Il corto circuito relativista che fa sparire la lotta delle donne

Un manifesto del coordinamento Donne dell’Anpi dedicato alla Giornata internazionale della donna è l’occasione per riflettere sulle derive relativiste del femminismo occidentale.

Cinzia Sciuto

Ci sono cose davanti alle quali si rimane talmente di sasso che non vengono neanche le parole per commentarle. Appartiene a questa categoria il manifesto che il coordinamento Donne dell’Anpi ha dedicato all’8 marzo, che raffigura in alto al centro una donna con un cappellino da baseball con la scritta Anpi, alla cui destra e sinistra si trovano due donne con due diversi modelli di hijab sul capo. Le tre figure femminili, su sfondo arcobaleno, sovrastano un’altra donna (o almeno si presume che sia una donna visto che è invisibile) completamente coperta da… un burqa. A impreziosire il quadretto un mazzetto di mimose e lo slogan: “La solidarietà unisce”.

Dopo lo sbigottimento iniziale, arriva la speranza che si tratti di un fake. Una speranza destinata a essere presto delusa: qualche click è sufficiente a verificare che no, non lo è. Il manifesto campeggia orgoglioso sulla pagina Fb dell’Anpi nazionale e sul sito.  E lo sbigottimento si trasforma in incredulità: care compagne dell’Anpi, ma esattamente cosa volevate dire con questo manifesto? Le parole di Tamara Ferretti, responsabile del Coordinamento Donne ANPI, che vorrebbero essere a commento del manifesto in realtà stridono con il suo contenuto: “La solidarietà unisce vuole raccogliere e accogliere le tante voci, le tante grida di donne che ci giungono da Paesi affamati, divisi e dilaniati da guerre, soggiogati da regimi dittatoriali e teocrazie illiberali, dall’Afghanistan, all’Iran, dallo Yemen alla Palestina, dal Myanmar al Congo, che fanno tornare in mente ‘pietà l’è morta’ e dove alle donne vengono negate dignità e diritto di esistere. Le voci di sofferenza delle donne afghane costrette ad abbandonare le scuole, le università e il lavoro faticosamente conquistato; le voci delle ragazze e delle donne iraniane che, nonostante le violenze, le torture, gli assassinii, le azioni ignobili e terroristiche come l’avvelenamento di oltre ottocento studentesse per impedirne gli studi, al grido di ‘donna vita libertà’ non si fanno intimorire. Le voci dimenticate delle tante donne curde che hanno combattuto contro l’Isis e continuano a rivendicare il riconoscimento di una loro terra, di un loro Stato democratico, tutte queste donne e le tante altre donne dei Paesi che vivono in guerre e conflitti più o meno dichiarati, ci chiedono di parlare di loro, di sostenere le loro lotte, di non girare lo sguardo da un’altra parte perché alle loro lotte, alla loro Resistenza serve la nostra solidarietà e l’esempio della nostra storia”.

E davvero, care compagne, il primo 8 marzo dopo l’inizio delle proteste in Iran in cui le donne scendono in piazza a bruciare i loro hijab, in cui le nostre sorelle iraniane, le odierne partigiane, vengono ogni giorno torturate, uccise e persino gasate per impedire loro di andare a scuola non avete trovato di meglio che manifestare la vostra “solidarietà” utilizzando gli stessi simboli dell’oppressione contro cui lottano? Ci avete messo pure il burqa! E vi prego, no, non rispondete con il riflesso tutto ombelicale e occidentalocentrico che “le donne iraniane non lottano contro il velo, ma contro l’obbligo del velo”: vi rendete conto, vero, che queste sono sottigliezze salottiere che ci si può permettere solo dopo che la liberazione delle donne è avvenuta bruciandoli quei veli?

Voglio sperare che sia stata solo una scelta infelice, che però è rivelatrice di un sentire molto diffuso, tanto diffuso che quel manifesto non ha neanche fatto lo scalpore che meritava, al netto di un paio di commenti sulla pagina Fb. Non era certo difficile trovare altre immagini per comunicare quella solidarietà così ben espressa nelle parole di Ferretti. Da mesi, per esempio, dall’Iran arrivano meravigliose immagini di donne straordinarie che avrebbero potuto riempire di coraggio, di resistenza, di libertà quei manifesti, mentre, care compagne dell’Anpi, voi avete scelto il ripiegamento relativista, probabilmente senza neanche rendervi conto (il che è ancora più grave) del corto circuito. Ha ragione l’attivista iraniana Masij Alinejad quando dice che non solo le donne del Medio Oriente non hanno bisogno di essere salvate, ma saranno loro a salvare le femministe occidentali dal loro harakiri.



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