanno prevenzione. Ma non fanno neanche trattamento dei cronici perché occupa spazi e non rende abbastanza. Fanno dunque solo un trattamento degli acuti. Inoltre hanno anche pochissimi posti in rianimazione e quasi mai i pronto soccorso, sempre per la ragione di cui sopra: non rendono. Il loro modello è molto semplice: io ti opero al cuore e prendo un sacco di quattrini per l’operazione. Poi, se ti serve la rianimazione ti mando all’ospedale pubblico. Ora voi capite che se, come in Lombardia, il 45% della sanità funziona così, di fronte a un evento come la pandemia che aveva bisogno di posti in rianimazione, pronto soccorso, medici di base ecc., il problema diventa gigantesco e si manifesta in tutta la sua portata, portando al collasso il sistema.

Oltre al rapporto con il privato, quali sono i principali problemi del nostro sistema sanitario nazionale?
Il nostro sistema ha dei problemi di gestione e dei problemi strutturali. Il principale problema di gestione è che il sistema sanitario è controllato in modo capillare da un ente, la Regione, che ha il potere di emanare direttive, di legiferare, che ha il controllo totale sulle nomine dei dirigenti, fino a intervenire in alcuni casi anche nell’assunzione di semplici operatori sanitari. Lo stesso ente distribuisce le risorse, secondo criteri che sono imperscrutabili, e in più nomina anche i controllori. Un mostro del genere non esiste altrove nel mondo. È indispensabile recidere in maniera netta questo cordone ombelicale che lega la politica regionale alla gestione quotidiana, capillare, granulare della sanità.

Come?
Io penso che la gestione della sanità debba essere restituita ai contribuenti, ai pazienti e agli operatori sanitari. Ogni azienda sanitaria dovrebbe diventare un ente pubblico completamente autonomo, nel cui consiglio di amministrazione dovrebbero essere rappresentati gli operatori sanitari, i contribuenti e le associazioni dei pazienti. Sono loro che devono nominare i dirigenti, gestire le risorse ecc. Questi enti devono anche essere in competizione fra loro.

Competizione? In sanità?
Io penso che il finanziamento debba avere una componente premiale, nel senso che se uno di questi enti, per esempio, chiede un finanziamento perché vuole aprire un reparto, aumentare l’organico ecc., deve giustificare la richiesta sulla base di criteri che premino chi ha lavorato bene. Deve dimostrare che i soldi che chiede saranno spesi bene e che quello che sta facendo è utile per la società. Mi creda, non è nell’interesse di nessuno tenere aperto un ospedale che non funziona.

Questo per quanto riguarda la gestione amministrativa, e i problemi strutturali di cui parlava?
Dal 2008 la sanità italiana ha subito tagli reali per circa 10-15 miliardi di euro all’anno. Questo significa che negli ultimi 14 anni ha accumulato un deficit di finanziamenti di circa 200 miliardi. Capisce bene che di fronte a queste cifre il Pnrr è un pannicello caldo. Noi abbiamo ospedali e strutture sanitarie obsolete, non sono stati fatti investimenti importanti per far fronte alle esigenze di una società che invecchia e allo stesso tempo per adeguarsi alle nuove frontiere terapeutiche. Ma c’è un altro problema enorme: tra poco avremo un deficit importantissimo di personale medico, perché tutti i medici che si sono laureati negli anni Settanta-Ottanta stanno per andare in pensione e verranno rimpiazzati dalle nuove generazioni, il cui numero però è molto più esiguo. La sanità italiana in tutti questi anni si è tenuta in piedi perché c’era un elevato numero di medici, adesso i nodi verranno al pettine. Infine c’è un altro problema strutturale della sanità italiana che incide sulla capacità di innovazione, sul rapporto con l’industria, sul rapporto con la ricerca, e cioè il fatto che gli ospedali universitari sono gestiti dalle Regioni. Ora, mentre un ospedale del Servizio sanitario nazionale ha il compito e anche l’obbligo di fornire cure tempestive, standardizzate e che abbiano un rapporto costo-efficacia ben definito, l’università, oltre a questi, ha anche altri compiti, per esempio investigare nuove terapie, verificare l’effetto di nuove procedure terapeutiche ecc. E questi compiti, mi creda, sono inconciliabili, per questo gli ospedali universitari dovrebbero essere autonomi.

Quale sarà la prima cosa che farà se sarà eletto?
Ci sono due cose sulle quali vorrei lavorare fin da subito e che sono influenzate anche dalla mia esperienza all’estero. La prima è cercare un accordo bipartisan per risolvere alcuni dei problemi degli italiani all’estero. Si tratta di problemi di vita quotidiana – dalla richiesta di certificazioni, alle questioni fiscali ecc. – che possono sembrare secondarie ma che di fatto rendono i nostri concittadini che vivono all’estero cittadini di serie B. Su questi temi, che io considero di natura quasi “sindacale”, penso si possa facilmente trovare una convergenza bipartisan. La seconda cosa che mi piacerebbe fare – da educatore e ricercatore quale sono – è promuovere la mobilità dei talenti in Europa. Non parlo del cosiddetto “rientro dei cervelli” perché a me interessa anche la capacità dell’Italia di attirare stranieri, cosa che oggi non accade. Per farlo – oltre a eliminare alcune barriere come la mancata equipollenza dei titoli – vorrei creare un fondo per favorire la mobilità dei ricercatori in Europa.

Durante la pandemia è emerso evidente il rapporto a dir poco complicato fra tecnici e politici. Lei si è candidato al Senato, il suo collega Bassetti si è detto disponibile a fare il ministro. Abbiamo bisogno di più tecnici in politica?
Guardi io penso che i tecnici debbano fare i tecnici e i politici i politici. Troppo spesso abbiamo pensato di poter delegare ai tecnici la risoluzione dei problemi, come se fossero un deus ex machina in grado di trovare magicamente soluzioni. Però è anche vero che i politici devono avere delle competenze minime per poter quanto meno valutare le informazioni che ricevono dai tecnici e francamente nel corso della pandemia abbiamo visto tutti l’abisso di competenze dei politici. Nel mio piccolo voglio dare il mio contributo a colmare questo abisso. E questo è un problema che non riguarda naturalmente soltanto la sanità. L’Italia dovrà affrontare sfide importanti nel campo dell’ecologia, dell’energia e francamente non vedo nel mondo politico le competenze necessarie per prendere decisioni politiche informate.

Se sarà eletto, da senatore si troverà a votare anche su temi che non sono i suoi. Per cui per l’elettore è interessante conoscere anche le sue posizioni su altri temi. Per esempio, che ne pensa del reddito di cittadinanza?
Penso che abbia contribuito ad eliminare sacche di povertà e allo stesso tempo ad alzare i salari. Se ci sono zone d’Italia nelle quali il 30% dei giovani prende il reddito di cittadinanza non è certo perché sono giovani sfaccendati, ma perché in quei territori non ci sono opportunità di lavoro a condizioni dignitose. Io penso che un Paese civile come l’Italia si deve chiedere come sia possibile che in alcuni luoghi il 30-40% dei giovani abbia chiesto il reddito di cittadinanza e adoperarsi per creare la condizioni affinché questo non avvenga, non certo eliminare il reddito.

E del salario minimo?
Sono senza dubbio favorevole, però penso anche che non sia l’unica soluzione. Quello che conta è anche la tipologia contrattuale perché se io metto il salario minimo a ore o a richiesta di fatto non ho intaccato la vulnerabilità del lavoratore. Dobbiamo dotarci di strumenti adatti a diminuire la vulnerabilità del lavoratore, che è legata soprattutto all’offerta di lavoro e alla forza contrattuale dei lavoratori. Se il lavoro scarseggia, è chiaro che il lavoratore è più debole, più vulnerabile.

Sulla guerra in Ucraina che posizione ha?
Io sono d’accordo con papa Francesco, penso che si sia persa una occasione per evitare la guerra. Nel momento in cui entra in gioco una potenza nucleare, bisogna sapere fin dall’inizio fino a che punto ci si può spingere, altrimenti arriva il momento in cui si fa necessariamente un passo indietro per evitare che quella potenza schiacci il bottone nucleare.

Ma l’occasione per evitarla questa guerra c’era?
Naturalmente la storia non si fa con i se, però rimane il fatto che gli accordi di Minsk non sono stati attuati e sicuramente questa mancata attuazione è stata un elemento di grande irritazione sia per la popolazione ucraina d’origine russa sia per la Russia stessa. Detto questo, rimane il fatto che a partire dal 24 febbraio scorso la Russia è un Paese aggressore e come tale va trattato.

Per esempio con le sanzioni?
Io non so se le sanzioni siano state un errore, quel che è certo è che non si può eventualmente compiere adesso un secondo errore Togliendole. E comunque io penso che andassero fatte, magari in maniera meno ipocrita e preparandosi meglio. Non vorrei che l’unico effetto che hanno avuto sia limitare l’acquisto di borsette di lusso da parte dei russi.

Mi rivolgo di nuovo all’uomo di scienza, al microbiologo: come vede l’andamento della pandemia? Che autunno dobbiamo aspettarci?
Direi che se non emergono varianti capaci di infettare le persone vaccinate e di causare una malattia grave, mi aspetto che la situazione rimanga più o meno stabile, con qualche oscillazione dovuta alla maggiore capacità del virus di trasmettersi durante la stagione invernale. Ma se i vaccini mantengono il loro effetto protettivo non mi aspetto dei grossi cambiamenti.

 



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