Osservando il Novecento

L’inquietudine di Gadda e il ‘desassossiego’ di Pessoa, misura occidentale del nostro secolo. L’impossibilità, secondo l’autore di Sostiene Pereira, di pensare il romanzo del Novecento senza la dissolvenza cinematografica. [Tratto da MicroMega, n. 2-2002]

Antonio Tabucchi

Questo articolo è il frutto di alcune conversazioni con Antonio Tabucchi che hanno avuto luogo durante una sua recente visita in Israele, che lo ha visto tra l’altro protagonista di un interessante faccia a faccia con A.B. Yehoshua e di numerosi incontri con la stampa e il pubblico locale, in particolare durante la presentazione della traduzione in ebraico del suo ultimo romanzo. Ho raccolto le sue opinioni su molti dei temi centrali nel dibattito letterario e culturale di questi anni, quasi a tracciare un bilancio provvisorio del secolo che si chiude.

Lucio Izzo

La ricerca di una definizione, di una cifra che caratterizzi il Novecento in Italia o nel mondo non è agevole e implica diverse considerazioni. Innanzitutto ritengo che, al di là delle specificità nazionali o di certe aree linguistiche che condizionano inevitabilmente le posizioni dei singoli, si possa individuare un elemento comune a tutta la cultura occidentale del nostro secolo: l’inquietudine. Certo quest’inquietudine pervade ormai in certa misura l’umanità nel suo complesso, ma è un dato di fatto che in molte civiltà non occidentali questo stato d’animo è presente in maniera più attutita. In tali civiltà la percezione del sentimento di inquietudine è mediata da tradizioni che hanno un effetto tranquillizzante o semplicemente permettono il suo incanalarsi in forme molto diverse dalle nostre, producendo atteggiamenti non soltanto estetici, ma anche emotivi, differenti. Questi atteggiamenti possono dare, ad un occidentale, l’impressione di una pacatezza e di un equilibrio che risultano all’apparenza negazione dell’inquietudine così come la conosciamo noi. È quello che succede, ad esempio, in Giappone, un paese che per molti versi rappresenta un simbolo dell’angoscia del Novecento. Basti pensare a due aspetti fondamentali: il Giappone è l’unica nazione che abbia conosciuto i catastrofici effetti della bomba atomica, ma anche quella in cui la trasformazione forzata di una società agricola in società industriale e poi postindustriale ha agito profondamente, sconvolgendolo, su di un tessuto sociale tanto antico quanto stratificato. Ebbene in Giappone, in virtù di una sofisticata cultura estetica, sembra essere stato risolto il problema del rapporto tra forma e contenuto che da millenni appassiona e tormenta l’Occidente. Lì l’angoscia postatomica sopita, forse negata, ma mai cancellata, e le problematiche del quotidiano sono state in qualche modo incanalate attraverso un complesso sistema di forme in cui la gestualità e il rito, parti integranti dell’atto, sono più importanti del frutto dell’azione stessa (una curiosità illuminante: nelle scuole elementari giapponesi esiste una materia di insegnamento denominata Nodi il cui oggetto è effettivamente l’arte di fare nodi). E d’altra parte questa modalità estetica del­l’esistenza si esprime anche in momenti cruciali della vita. Può sembrare una battuta, eppure è vero che molti giapponesi nascono scintoisti, si sposano come cristiani e muoiono buddisti. Per loro differenti forme di culto o celebrazione corrispondono a differenti momenti non solo di spiritualità ma di socialità, ognuno adeguato a momenti diversi della vita dell’individuo.

Il risultato di questo atteggiamento può sembrare quindi una serena distanza dall’inquietudine esistenziale. Ma ad uno sguardo più attento appare chiaro che le angosce di cui parlavo poco fa rimangono. Da quelle più grandi e rimosse alle piccole ansie d’ogni giorno, quali ad esempio quelle del padre piccolo-borghese preoccupato di trovare marito alla figlia, come nei film di Ozu, un regista cha amo molto.

Tornando all’Occidente e ai modi, soprattutto letterari, in cui esso esprime la sua inquietudine bisogna ricordare che l’inquietudine novecentesca ha certamente le sue radici nell’Ottocento, radici in gran parte romantiche. E comunque l’inquietudine in quanto tale non è patrimonio del nostro secolo: altre epoche hanno conosciuto una dimensione analoga. Ciò che tuttavia identifica l’inquietudine novecentesca è la presenza di alcune riflessioni razionali che si ripercuotono sull’atteggiamento emotivo. Queste riflessioni nascono banalmente dall’osservazione della realtà circostante. La più importante tra esse è la coscienza concreta che l’umanità può scomparire dalla faccia della terra. Il dato che determina questa consapevolezza in maniera netta e brutale è appunto l’esplosione delle prime bombe atomiche in Giappone nel 1945. Prima di allora si erano però già avute delle «prove generali», degli avvenimenti che in qualche modo preludevano all’ineluttabile deduzione postatomica. Questi avvenimenti, di cui il più eclatante è stato l’Olocausto, erano ben presenti anche agli scrittori della prima parte del secolo. La prima guerra mondiale è stata uno di essi. Ma la possibile scomparsa dell’umanità è oggi un argomento di attualità in nuove forme: l’effetto serra, la desertificazione, el Niño sono oggetto di cronaca quotidiana massmediale.

Tuttavia da un punto di vista letterario va detto che la Grande Paura, quella della bomba, dell’estinzione, ha prodotto sicuramente meno capolavori di quanto non abbiano fatto le piccole angosce del quotidiano, in cui essa, la Grande Paura, finisce per annegare e scomporsi.

Il sentimento di inquietudine è ravvisabile già agli albori del secolo. Un sentimento fatto di disagio, insofferenza, malessere, desassossiego, come si dice in portoghese. Pessoa già nel 1910 lo esprimeva in maniera compiuta nel suo Livro do desassossiego così come, alla sua maniera, Joseph Conrad. Altri grandi esponenti di questo disagio, di questa «età dell’ansia» sono Kafka, William Auden, Gadda, Camus, Borges, Beckett, che rappresentano un’inquietudine a tutto tondo, che tocca profondamente tutti gli aspetti dell’esistenza. In Italia il tardo Calvino può essere considerato un epigono di Borges. Ma un epigono formale più che sostanziale. Il «testamento» di Italo Calvino, e mi riferisco ai suoi appunti per le Lezioni americane, procede infatti in una direzione ottimista, un ottimismo della volontà che va contro la direzione del nostro secolo. Tra gli scrittori italiani Gadda resta dunque indiscutibilmente quello che ha saputo meglio interpretare attraverso la sua opera il senso dell’inquietudine. Per comprendere i suoi modi espressivi bisogna tener presente le diverse componenti che determinarono le sue scelte artistiche. Sul piano culturale Gadda, cosmopolita e raffinato, era una persona dotata di strumenti di analisi sofisticatissimi. Sul piano ideologico era caratterizzato da un grande senso della dignità e dell’onore. La sua visione non era politica ma civile. Era erede della grande cultura illuminista milanese che lo poneva di preferenza su di un piano europeo e fin dalla sua gioventù appartenne all’Italia illuminata. Per Gadda fu cruciale il trauma della Grande Guerra, la rotta di Caporetto e la successiva prigionia che racconta nel suo Giornale di prigionia. Fu per lui la scoperta dell’Italia vera, quella dei fanti di ogni regione e dialetto, e quella degli intrighi di potere. Sicché la sua successiva simpatia verso il reducismo e il fascismo rappresentarono la scelta sentimentale di un impolitico, fatta per senso del­l’ordine. Considerò il fascismo una specie di «governante». Ma il fascismo presto lo deluse, anzi lo irritò esteticamente: Eros e Priapo è il ritratto feroce e impietoso del grottesco fascista. Vi è infine un piano privato sul quale l’inquietudine è il frutto della sua omosessualità rimossa, di cui non parla mai, ma a cui fa riferimento attraverso perifrasi. L’enorme sforzo di rimozione lo porta ad una compressione che esplode sul piano letterario. Lo scoppio linguistico, evidente nel Pasticciaccio, rappresenta la deflagrazione del suo ego.

Ho accennato alle fratture o frontiere che separano l’inquietudine novecentesca da quella dei secoli precedenti e in particolare dall’inquietudine romantica. Oltre la paura della scomparsa del genere umano ci sono però altri elementi distintivi di questo sentimento. Il più evidente, quello che rende la nostra ansia diversa da quella dei nostri antenati, è il fatto che essa sia stata, nel nostro secolo, sistematizzata, innanzitutto dalla psicoanalisi e da Freud. Nell’Ottocento c’è solo un annuncio dell’inquietudine moderna, il Novecento la esprime chiaramente.

Qualcuno ha obiettato che in tal modo l’immagine del Novecento viene legata ad una letteratura angosciata, infelice. Ma io penso invece che anche la letteratura dell’inquietudine sia una «letteratura felice». Voglio dire che è possibilissimo essere felici creando una letteratura «non felice». Io lo sono e come me moltissimi degli autori che ho citato, i quali nel momento creativo provano un godimento indipendente dalla realtà rappresentata, che può essere anche la propria. Anzi spesso lo è. Se infatti esiste un’ovvia distanza tra lo scrittore come persona e l’autore di un testo, che non necessariamente coincidono, credo che vadano ridimensionate le affermazioni del formalismo e dello strutturalismo, tanto di moda un tempo, per dare la giusta rilevanza al contesto in cui lo scrittore agisce e alla sua storia personale, come nel caso di Gadda. Non credo invece a una letteratura che rappresenta una realtà felice, a meno che non si tratti di cattiva letteratura consolatoria, genere New Age, che si vende e si consuma insieme ad un sacchetto di riso macrobiotico.

Un altro aspetto del rapporto tra un autore e la letteratura inquieta da lui prodotta è stato toccato da A.B. Yehoshua, che ha definito Primo Levi uno scrittore «non naturale», cioè non istintivo, ma in cui il trauma del campo di concentramento diventa l’evento generante, il big bang da cui faticosamente scaturisce il suo movimento creativo. Si tratta di capire se, e in che modo, l’essere scrittori «naturali» possa influire nella produzione di una letteratura più o meno inquieta.

La distinzione in questione riguarda soprattutto l’autobiografismo contrapposto alla capacità di affabulare ritenuta istintiva. In realtà anche grandi scrittori che hanno soprattutto parlato di sé hanno dimostrato doti creative e di resa letteraria altissima, laddove la capacità di creare storie e personaggi non sempre corrisponde a vere doti narrative. Benjamin Constant e Primo Levi sono due esempi di alta letteratura autobiografica. Non è possibile porre i narratori cosiddetti «naturali» su di un gradino più alto. La letteratura accoglie tutti purché prevalga poi la qualità nella combinazione degli elementi narrativi ed espressivi.

Sul nesso tra autobiografismo e inquietudine, vale quindi lo stesso discorso fatto per Gadda a proposito del contesto: Dante, a differenza di Levi, ha soltanto immaginato ciò che descrive, eppure, al di là delle epoche e della natura della loro inquietudine, i due hanno molto in comune.

Riguardo alle modalità espressive in cui la spinta affabulatoria si esprime, bisogna ricordare, poi, come la letteratura, oggi molto più che in passato, si intrecci strettamente con altri linguaggi che possono ugualmente diventare delle forme d’arte. Uno di essi è quello del cinema. Personalmente ho avuto una formazione decisamente cinematografica che ha giocato un ruolo cruciale nella mia scrittura. Per esempio il mio primo romanzo, Piazza d’Italia, del 1970, fu pensato e scritto in modo tradizionale, salvo naturalmente una forma linguistica espressionista basata sul dialetto toscano. Mentre ne terminavo la stesura stavo leggendo Lezioni di montaggio di Eisenstein. Pensai allora di smontare il testo e riassemblarlo alla maniera di un film. Ed è quello che feci nella sua versione definitiva. Il romanzo del Novecento non è pensabile senza la dissolvenza cinematografica, laddove nel romanzo ottocentesco prevalgono (salvo le eccezioni dei grandi precursori come Nerval) delle descrizioni insostenibili per il lettore contemporaneo. La diversità dei linguaggi narrativi corrisponde a una diversa fenomenologia, determinata dalla nascita e dallo sviluppo del cinema.

Alla questione dei linguaggi narrativi si lega quella della leggibilità dei testi prenovecenteschi e la retorica della «rilettura dei classici» a cui sono contrario. La categoria dei «classici» non è oggettiva, ma è una specie di contenitore in cui può entrare di tutto. In realtà ognuno sceglie i propri classici secondo un meccanismo di affinità elettive. Così quando A.B. Yehoshua ha detto che, come molti israeliani, lui stesso ha iniziato a scrivere dopo aver letto Cuore di De Amicis, gli ho risposto di aver cominciato invece dopo la lettura di Pinocchio. Questa risposta scherzosa a Yehoshua, che certamente ha una percezione dell’opera di De Amicis diversa da quella che si è venuta affermando nella storia letteraria e del costume italiana, voleva sottolineare la mia propensione per una letteratura libera da moralismi esterni di matrice pedagogica (come quella di De Amicis) e orientata invece verso la morale taumaturgica della fantasia.

Insieme a quello di classico bisogna ridimensionare inoltre il concetto di letteratura universale, che si contrappone ormai a quello di letteratura globale. Anche la letteratura universale è un’astrazione a posteriori, fatta per definire delle opere che da un punto di vista formale o tematico esprimono dei meccanismi e dei valori percepiti, ora e qui, come metastorici, legati cioè ad una supposta condizione umana immutabile. La letteratura mondiale o globale si muove invece su un asse sincronico, ha luogo nel presente, tanto per quanto concerne la sua produzione che la sua fruizione. Non credo però che ci sia già una letteratura globale nel senso di mondiale. Come ho detto, le differenze tra l’Occidente e le altre culture sono ancora profonde. Né credo che una letteratura mondiale possa nascere nel prossimo secolo. Altra cosa è la comunicazione, che già esiste su scala planetaria. Ma la comunicazione non produce letteratura. Internet ad esempio, nonostante alcuni si ostinino ad affermare il contrario, non può nemmeno influenzare il ritmo della letteratura. Io sono d’accordo con Eco quando dice che il libro non scomparirà, per lo meno sulla terra, in quanto è uno di quegli oggetti fondamentali, come le forbici o il martello, la cui estetica e la cui funzionalità può essere migliorata, ma la cui struttura è ormai fissata. Finché dunque esisterà il libro come supporto fisico alla letteratura, certe strutture del linguaggio letterario, al di là degli arretramenti o dei salti in avanti delle avanguardie, seguiranno un’evoluzione propria che prescinde dai meccanismi e dalle strutture della comunicazione.*

(a cura di Lucio Izzo)

* Tratto da MicroMega, n. 2-2002.

 

 



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