I nuovi dissidenti

Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaja è stata uccisa a Mosca. Era una giornalista che faceva con coerenza il proprio mestiere. Che raccontava semplicemente quello che vedeva. Ma questo nella Russia di Putin si paga con la vita. In suo omaggio e per non dimenticare il suo sacrificio per la libertà e la democrazia, pubblichiamo la trascrizione di un incontro tenutosi al Festival della letteratura di Mantova nel 2005.

Paolo Flores d'Arcais e Anna Politkovskaja

Paolo Flores d’Arcais: Anna Politkovskaja è la giornalista russa più famosa nel mondo. È non solo una grande giornalista ma, come ciascuno di noi può constatare leggendo i suoi libri, è molto più che una giornalista. È una sociologa, un’antropologa, è una delle rare persone che oggi stanno raccontando e analizzando quel paese/continente che è la Russia. Si potrebbe anche dire, ovviamente, che Anna Politkovskaja è una giornalista molto coraggiosa, ma sono sicuro che lei respingerebbe questo aggettivo e ci risponderebbe che fa la giornalista e nulla più, fa quello che è normale per un giornalista: raccontare ciò che accade davvero, rispettare i fatti, cercare di approfondirli.

E certamente è così, solo che oggi in Russia, nella Russia di Putin, fare normale giornalismo è un’eccezione, è un atto di coraggio, talvolta di straordinario coraggio. L’ultimo libro di Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, proprio in una delle pagine finali ricorda un esponente politico, Viktor Čerepkov, che è stato fatto saltare in aria, e un giornalista, Paul Klebnikov, che, per aver raccontato la Russia degli oligarchi, la Russia di Putin, la Russia della corruzione, la Russia della illegalità, è stato ucciso. Ecco, questo problema, e cioè che per fare normalmente alcuni mestieri, come il giornalista (ma anche come il magistrato) oggi in Russia sia necessaria una buona dose di eroismo, è uno dei fili conduttori delle analisi sociologico-giornalistiche di Anna Politkovskaja. Su questo tema saremo costretti a tornare più volte.

Ecco dunque perché è mia ferma convinzione che il giornalismo di Anna Politkovskaja sia un contributo a quelle che in Occidente chiamiamo scienze umane, e non solo al giornalismo. O, se vogliamo, che sia un giornalismo d’avanguardia, nel senso preciso di un giornalismo del futuro, perché dobbiamo riconoscere che non solo questo giornalismo è raro e necessita di coraggio e di eroismo in Russia, ma è ormai rarissimo anche in Occidente. È il giornalismo di chi non guarda in faccia nessuno. È il giornalismo di chi, partendo da un fatto, talvolta da un fatto marginale, segue come in una grande indagine, o come in un drammatico giallo, tutti gli aspetti, tutti i fili che si dipartono da questo fatto e scava negli intrecci del potere.

Oggi in Russia, ogni tot anni, si svolgono elezioni con un tasso più o meno alto di brogli, e forse per questo (per questa parvenza di democrazia) noi non prestiamo più alla Russia di Putin l’attenzione che dedicavamo per esempio alla Russia di BreŽnev. Eppure la Russia di Putin, per la democrazia, non è meno pericolosa della Russia di BreŽnev, l’Urss. Oggi di nuovo il potere in Russia è il potere della nomenklatura, come lo si definiva un tempo. Questa nomenklatura, che ai tempi di BreŽnev era semplicemente la nomenklatura di partito, del partito unico, del Pcus, oggi è la nomenklatura dell’entourage di Putin, quindi è la nomenklatura dell’apparato di potere politico, semplicemente allargata. Allargata alla nomenklatura mafiosa, allargata a qualche settore della nomenklatura religiosa, della Chiesa ortodossa, integrata con i grandi affaristi che dominano un mercato che non è un mercato, un mercato che via via ha estromesso (e nel libro di Anna Politkovskaja ci sono tante vicende particolari che lo testimoniano e raccontano) quell’iniziale, potenziale ceto medio imprenditoriale che è stato sacrificato a vantaggio di nuovi grandi gruppi, in mano appunto all’alleanza politico-mafiosa.

Siamo perciò di fronte a un paese che ha privatizzato l’economia e che ha abolito il monopolio del Partito Unico e che però non ha un mercato, cioè la possibilità di intraprendere davvero, secondo delle regole uguali per tutti, e meno che mai ha democrazia.

Vorrei perciò cominciare ad approfondire questi temi con Anna Politkovskaja, partendo da uno dei suoi tanti reportage. È un reportage straordinario, anche se racconta solo un episodio. Un episodio come sicuramente ne sono avvenuti tantissimi. Un episodio legato alla guerra in Cecenia, un episodio in cui un militare delle truppe russe di occupazione ha violentato e ucciso una donna cecena che era accusata di essere una terrorista, anzi semplicemente sospettata di essere una fiancheggiatrice dei terroristi. In una guerra sporca come la guerra in Cecenia sicuramente casi del genere sono all’ordine del giorno. Ce ne sono stati tantissimi.

Perché questo caso diventa emblematico? Perché, paradossalmente, è un caso in cui alla fine viene fatta (eccezionalmente) giustizia. Accade, cioè, che un colonnello, quindi un alto ufficiale dell’esercito russo, per di più pluridecorato, viene condannato a dieci anni di carcere.

Si potrebbe dire: è stata fatta giustizia. E per questo rallegrarsi. Del resto dovremmo riconoscere che anche da noi in Occidente tante volte è accaduto che militari in scenari di guerra abbiano compiuto cose egualmente efferate e che non siano mai stati processati (se non eccezionalmente, appunto). Quindi una storia di questo genere potrebbe essere utilizzata per dire, con un certo ottimismo: sì, la Russia di Putin è piena di difetti, è piena di contraddizioni, però vedete che alla fine giustizia è fatta perché un colonnello, un alto ufficiale pluridecorato, appoggiato ovviamente dall’esercito, dagli alti gradi, appoggiato in larga misura dall’opinione pubblica russa fortemente nazionalista, e quindi da gran parte dei mass media, alla fine viene condannato. E condannato a dieci anni, che non è una piccola pena.

Eppure Anna Politkovskaja racconta tutta questa storia, giustamente secondo me, proprio per dimostrare che quello che sembra un risultato di giustizia è invece, per le modalità in cui si arriva alla condanna, il prodotto di alcune circostanze eccezionali, che semmai fanno ancora più risaltare come il sistema nelle sue strutture, nella Russia di Putin, sia marcio.

Anna Politkovskaja ricostruisce infatti come questa condanna nasca dal semplice mutare nel tempo degli interessi che muovono Putin, in relazione soprattutto alla politica internazionale, e dal singolare convergere di due fattori: un momento particolarissimo, nel quale Putin ha un interesse speciale a dimostrare all’Occidente che certi delitti (perpetrati anche in situazioni di guerra) in Russia non restano impuniti (benché in realtà gli autori di tali crimini la passino sempre liscia), e la tenace ma certo non ordinaria volontà di un magistrato, che appunto è disposto eroicamente a rischiare pur di fare quello che dovrebbe essere normale in uno Stato di diritto.

Questo reportage, questo racconto, ci dice perfettamente il tipo di giornalismo che è praticato da Anna Politkovskaja. Un giornalismo che prende sul serio alcuni doveri etici e che non si accontenta di apparenti lieti fini, un giornalismo che va a scavare dietro i fatti anche quando sembrano essere lusinghieri per l’establishment.

Questa storia, che ho appena accennato e che chiedo ad Anna di raccontare in dettaglio, può essere l’introduzione più chiara, benché drammatica, a che cos’è oggi la cosiddetta democrazia russa nel regime di Putin.

Anna Politkovskaja: Innanzitutto buongiorno e molte grazie per essere venuti a questo incontro in questa splendida domenica, disposti ad ascoltare qualcosa non tanto solare come la giornata che vi attende fuori dalla sala. Grazie anche per le straordinarie parole che sono state dette e con le quali, naturalmente, non sono d’accordo. In effetti, mi reputo una giornalista, forse anche una fanatica del giornalismo; e ritengo, per questo, semplicemente di svolgere il mio dovere e di lavorare di conseguenza.

Il caso Budanov è effettivamente una storia d’importanza cruciale per il mio paese. Il colonnello carrista Budanov compì il delitto di cui parleremo nello stesso giorno in cui Putin venne eletto per la prima volta alla presidenza del paese. Come spesso accade in guerra, il delitto fu compiuto perché quel giorno numerosi ufficiali del reggimento avevano bevuto. Avevano festeggiato l’elezione di Putin e il compleanno della figlia di Budanov. Quando il colonnello era ormai molto ubriaco, gli venne voglia di una donna. Scelse allora la ragazza più carina nella prima casa che capitò. La ragazza fu avvolta in una coperta e portata nella tenda del colonnello. Dopo averla violentata, il colonnello la soffocò.

Si tratta proprio di una banalissima storia di guerra. Ma ciò che ebbe inizio dopo riguarda ormai la politica.

Quando si capì in che modo era stata festeggiata la salita al trono di Putin, i militari di stanza in Cecenia cominciarono a sostenere che la ragazza era una combattente, che apparteneva alle forze dei separatisti e che pertanto il colonnello aveva agito in conformità al diritto. Dobbiamo a due generali, che all’epoca si trovavano in Cecenia, e che non ritennero quel comportamento degno di un ufficiale, se si è potuto istruire il processo. Questi due generali permisero che fossero raccolte tutte le necessarie prove primarie di colpevolezza del colonnello. Su migliaia di altri casi simili – e in guerra queste cose accadono di continuo – non è mai stata neppure avviata una qualche indagine. Solo grazie a questi due generali il caso approdò quanto meno in tribunale. Subito, però, il ministero della Difesa, molto vicino al Cremlino, si mise all’opera nel tentativo di discolpare il colonnello e di reintegrarlo nei suoi ranghi di ufficiale russo. Nel processo si cercò di addossare la colpa alla povera ragazza, accusandola di far parte della resistenza cecena. Il procuratore insisté su questo punto per oltre un anno e mezzo. Budanov, da parte sua, sostenne che il suo scopo era far confessare alla ragazza dove si trovasse la base del gruppo di guerriglieri a cui apparteneva. Le organizzazioni di difesa dei diritti umani furono, per questo caso, molto attive. Si appellarono a Human Rights Watch, ad Amnesty International. A loro volta, queste organizzazioni si appellarono ai governi occidentali affinché impedissero che il colonnello fosse prosciolto, come si poteva prevedere ormai dall’andamento del processo.

E qui avvenne un vero e proprio miracolo. La Bundestag tedesca e il ministro degli Esteri Fischer si rivolsero direttamente a Schröder. In quel momento il processo si stava dibattendo a Rostov sul Don, nel sud della Russia. In uno dei loro incontri Schröder ammonì Putin facendogli presente che la comunità internazionale non avrebbe mai accettato il proscioglimento di un violentatore e assassino. Putin fece allora marcia indietro. Venne sostituito il procuratore. Il nuovo procuratore dichiarò subito il colonnello colpevole. Venne sostituito anche il giudice, che cominciò a condurre il dibattimento in favore della vittima. Così, molto velocemente, si pervenne a un verdetto di colpevolezza. Si è trattato però solo di una recita, dovuta al fatto che Putin non voleva sentirsi a disagio nei confronti di Schröder, con cui desiderava mantenere rapporti amichevoli. Lo stesso Budanov finì per essere solo un fantoccio in tutta questa vicenda assolutamente politica.

Quello del colonnello Budanov è rimasto l’unico caso di ufficiale punito severamente per aver compiuto un delitto. Nel corso degli ultimi due anni c’è stato un altro caso analogo: l’indagine su un gruppo di ufficiali della direzione dei servizi segreti militari, comandati da un certo Ulman, che, sempre in Cecenia, avevano ucciso sei civili e poi ne aveva bruciato i corpi. I militari «credevano» – credevano soltanto! – che quelle persone fossero dei guerriglieri, sebbene si trattasse di vecchi e di donne. La sentenza del tribunale ha riconosciuto che sì, i civili erano stati uccisi e bruciati, ma non ha ammesso la colpevolezza degli imputati in quanto costoro non avrebbero fatto altro che compiere il loro dovere. Ci si domanda, allora, in cosa consista questo «dovere»: tra gli uccisi c’era il direttore di una scuola, il suo vice, un guardiaboschi, una donna incinta con altri otto figli a casa da accudire. Che «dovere» è? È un concetto molto importante. Anch’io ho detto all’inizio, esattamente come quel gruppo di ufficiali, di non compiere altro che il mio dovere di giornalista. Il problema è che nella Russia di oggi assistiamo alla coesistenza di due verità, che tra loro non si sfiorano neppure. La prima è quella della gente che vorrebbe vivere come ai tempi dell’Unione Sovietica, mettendosi al servizio dell’ideologia e non della legge; sono persone che negano le leggi pur di essere al servizio di qualche ideologia politica di nuova invenzione. In questo ritengono consista il loro dovere. C’è poi un’altra parte della popolazione, che concepisce il dovere nel senso di osservare onestamente quanto avviene nel paese, agendo in modo tale che la legge stia al di sopra di tutto, permettendo così il prevalere dei principî democratici.

Flores d’Arcais: Lei ha già introdotto due temi essenziali che ci riguardano tutti, anche in Occidente: il tema della legalità e il tema della guerra. E un terzo tema cruciale per le democrazie, quello delle reazioni, o dell’assenza di reazioni, da parte dell’opinione pubblica di fronte all’illegalità in generale e a quella particolarmente mostruosa nei tempi di guerra.

Vorrei perciò farle una serie di domande.

La prima: la guerra in Cecenia, che appunto dà luogo a un’infinità di casi drammatici – lei ci ha ricordato che in Cecenia violentare e uccidere è all’ordine del giorno, non ci si fa neppure caso, non si arriva neanche in tribunale – è una guerra piena di orrori. Di questa guerra però in Occidente si parla pochissimo, questa guerra in Occidente non provoca né emozione né scandalo perché sostanzialmente, per quel poco che se ne parla, è passata l’idea che il separatismo ceceno è talmente infiltrato dal rischio di terrorismo e di fondamentalismo islamico, che difendere i diritti del popolo ceceno significherebbe, direttamente o indirettamente, dare un vantaggio al terrorismo internazionale.

Vorrei perciò, anche se sinteticamente, che lei ci spiegasse gli elementi essenziali sulla vera natura della guerra russa in Cecenia, perché questa idea che contro il terrorismo internazionale si può usare qualsiasi mezzo purtroppo non è un’idea solo di Putin, è un’idea diffusa anche in altri paesi a noi più vicini. Ecco perché dico che è un tema di cui sappiamo pochissimo ma che ci riguarda da vicino molto più di quanto non immaginiamo.

Politkovskaja: La seconda guerra cecena è cominciata nel 1999. La si può considerare come una rivalsa da parte delle truppe federali per essere state costrette a firmare la pace che aveva posto fine alla prima guerra cecena, nel 1996. A quell’epoca, in Cecenia, la vita della gente era molto penosa, perché effettivamente esistevano numerosi gruppi di banditi e di fanatici religiosi. All’epoca, molte persone con le quali parlai, mi dissero che la guerra sarebbe probabilmente durata poco e che, una volta ripristinata la legalità, la vita sarebbe migliorata per tutti. Alcune persone mettevano in relazione la guerra con la risoluzione dei problemi interni. Ma i metodi applicati dall’esercito federale sono stati tali da non lasciare scelta: hanno colpito chiunque, indipendentemente dalle opinioni, indipendentemente dalla legge. Hanno ucciso sulla base dell’esclusivo «diritto» di avere un’arma in mano. Nel 2001 Putin ha dato corso alla cosiddetta cecenizzazione del conflitto, che altro non è che la sobillazione della guerra civile in Cecenia. Il senso di ciò è: più si ammazzano fra di loro, meno moriranno i nostri. Da quel momento, proprio dal 2001, viviamo in un clima di continui attentati terroristici. Il terreno fertile che alimenta costantemente la voglia di linciaggio della gente – e un atto terroristico è un linciaggio – è l’assenza totale della legalità in Cecenia come, ormai, in tutta l’area delle adiacenti repubbliche caucasiche settentrionali, l’Inguscezia, il Daghestan, la Cabardino-Balkaria e la Karačaevo-Čerkassia. La politica ha fatto sì che si sia creata realmente una attività clandestina musulmana, non necessariamente fondamentalista o radicale, ma semplicemente musulmana. Questa stessa politica ha permesso, poi, la nascita di quel fenomeno detto «protestantesimo musulmano», animato da muftì ufficiali legati al Cremlino, non amati da larghi strati della popolazione e che costituiscono effettivamente un fenomeno molto pericoloso. L’evoluzione verificatasi negli ultimi anni nel Caucaso settentrionale ha molto poco a che fare con ciò che si usa chiamare al-Qaida: è qualcosa che abbiamo creato noi stessi e che produce il terrorismo interno. Putin va in giro a dire che questa gente vuole instaurare uno Stato islamico unitario, un califfato; ma nessun terrorista ha mai avanzato una simile rivendicazione. Ciò che chiedono, invece, è di porre fine alla guerra.

Si consideri solo questa concatenazione di fatti. Settembre 2004: nella scuola di Beslan viene introdotta un’enorme quantità di armi dai terroristi. Si tratta di un vero e proprio arsenale. Ma da dove avevano preso i terroristi tutte queste armi? Le avevano forse comprate con i soldi avuti da al-Qaida? No. È stato appurato che erano state portate dall’Inguscezia, dove le avevano prese dagli arsenali del ministero degli Interni locale, dopo averli assaliti e svuotati nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2004. A rendere possibile l’assalto è stato l’aiuto offerto ai terroristi da parte dei poliziotti dell’Inguscezia. Anche in questa Repubblica, infatti, gli umori antifederali sono molto diffusi. E questo vuol dire che c’erano già le premesse sociali per l’azione terroristica.

Flores d’Arcais: Utilizzare la provocazione poliziesca, utilizzare il terrorismo a scopi interni, utilizzare il bisogno di sicurezza, il sentimento nazionalistico e anche sciovinistico per rafforzare un potere di governo, è una tecnica ben nota. E nella Russia di Putin credo che in questo momento venga utilizzata a piene mani. Ma io vorrei capire qualche cosa di più di questo potere di Putin, della struttura istituzionale e anche sociale del suo regime. Come lei sa, noi abbiamo un primo ministro, Silvio Berlusconi, che ama moltissimo Putin, che dichiara una grande amicizia con lui anche sul piano personale, che lo invita nelle sue ville, che viene invitato da Putin nelle sue dacie, tra i due sembra proprio quindi che ci sia un feeling che va molto oltre l’alleanza politica. Il che già dovrebbe apparire paradossale, visto che il nostro primo ministro non fa altro che parlare del pericolo comunista e che in fondo Putin è l’unico capo di governo europeo che come credenziali del suo passato, ha solo quelle di essere stato un alto ufficiale del Kgb, quindi un alto ufficiale dei servizi segreti comunisti.

Ecco un bel paradosso: un primo ministro ferocemente anticomunista e che a parole si fa paladino del capitalismo e quindi della concorrenza di mercato la più spinta, un liberale, come si proclama ad ogni occasione, proprio in nome del liberismo e dell’anticomunismo ma che al tempo stesso sbandiera questa singolare amicizia, questa vera e propria «corrispondenza di amorosi sensi» nei confronti di Putin. Tutto questo fa sorgere inevitabilmente una domanda: ma allora, questo governo di Putin, in che misura è davvero un governo liberista, che vuole la libertà di mercato, e in che misura è davvero un governo che ha rotto col passato del comunismo e sta portando la Russia nella democrazia? Io so che rivolte a lei queste sono domande retoriche, ma raccontarle dall’interno, raccontare che cosa ci sia ancora di brezneviano, e che cosa ci sia poi di mafioso (e di completamente estraneo a una logica di mercato concorrenziale) nella vita politica e in quella economica della Russia di Putin, credo che sia per noi molto importante.

Politkovskaja: Non so su cosa si basi la grande amicizia esistente tra Putin e Berlusconi. So solo che i mass media ufficiali russi ripetono continuamente che Berlusconi è il maggior avvocato europeo di Putin nella sfera di quelli che contano e che hanno potere. Ma la posizione di Putin sull’Unione Sovietica non è naturalmente quella che lei ha descritto a proposito di Berlusconi. Più volte, soprattutto nel corso dell’ultimo anno, Putin ha dichiarato di considerare come una tragedia personale il crollo dell’Unione Sovietica e del suo sistema. Ma se, per certi aspetti, la sua politica ricalca lo stile sovietico, come ad esempio quando rafforza i servizi segreti, per altri, come nella politica sociale, se ne discosta in modo netto. Contrariamente a quanto avveniva in epoca sovietica, infatti, la politica di Putin è del tutto antisociale. È una politica che dice alla gente di allontanarsi dallo Stato, di pagarsi le cure mediche coi propri soldi, che l’istruzione è solo per le famiglie ricche. I poveri devono essere estromessi dall’assistenza sanitaria e da un’istruzione decente. Dal 1° gennaio è entrata in vigore la legge 122, che è di grande importanza per noi. In virtù di questa legge si è ridotta ancora di più la partecipazione dello Stato alla politica sociale in favore dei propri cittadini, soprattutto della parte più povera della popolazione, che nel nostro paese rappresenta un terzo dei cittadini. Putin è a favore del capitalismo, e in questo è senza dubbio simile a Berlusconi; ma il suo è un capitalismo oligarchico, burocratico: i ricchi da noi non sono più quelli che riuscirono a creare la propria ricchezza ai tempi disonesti di Eltsin. I ricchi di oggi siedono, per così dire, sul fiume delle risorse di bilancio. Gli oligarchi più ricchi sono i funzionari statali, e tanto più alto è il loro grado tanto più sono ricchi. Il sistema funziona così: i vice di Putin, i vice del capo dell’amministrazione presidenziale (questa è la definizione precisa della loro carica) si prendono cura dei flussi finanziari delle risorse di bilancio migliori dal punto di vista della convenienza economica. Quindi: i soldi del petrolio, del complesso militare-industriale, delle materie prime come alluminio e nichel, dell’industria metallurgica. Ovunque ci siano dei profitti, lì c’è la curatela assolutamente legale dei vice dell’amministrazione presidenziale, che è come dire dei presidenti dei consigli di amministrazione di quell’enorme quantità di holding sorte negli ultimi anni che controllano questi importanti flussi finanziari. Nelle località esotiche dove trascorrono le vacanze i super ricchi per la prima volta quest’anno si potevano incontrare non quelli che da noi chiamiamo i «nuovi russi», ma i «nuovissimi russi», vale a dire i funzionari di alto livello. Ciò che contraddistingue il capitalismo di Putin è la sua natura burocratica, oligarchica, antisociale, antidemocratica. Nel corso dell’ultimo anno è stata radicalmente modificata la legislazione elettorale e abbiamo perduto la maggior parte di quei diritti che avevamo conquistato con il crollo dell’Unione Sovietica e la salita al potere di Eltsin. Nel capitalismo in versione Putin, il ruolo di primo violino spetta agli ex appartenenti ai servizi segreti, cioè al Kgb che oggi si chiama Fsb. Tutti i nostri grandi burocrati, i nostri maggiori funzionari, hanno lavorato in passato nello stesso sistema di Putin. Egli si fida solo di loro e quindi solo loro possono ricoprire le maggiori cariche statali.

Flores d’Arcais: Io purtroppo potrò farle pochissime altre domande e poi naturalmente anche il pubblico avrà spazio per rivolgergliene altre, e quindi purtroppo potremo toccare pochissimi dei tanti temi che invece dai suoi interventi vengono in mente. Più avanti le chiederò qualcosa sulle basi sociali del consenso a Putin, perché il regime di Putin, che potremmo definire in termini di politologia un populismo antidemocratico, antiliberale, si basa certamente sulla repressione, si basa certamente sulla corruzione, si basa certamente sulla paura, ma si basa altrettanto certamente sulla capacità di generare consenso presso vasti strati popolari.

Ma prima di toccare quell’argomento cruciale, mi interesserebbe che lei, giornalista, ci dicesse qualcosa sulla situazione dei media in Russia, perché il tasso di pluralismo dei mass media è uno degli indici più sicuri della democrazia liberale e delle libertà di cui gode un paese. Tenga conto che noi in Italia ormai non ci scandalizziamo più di nulla, perché fino a qualche anno fa avremmo considerato, in accordo con un comune sentire e un comune standard europei, un paese che disponga di un certo numero di reti televisive (un numero che per motivi tecnici è sempre molto limitato, di solito sei o sette), e nel quale una singola persona potesse possederne più di una (o forse più del 49 per cento di una sola), un paese in cui vige, più che l’oligopolio, una situazione di monopolio.

Questo standard europeo in Italia, ormai, anche nelle nostre coscienze, lo abbiamo perso: ci siamo abituati a standard molto diversi e molto meno impegnativi. Tuttavia, poiché quando si parla di liberalismo, prima ancora che di democrazia, il pluralismo dei media è l’elemento cruciale, le chiedo di descriverci qual è la situazione nella Russia di Putin. Io ricordo che ai tempi di BreŽnev i miei amici dissidenti dicevano che era molto facile sapere quello che succedeva in Russia: bastava leggere la Pravda, ma non ciò che nella Pravda era scritto, bensì quello che non era scritto, tra una riga e l’altra, e in questo modo si sarebbe riuscito a capire cosa stava accadendo. Oggi in Russia ci sono numerose testate giornalistiche, ci sono numerose reti televisive e relativi telegiornali. Qual è il grado di pluralismo, cioè di effettiva diversità tra queste fonti di informazione e quale è invece il grado di, potremmo chiamarlo, pensiero unico, o informazione unica?

Politkovskaja: Le opinioni come sempre sono tante, ma il problema è dove esprimerle. Nel nostro paese oggi non esiste alcuna televisione indipendente, non esiste alcun talkshow indipendente dove i politici possano discutere dei problemi più importanti. L’ultimo talkshow politico è stato interrotto all’incirca un anno fa, si chiamava Libertà di parola. Putin ha detto di non vederne l’utilità visto che vi si raccoglievano solo i politici falliti. Adesso è stato ripreso e viene trasmesso a Kiev, in Ucraina. Da noi esiste, oltre a un numero assolutamente limitato di quotidiani che non segue la linea ufficiale, una sola stazione radio indipendente al 50 per cento, dove di tanto in tanto si riesce a discutere in diretta di quanto avviene nel paese. Io lavoro nel giornale di opposizione più democratico, che già da tempo è stato dichiarato ufficialmente un nemico del regime di Putin. Tale dichiarazione è stata fatta da uno dei vice capo dell’amministrazione presidenziale che è responsabile della politica interna.

I motivi per i quali siamo stati dichiarati dei nemici sono tanti: il fatto di avere chiesto, insieme agli abitanti di Beslan, un’inchiesta indipendente sull’attacco terroristico e di starne conducendo anche una nostra; il fatto di aver appoggiato la protesta popolare contro la legge 122; l’esserci fermamente espressi contro la distruzione della Jukos – un’enorme industria petrolifera che finanziava parte dei partiti di opposizione e un importantissimo istituto della società civile come quello delle organizzazioni di difesa dei diritti della popolazione; abbiamo poi sostenuto coerentemente, nel corso degli ultimi sei anni, una posizione contraria ai metodi impiegati in Cecenia, spiegando che l’esplosione del terrorismo nel paese, compresa la tragedia di Beslan, è una conseguenza diretta di quanto accade in Cecenia; abbiamo inoltre condotto inchieste sulla corruzione diffusa a causa delle quali due nostri giornalisti sono stati uccisi. Nessun altro giornale ha subìto perdite tanto gravi; uno di questi colleghi è stato ucciso vicino alla propria abitazione, un altro è stato avvelenato. Questa è la libertà di parola, secondo Putin.

Flores d’Arcais: Quando ho esordito dicendo che ciò che dovrebbe essere normale in un paese di ordinaria libertà, cioè poter fare del giornalismo, nella Russia di Putin implica invece eroismo, non dicevo dunque qualche cosa di retorico, ma facevo riferimento a una situazione che, come dimostra quanto ci ha raccontato Anna Politkovskaja, costituisce una realtà quotidiana. Si possono mantenere in vita le sempre più rare e sempre più minoritarie voci libere, ma solo a rischio della propria stessa vita.

E noi in Occidente di questo aspetto tragico della Russia di Putin ci occupiamo pochissimo. E visto che Mantova, durante il festival della letteratura, è uno di quei luoghi dove c’è una grande presenza di giornalisti, spero che il giornalismo italiano, almeno quella parte di giornalismo che è rimasto giornalismo, si impegni ad attivarsi seriamente per difendere la libertà e la vita – perché le due cose ormai vanno insieme – dei pochi, pochissimi veri colleghi giornalisti russi. Spero perciò che quest’incontro serva anche a questo, a far capire che l’attenzione dei media occidentali è uno degli elementi che può dare forza, e voglia di continuare, a chi di coraggio ne ha certamente più che a sufficienza, ma a cui non è giusto chiedere eroismo quotidiano.

Perché il fatto che ci siano governi nei cui paesi la libertà di espressione è ridotta allo stato miserevole e disperato che ci è stato ricordato, governi che però sono ormai accettati dal consesso internazionale senza più alcuna riserva critica, o addirittura con grande amicizia, come quella del nostro premier, non deve diventare un alibi per abbassare – in nome di un malinteso «realismo» – gli standard con cui si concepisce la libertà dei media. E dunque, pensare che, solo perché la situazione in Occidente (e in Italia) non è drammatica come in Russia, essa sia allora idilliacamente liberale, è miseramente consolatorio.

Perché non dobbiamo nasconderci come ormai anche in Occidente stia diminuendo la libertà di fatto di cui godono o che esercitano i mezzi di informazione, e di come il conformismo stia facendo passi da gigante. Senza ovviamente fare paralleli con la situazione della Russia di Putin, talmente drammatica che ogni parallelo avrebbe il sapore del cinismo. Ma senza cadere in un altro cinismo, che finisce per utilizzare la drammaticità di quella situazione per spingere ad accettare come normalità liberale ogni standard meno drammatico di quello russo.

Insomma, se non ci fosse il quotidiano rischio della vita, che nella Russia di Putin per ogni giornalista-giornalista invece c’è, direi che la situazione di uniformità televisiva che Anna Politkovskaja ci ha descritto equivarrebbe a un unico, grande, perenne, Bruno Vespa Show. Questa è la descrizione che ci è stata fatta.

Ma, appunto, un paragone non possiamo neppure azzardarlo, perché nel conformismo coatto dei media in Russia c’è in più quell’elemento terribile: chi cerca di rompere quel monopolio rischia la vita. E allora l’ultima domanda, prima di dare la parola a voi, è: quali sono i meccanismi attraverso cui Putin riesce a garantirsi comunque un consenso e a polverizzare le opposizioni? E che ruolo gioca in questo la corruzione, che ruolo giocano in questo gli appoggi internazionali, che ruolo gioca in questo la Chiesa ortodossa e come è possibile che un paese dove un terzo dei cittadini vive al di sotto della soglia di povertà, non esprima ancora una opposizione democratica capace di rappresentare un’alternativa?

Politkovskaja: Non posso rispondere in due parole a una domanda del genere. Posso dire che gli strati più poveri della popolazione nel nostro paese, che sono costituiti da milioni di persone, oggi sono contagiati dal nazionalismo e da idee antidemocratiche. Non credo sia una risposta originale. Ma si tratta di un pericolo autentico. Noi li chiamiamo i «rosso-bruni»: è povera gente che ritiene colpevoli di tutto i «negri» – scusate se uso questo termine – e, naturalmente, come sempre, gli ebrei. È un’idea politica che al momento si sta effettivamente diffondendo, perché la maggior parte dei nuovi russi è costituita da ebrei che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono riusciti a mettere assieme il loro smisurato capitale in tempi prodigiosamente brevi. Poi è cominciata la guerra in Cecenia e, in generale, nel Caucaso, che ha portato a forti sentimenti anticaucasici. Gli abitanti del Caucaso vengono chiamati «i nostri negri». Oggi in provincia gode di estrema popolarità il movimento nazional-bolscevico. La settimana scorsa il leader di uno di questi partiti, lo scrittore Eduard Limonov, ha detto: «A quanto pare il governo vuole un nuovo 1920 come in Germania, e noi glielo daremo». Penso che se in Russia si arriverà a una rivoluzione, non sarà come quella delle rose in Georgia, o come quella dei tulipani in Kirghizistan o come quella arancione in Ucraina: da noi ci sarà una rivoluzione sanguinosa. Già oggi è evidente. Personalmente non nutro speranze, perché vedo come oggi manchino nel movimento democratico leader forti in grado di rivoltare a proprio favore simili stati d’animo. Forse sapete che nel 2003, con l’aiuto della politica di Putin e della corruzione, che naturalmente la sostiene appieno, è salito al potere il partito Russia unita e tutti i partiti democratici sono stati estromessi dalla scena parlamentare. Si è creata una situazione di vuoto politico, che i vecchi democratici (non nel senso dell’età) dei tempi di Eltsin non sono riusciti a occupare unendo le proprie forze, mentre i nuovi leader cominciano a farsi conoscere soltanto adesso. L’unica cosa che posso dire, per non finire con una nota così pessimista, è che naturalmente noi ci proviamo, ma non a sufficienza.

Flores d’Arcais: Ora c’è spazio per alcune domande, temo solo due o tre, molte meno ahimè di quelle che tutti vorremmo poter fare e delle tante risposte che vorremmo ascoltare.

Domanda 1: Quali possono essere a questo punto le prospettive per la Russia? Mi riferisco in primo luogo alla possibilità di una rivoluzione che può trovare terreno fertile nell’enorme divario tra ricchi e poveri. E in secondo luogo, mi domando se la seconda linea dell’oligarchia, quella che sta dietro Putin, non potrebbe dimostrarsi in futuro ancora più violenta e autoritaria.

Domanda 2: Qual è la sua analisi del caso Khodorkovskij? Khodorkovskij è stato il presidente della Jukos ed era legato a Eltsin. Poi è stato condannato, sotto Putin, a 7 anni di carcere. Oggi pare che il dissenso si stia organizzando intorno a lui.

Domanda 3: Lei sembra dare un giudizio moderatamente positivo del periodo di Eltsin. Ci può dire quali erano, se c’erano, questi aspetti positivi rispetto al successivo periodo di Putin?

Politkovskaja: Comincio dall’ultima domanda. Non si tratta di dare un giudizio positivo o meno su Eltsin: io sono una giornalista e il mio compito è criticare quanto avviene sia sotto Eltsin che sotto Putin. Non c’è nulla di strano in questo. Però posso dire che, malgrado tutta l’ambiguità della sua figura politica, Eltsin è riuscito a fermare la prima guerra cecena, a fermare lo spargimento di sangue e a salvare la vita a molta gente. Con Eltsin noi lavoravamo in piena libertà, per questo potevamo informare su quanto avveniva in Cecenia durante la guerra e il risultato è che si arrivò alla decisione politica di fermare la guerra. Eltsin stesso capiva che nel paese esistevano milioni di indigenti che andavano sostenuti, e che senza il sostegno dello Stato non potevano fornire un’istruzione ai propri figli o curarsi della propria salute. Oggi, con Putin, di questo ci si è dimenticati. A causa della riforma scolastica da lui introdotta ci sono adolescenti che non hanno frequentato la scuola neppure per un giorno: sono i figli di alcolizzati che non ricevono più sussidi statali per curarsi. E sono le persone che costituiscono la base sociale dell’attuale movimento nazionalista. Ecco qual è il vero risultato della politica antisociale di Putin. Ritengo che la guerra e questa politica antisociale siano i due principali errori commessi da Putin. A volte sento dire che adesso il paese è più sicuro. Non è assolutamente così. La quantità di attentati terroristici verificatisi sotto Putin non ha precedenti nell’epoca di Eltsin. Mi si obietta che lui trattò con Maskhadov e Basaev, però all’epoca non ci furono episodi come Beslan e per me questa è la cosa più importante.

Per quanto riguarda Khodorkovskij, egli è certamente un oligarca dell’epoca di Eltsin. A un certo punto gli uomini di Putin hanno cominciato a scalzare gli uomini che erano più vicini a Eltsin e ai flussi finanziari dell’epoca. Hanno rimosso Khodorkovskij, che era parte dell’oligarchia eltsiniana, l’hanno posto sotto processo e sbattuto in galera. È stata una mossa giusta, perché subito gli altri oligarchi hanno acconsentito a cedere le proprie aziende o se ne sono andati all’estero. In tal modo gli oligarchi putiniani hanno ottenuto la loro parte, rimanendone molto soddisfatti. Per noi però non è cambiato nulla, il 30 per cento della popolazione è rimasto in condizioni di povertà come lo era prima, ci hanno solo privato dei diritti elettorali e delle conquiste democratiche del periodo eltsiniano. Naturalmente, tra la gente serpeggia il sentimento che Khodorkovskij sia il principale oppositore di Putin e adesso, pur trovandosi in carcere con una condanna a nove anni di reclusione, i suoi sostenitori lo hanno candidato, come consentito dalla legge finché la sentenza non diventerà esecutiva il 14 settembre, a deputato del parlamento essendosi reso libero un posto alla Duma.

Vengo adesso alla prima domanda. Ritengo piuttosto serio il rischio di una rivoluzione nel nostro paese nel corso del 2006. Durante questo anno ci si attende una modifica della Costituzione che deve consentire a Putin di restare capo dello Stato anche dopo il secondo mandato. In quel momento si sarà senza dubbio rafforzato il fronte civico anti-putiniano, che riunisce i democratici, i comunisti, i nazional-bolscevichi e anche alcuni movimenti molto estremisti. Ma siccome in questo fronte i democratici hanno un ruolo molto piccolo, come ho detto, il rischio di una rivoluzione «rosso-bruna», non democratica, è grande.

Io ritengo che dopo Putin saranno senz’altro i nazionalisti ad andare al potere. Tuttavia, il successo del nazionalismo è di fatto, e paradossalmente, indotto proprio dall’amministrazione Putin. L’amministrazione non svolge affatto un ruolo di consolidamento della società, ma al contrario alimenta la guerra civile. In agosto, l’amministrazione Putin ha dato vita a un movimento chiamato Nashe (Il nostro). Gli «altri» non sono «dei nostri». Non è un segreto che siano stati invitati a far parte di questo movimento anche organizzazioni di tifosi di calcio in qualità di gruppi d’assalto. A carico di molti di questi facinorosi pendono condanne per rissa, atti di teppismo eccetera. Si tratta di piccoli, e a volte anche grandi delinquenti; di hooligan particolarmente aggressivi. Ora, tutti i procedimenti penali a loro carico sono stati sospesi ed è stato loro promesso che tali rimarranno finché militeranno nel movimento Nashe. Si tratta di un fatto catastrofico, perché questi tifosi scalmanati, che adesso sono diventati «nostri», sono continuamente coinvolti in risse, e non in risse innocue da adolescenti, ma in risse dalle pesanti conseguenze, con teste rotte, braccia e gambe fratturate e così via. Le vittime sono appositamente scelte tra coloro che aderiscono al fronte contro Putin. È una politica molto vile, perché può portare direttamente a una rivoluzione. Personalmente sono contraria alla rivoluzione. Penso che la Russia ne abbia avuto abbastanza e credo che il nostro compito adesso sia, finalmente, quello di perseguire solo la legalità. È di fondamentale importanza per la nostra società imparare a vivere nel rispetto della legge, sconfiggere in tal modo la povertà, la corruzione e il nazionalismo. È l’unica strada da seguire, affinché anche i nostri figli e nipoti possano vivere decentemente come nel resto d’Europa. Putin è stagnazione, un’evidente stagnazione, ma il nazionalismo è la Germania nazista.

Flores d’Arcais: Poiché grandissima parte del pubblico rimane, malgrado l’ora tarda, darei spazio ancora a due domande, e a un’ultima risposta di Anna Politkovskaja e poi qualcuno magari vorrà far firmare qualche copia del suo libro. Stiamo sfondando gli orari però spero, visto l’interesse, che gli organizzatori mi perdoneranno se do al pubblico la parola per altre due domande.

Domanda 4: Il lavoro d’inchiesta portato avanti da lei e dal suo giornale che tipo di reazioni suscita nei lettori, nella gente comune e soprattutto nei giovani?

Domanda 5: Volevo chiederle se ci può illustrare il fenomeno del «russismo», cioè di quella sorta di razzismo che si sta diffondendo in Russia nei confronti degli immigrati dai paesi vicini?

Flores d’Arcais: Vi ringrazio tutti, mi scuso con i tantissimi che vorrebbero fare ancora domande ma abbiamo già largamente sforato i tempi, e quindi do la parola ad Anna Politkovskaja per le ultime risposte.

Politkovskaja: Il nostro paese è enorme, pertanto non posso dire che tutto il paese reagisca bene alle cose che scrivo. So solo che ricevo lettere con richieste di aiuto, che mi sollecitano a scrivere di vicende personali terribili che avvengono un po’ dappertutto. Penso che la ragione di ciò non sia in un particolare affetto nei miei confronti, ma nel fatto che oggi la gente non si sente difesa dalla giustizia. I tribunali sono corrotti, non ci si può rivolgere ai mass media ufficiali, alla maggior parte dei quali è vietato parlare di certe cose. Per questo si rivolgono a me e al nostro giornale. Sanno che siamo più aperti e coraggiosi di altri.

Quanto al fenomeno che lei ha definito «russismo», senza dubbio è forte il razzismo nei confronti di coloro che arrivano da altri paesi, particolarmente dai paesi dell’Asia centrale. Ed è forte non solo a Mosca o a San Pietroburgo, ma anche in città molto piccole. Io ho scritto di numerosi casi in cui degli adolescenti hanno ucciso dei loro coetanei proprio in piccole città. A Mosca e San Pietroburgo, almeno, simili casi approdano in tribunale; nel resto di questo sterminato paese questo, invece, non succede facilmente. Si tratta in effetti di un nazionalismo molto strano perché non è raro che ne siano vittime addirittura persone etnicamente russe. È il caso di quelle persone che, per esempio, lasciano le zone del Caucaso, dove oggi, non senza sforzi del potere, si stanno creando delle repubbliche e dei territori di fatto monoetnici in cui ai russi è assai difficile vivere, e che perciò si trasferiscono in regioni e città russe. Un esempio è la stessa Cecenia o il Daghestan. Ora, le discriminazioni nazionalistiche riguardano appunto anche questi «russi impuri», malgrado siano completamente russi. Penso che le vere cause di ciò siano sempre le stesse: la povertà contro la quale non si riesce a far nulla, la corruzione che non consente alla povera gente, indipendentemente da dove proviene, di regolarizzare la propria posizione, perché la politica delle autorità consente la regolarizzazione solo a chi ha denaro, e chi non ha soldi diventa clandestino, infine la nascita di una forte delinquenza minorile, nazionalista e ignorante.

Flores d’Arcais: C’è un motivo speciale per cui io vorrei ringraziare Anna Politkovskaja per l’incontro di questa sera.

Anna Politkovskaja non ha cercato di indorare la pillola, non ha cercato di concludere su note di speranza. Ha voluto raccontarci in modo sobrio e analitico la realtà del suo paese. E soprattutto non ha voluto in nessun modo fare appello a responsabilità altrui, le nostre, di occidentali, che pure ci sono, nell’ascesa e nel rafforzamento di Putin. Anna Politkovskaja ha sempre fatto riferimento, per i democratici russi, alle loro debolezze, alla circostanza che fanno qualcosa ma non fanno abbastanza. Ecco, questo atteggiamento di voler contare sulle proprie forze e di assumersi fino in fondo tutte le proprie responsabilità è qualcosa di straordinariamente raro.

Da noi, sempre di più, si cerca, per i problemi che ci sono, di addossare la responsabilità a qualcun altro. Quindi per questo atteggiamento fuori del comune, dunque in senso tecnico straordinario, oltre che per tutto il resto, ringrazio Anna Politkovskaja.

E però se anche Anna non ha chiamato in causa le nostre responsabilità, noi non possiamo nascondercele. Nel regime antidemocratico di Putin c’è anche una nostra responsabilità. Nella disattenzione per le violazioni continue della legalità e delle libertà in Russia c’è anche una nostra responsabilità. Perché tutti noi sappiamo che, esattamente come ha contato l’atteggiamento della stampa occidentale, e dei governi, e degli intellettuali occidentali, all’epoca di BreŽnev, per difendere i dissidenti dell’Urss, allo stesso modo governi, media, intellettuali, possono influire, tanto più in un’epoca globalizzata, per sostenere chi nella Russia di Putin difende i residui di libertà. Sono essi i nuovi dissidenti.

E quindi dobbiamo sentire come nostro compito, l’impegno per i diritti di questi nuovi dissidenti, perché la libertà e la democrazia non sono, non sono mai stati, e oggi meno che mai sono, una questione meramente nazionale. Costituiscono invece una questione globale. Se libertà e democrazia si rafforzano da una parte, si rafforzano in tutto il mondo. Se si indeboliscono da una parte, si indeboliscono in tutto il mondo. Quindi io spero di poter parlare a nome di tutti i presenti e, nel ringraziare Anna Politkovskaja per questo incontro, di poterla assicurare che anche noi ci impegneremo per una libertà e una democrazia, quella della Russia, che ci riguarda tutti. Grazie ancora.

(traduzione di Flavia Sigona e cura di Giovanni Perazzoli)



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