Assange da quattro anni detenuto a Londra in attesa di una sentenza

Parla di “inizio della fine dell'incarcerazione di Julian” il padre, John Shipton. Dopo che è stata negata a Reporters sans frontières la visita nel carcere di Belmarsh, qualche segnale di apertura: l’impegno del primo ministro australiano e la lettera della deputata democratica Rashida Tlaib ai rappresentanti del Congresso di Washington, mentre Free Assange Italia manifesta a Roma e a Bologna con sit-in di protesta.

Rossella Guadagnini

Se il mondo occidentale si è indignato a causa di giornalisti, blogger e artisti incarcerati in Russia, in Iran e in Cina per aver svelato le infamie dei propri e altrui regimi, che differenza c’è con il caso di Julian Assange? Il giornalista australiano ha denunciato crimini di guerra compiuti dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, oltre alle violenze di Guantanamo, ed è perciò detenuto da quattro anni nella democratica Inghilterra senza una condanna, in attesa dell’estradizione richiesta dagli Stati Uniti. Qualche giorno fa il padre, John Shipton, in un recente collegamento online con la CnnLive, ha parlato di eventi che indicherebbero “l’inizio della fine dell’incarcerazione di Julian” a seguito di alcuni segnali positivi. Un “prigioniero politico”, secondo Edward Snowden, ex tecnico della Cia che pure aveva svelato gravi illeciti del governo americano, costretto a fuggire dagli Usa e attualmente residente in Russia.

L’ultimo di una lunga serie di ostacoli si è verificato quando il governatore del carcere di Belmarsh a Londra ha impedito, all’ultimo momento, a Reporters sans frontières di incontrare Assange, nonostante fosse stato concesso il permesso ufficiale. Rsf ha replicato che il prigioniero aveva diritto di ricevere visitatori: “Noi siamo legittimati come Ong per la libertà di stampa. Chiediamo un’urgente revoca di questa decisione e che sia consentito l’accesso alle visite senza ulteriori indugi”. In seguito, Sky News ha reso noto che l’Alto Commissario australiano per il Regno Unito, Stephen Smith, ha visto il prigioniero, “dopo l’incoraggiamento del primo ministro australiano Anthony Albanese”. Quest’ultimo si è impegnato a organizzare “una rappresentanza ministeriale di alto livello alle sue controparti negli Stati Uniti e nel Regno Unito”. Ora ci si chiede se queste rispetteranno “la posizione e l’ufficio del Primo Ministro dell’Australia” oppure no.

Nel quarto anniversario della detenzione di Assange che cade l’11 aprile da ogni parte degli Stati Uniti i suoi sostenitori convergono a Washington DC per manifestare a favore della sua liberazione e far firmare ai loro referenti al Congresso la lettera redatta dalla deputata dem Rashida Tlaib. Avvocata 46enne, nata a Detroit da immigrati palestinesi, chiede al Procuratore Generale Merrick Garland di “far cadere le accuse penali contro l’editore australiano e ritirare la richiesta di estradizione emessa dal suo Dipartimento, sotto l’amministrazione Trump, attualmente pendente con il governo britannico”.

Numerosi attivisti di Action4Assange che si sono dati appuntamento oggi nell’House Office Building si divideranno poi in piccoli gruppi per fare pressione su una lista selezionata dei membri del Congresso. A ognuno di loro verrà chiesto di mettere da parte le opinioni personali sul giornalista australiano e firmare la richiesta per il suo rilascio, in quanto “sotto attacco non c’è solo un uomo, bensì la stessa libertà di stampa”.

Nel frattempo, un sit-in di protesta è stato organizzato a Roma da Free Assange Italia: nel pomeriggio, in Piazza della Repubblica, si manifesta “contro l’indifferenza e i soprusi che hanno contraddistinto questa drammatica vicenda”, con la partecipazione di colleghi di Julian, oltre a cittadini e comitati in sua difesa. Presente anche Enrico Calamai, detto “lo Schindler di Buenos Aires” perché durante la dittatura in Argentina, da giovane diplomatico, decise di non voltarsi dall’altra parte e salvò centinaia di persone da morte certa.

Un’analoga manifestazione si tiene a Genova, in Piazza de Ferrari. “Se Assange venisse estradato, nessun giornalista al mondo sarebbe indenne dal rischio di ergastolo in una prigione statunitense”, ricorda Daniel Ellsberg economista ed ex analista militare statunitense.

Era la mattina dell’11 aprile 2019 quando gli agenti della polizia britannica entrarono nell’ambasciata ecuadoregna a Londra, dove per sette anni aveva trovato rifugio il fondatore di Wikileaks, prelevandolo con la forza. È l’inizio dell’incubo: da lì a breve – spiega l’associazione nel suo appello – Assange sarà condotto “nel carcere di massima sicurezza di HM Prison Belmarsh, il più duro del Regno Unito, insieme a detenuti pericolosissimi, senza una condanna in attesa della sentenza che decreterà o meno la possibilità per gli Stati Uniti di estradarlo nel loro Paese, dove verrebbe sottoposto ad un processo in un tribunale composto da membri non imparziali e dove verrebbe, con tutta probabilità, incarcerato per sempre”. Un quadriennio trascorso “in condizioni fisiche e mentali estremamente deterioriate, certificate da autorevoli esponenti medici e istituzionali. Quattro anni in cui può ricevere visite in condizioni umilianti e che possono essere annullate anche all’ultimo minuto, come appena accaduto. Solo per aver fatto il suo dovere di giornalista”.

In Italia è arrivato anche il suggestivo video musicale intitolato “Free Assange” di Lowkey con Mai Khalil e The Grime Violinist. Scritto in occasione del ventesimo anniversario della guerra in Iraq (il 20 marzo scorso) come parte di States of Violence, prodotto da una collaborazione tra a/political, Wikileaks e la Fondazione Wau Holland, il brano ha una prima parte in cui si mostra una clip tratta da “Collateral Murder”, video che l’ex militare Chelsea Manning diede a Wikileaks, pubblicato poi il 5 aprile 2010. È un filmato militare americano che descrive l’uccisione indiscriminata di oltre una dozzina di persone nel sobborgo iracheno di New Baghdad, tra cui due giornalisti dell’agenzia Reuters e i loro soccorritori. Anche due bambini sono coinvolti nell’operazione.

States of Violence riunisce artisti, attivisti e icone come Ai Weiwei, Dread Scott e la Fondazione Vivienne (in memoria di Westwood, scomparsa il 28 dicembre scorso), con l’intento di “svelare e opporsi alle tecniche di oppressione governativa, dalla guerra alla tortura, dalla brutalità della polizia alla sorveglianza”. Vengono così accesi i riflettori sulle strutture del potere globale, attraverso materiale che mette a nudo le verità più oscure della nostra realtà contemporanea.

 



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