Attentato a Mosca, intervista a Giovanni Savino

Il 22 marzo al Crocus City Hall di Krasnogorsk, nei pressi di Mosca, è avvenuto un terribile attentato terroristico, rivendicato dall’Isis-K. L’edificio è crollato in seguito a un incendio e in questi giorni sono continuati incessanti i soccorsi, che purtroppo si accompagnano alla triste conta di morti e feriti. Nonostante lo shock emotivo non si sia ancora placato abbiamo provato a ragionare sulle possibili cause e le possibili conseguenze dell’accaduto con Giovanni Savino, ricercatore di storia della Russia presso l'Università Federico II di Napoli.

Redazione

Oltre che a livello politico, l’attentato avrà – come è nella natura e nel proposito di queste azioni – una forte ripercussione psicologica, riportando i russi a scene ormai vecchie di alcuni lustri, che sembravano non potersi più ripetere nella scintillante ed efficiente Mosca dell’attuale sindaco Sergej Sobjanin. Cosa significa per i russi e soprattutto per i moscoviti un evento del genere?
La ripercussione psicologica dell’attentato è fortissima perché ognuno ha subito proiettato su quanto avvenuto al Crocus accadimenti del suo recente passato. Ricordiamoci che, almeno fino all’inizio degli anni Dieci, quando avviene l’ultimo grande attentato a Mosca, quello all’aeroporto Domodedovo (non relativamente alla capitale poi c’è stato quello del 2017 in metropolitana a San Pietroburgo), ogni abitante della città ha una storia da raccontare riguardo ad attentati scampati e ad amici, parenti e familiari che vi sono morti. Il suo effetto psicologico è quindi dirompente, viene vissuto come una sorta di segnale su come il passato stia ritornando sotto altre forme.
D’altronde parliamo di un attentato grande: finora si contano 137 morti e i feriti sono oltre 180, con delle conseguenze che potevano essere ancora più tremende, perché parliamo di circa 5-6 mila persone presenti al momento dell’attacco. Sicuramente produrrà una serie di paure e anche di reazioni legate al terrore di potersi trovare di nuovo di fronte a una situazione del genere.
Recentemente Vladimir Putin ha vinto le elezioni presidenziali con un plebiscito e subito dopo è arrivato questo attacco. Dobbiamo rilevare delle connessioni tra i due eventi?
Stando a quanto sembra emergere dalle indagini, non vi è una connessione tra le due vicende; bisogna comunque stare molto attenti perché siamo ancora in una fase iniziale e comunque è sempre difficile dire quanto le inchieste possano essere indirizzate in un senso o nell’altro. Sembrerebbe però che fosse già stata pianificata un’azione per il concerto di Shaman, il cantante pop nazionalista diventato famoso con la guerra, che però poi è stata rimandata e quindi è stato colpito il concerto dei Picnic.
Questo attacco sembra comunque anche indicare come in realtà la situazione in Russia non sia completamente sotto controllo e questo non perché il Paese è al collasso ma proprio per la natura stessa del terrorismo islamista. Non dimentichiamoci di come anche in Europa lo abbiamo toccato con mano in occasioni come quella del Bataclan: diventa sempre molto difficile, se non con il dovuto investimento da parte dell’intelligence, prevedere queste forme d’azione.
A proposito di intelligence: soprattutto negli ultimi due anni Putin si è concentrato sulla repressione di ogni forma di dissenso interno. Per esempio sono in carcere la regista Evgeniya Berkovich e la drammaturga Svetlana Petriychuk per uno spettacolo teatrale sulle donne russe andate in spose a miliziani dell’isis, per il quale sono state accusate di incitare al terrorismo. Fino a quando il terrorismo, quello vero, è giunto proprio per mano dell’Isis-K… La riuscita di un attentato del genere va quindi ascritta all’uso dell’intelligence come mero strumento politico?
Di sicuro noi abbiamo visto che negli ultimi due anni i servizi russi si sono concentrati essenzialmente su due obiettivi: reprimere i cittadini ostili alla guerra e scovare agenti ucraini, veri o presunti tali. Questo ha fatto passare in secondo piano l’allarme terrorismo islamista, che nella Federazione russa – ahinoi – ha comunque una tradizione decennale: se pensiamo che i primi atti avvengono nel 1995 con il sequestro di migliaia di cittadini a Budyonnovsk capiamo come si tratti di una tragedia che ha affonda le sue radici lontano nel tempo. Credo che in più circolava l’idea che con l’Isis la questione fosse più o meno fosse finita, un’idea tra l’altro sostanzialmente condivisa anche dai Paesi occidentali e dagli stessi Stati Uniti. Ma facciamo attenzione: lo stesso gruppo dell’Isis di cui parliamo, l’Isis-K, ha colpito precedentemente in Iran all’inizio di gennaio e io credo non sia casuale la scelta di colpire il blocco pro-Assad nella guerra civile in Siria, appunto Iran e Russia – soprattutto quest’ultima è intervenuta pesantemente nel conflitto.
Per tornare allo specifico della domanda, l’intelligence è anche uno strumento di repressione politica e questa idea di dover lottare contro la quinta colonna interna ha sicuramente condizionato le politiche attuate e le priorità di sorveglianza in questi anni.
L’Isis-K ha rivendicato l’attentato ma in Russia si è parlato anche di pista ucraina. Al di là dei suoi reali esecutori e delle sue effettive ragioni, come potrebbe essere “usato” l’attentato?
Il tentativo di vedere una pista ucraina o quantomeno un collegamento con essa è stato avanzato dai media russi ufficiali, in alcuni casi in modo più o meno esplicito e in altri meno. Che poi la guerra in Ucraina si trovasse in un momento importante era vero anche prima dell’attacco e io credo che le reazioni dei Paesi occidentali siano state dettate anche dalla volontà di non consentire di utilizzarlo come scusante per intensificare i bombardamenti sull’Ucraina. Bombardamenti che comunque nelle ultime settimane si erano fatti sempre più massicci e nella mattinata in cui stiamo parlando, quella del 25 marzo, si è per esempio bombardata anche Kiev.
Quello a cui potremo assistere se non verrà – come sembra – confermato alcun legame con l’Ucraina potrà essere il tentativo di compiere un salto logico, che prevede la dichiarazione della lotta al terrorismo internazionale includendovi anche gli ucraini e poco conta, ai fini delle motivazioni, dire che siano dalla parte dell’ISIS o meno.
Se cerchiamo informazioni sull’attentato inserendo sui motori di ricerca anche la parola “Islam” otteniamo solo risultati su risultati relativi all’Isis-K. E invece Islam in questo frangente non significa solo Isis ma è anche il nome del piccolo-grande eroe della vicenda, il cui esempio ci dà motivi per sperare in mezzo al dolore per questa immane tragedia.
Islam Khalilov è un ragazzo di 15 anni, uno studente che per guadagnare qualche soldo lavora come guardarobiere al Crocus – o meglio lavorava, visto che il Crocus non esiste più… Credo che questo ragazzino abbia fatto la cosa giusta, la cosa più importante: non perdersi d’animo. Lui ha affermato di aver semplicemente seguito le istruzioni e infatti nel video circolato sulle varie piattaforme lo vediamo chiamare gli spettatori indirizzandoli verso l’uscita corretta. Poi va detto che di piccoli-grandi eroi in questa storia ce ne sono stati altri, come altri suoi colleghi guardarobieri che hanno portato gente in salvo; eroi di una storia che rimane comunque tragica, in cui sono state ritrovate intere famiglie uccise, asfissiate dal gas dell’incendio, e tanti altri hanno trovato ad aspettarli un destino crudele e atroce. Al di là di questo credo che questa forza d’animo sia qualcosa di bello, perché permette di capire come alle volte quei piccoli gesti, quelle piccole grandi decisioni, siano in grado di salvare numerose vite. Insomma, si tratta di empatia, qualcosa che in questi giorni leggendo i commenti sui social non abbiamo come al solito trovato, e quindi ci vorrebbero tanti piccoli grandi Islam per rendere questo mondo un posto migliore.

CREDITI FOTO: EPA/MAXIM SHIPENKOV



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