“Proletari in divisa”: un altro passato che non passa

"S'avanza uno strano soldato" è il titolo di una canzone del movimento operaio. E ora un saggio sul movimento per la democratizzazione delle Forze Armate.

Daniele Barbieri

Una strana recensione per uno “strano soldato”. Lo confesso subito: sono in crisi perché da un lato dovrei scrivere entusiasticamente del saggio di Deborah Gressani. Giorgio Sacchetti e Giorgio Sinigalia (lo pubblica DeriveApprodi: 190 pagine, 18 euro) e dall’altra lamentarmi – con toni anche stizziti – perché nel libro… manca la mia testimonianza. Un palese “conflitto di interessi”, complicato da quel 37 per cento di narcisismo che si annida in tutti i bidepi terrestri.

Facciamo così: io farò finta di non essere stato nei lontani anni ’70 (ero più che un pupo in effetti) uno dei tanti protagonisti del movimento detto Pid cioè proletari in divisa e dunque di non avere nulla di intelligente, acuto e divertente da raccontare. E farò il recensore che classicamente dovrebbe collocarsi a “una giusta distanza”.

In primo luogo, il recensore deve notare che il titolo suonerà oscuro ai più.  «S’avanza uno strano soldato» è una vecchia (e poco nota) canzone del movimento operaio: in rete la trovate ma francamente non è fra le migliori. Però se il titolo risulta ermetico il sottotitolo è chiarificante: «Il movimento per la democratizzazione delle Forze Armate (1970-1977)».

E subito i lettori e le lettrici di giovane età si chiederanno come mai negli anni ’70 occorreva in una Repubblica antifascista e nata dalla Resistenza “democratizzare” l’esercito di popolo (cioè la leva obbligatoria). Il libro lo spiega benissimo ma vale citare, a mo’ di introduzione, il giornalista, notissimo negli anni’70, Indro Montanelli (ora conservatore, più spesso reazionario, sempre acuto però nelle sue analisi). Non ho la frase esatta sottomano ma il senso era questo: attenzione perché le nostre forze armate hanno la testa in Cile e le gambe in Portogallo. Per intendere la frase – mi rivolgo a persone giovani o smemorate – bisogna ricordare da un lato il golpe di sanguinoso Pinochet (1973) e dall’altro la quasi pacifica portoghese “rivoluzione dei garofani” (l’anno dopo). Probabilmente Montanelli scrisse la sua frase dopo le migliaia di denunce – ci fu poi un’amnistia – per vari episodi di “insubordinazione” fra i militari di leva e in visto di un’annunciata «giornata nazionale di lotta nelle caserme» (in sostanza uno “sciopero del rancio” ma con molte articolazioni, come il libro spiega): una prova di forza dove i “portoghesi” si misurano con i “cileni” oltre che con la macchina burocratico-repressiva di uno Stato che ancora dopo 30 anni non aveva abolito i codici militari fascisti. Perché su una cosa Montanelli aveva torto: nelle forze armate non c’erano solo un po’ di alti gradi che sognavano (e in piccola parte tentarono di organizzare) un golpe alla cilena e dal lato opposto quei “ragazzi” della sinistra – extraparlamentare e non solo – che si preparavano a una nuova Resistenza; la terza anima, numericamente prevalente, era quella che potremmo definire democristiana o italiana da stereotipo. Caserme dove nulla si faceva, vecchie tradizioni (nonnismo e gavettoni) ridicole che ogni tanto sfociavano nel tragico, mille ruberie e raccomandazioni ma soprattutto la naia-noia o come lessi su un muro particolarmente saggio: «il servizio militare è quella cosa che rende difficile il facile attraverso l’inutile».

Un assaggio di tutto questo – gustoso e ben cucinato – c’è nel libro «S’avanza uno strano soldato» che è diviso in tre parti più una breve appendice, dedicata a Franco Travaglini il quale fu l’anima del movimento Pid. Quell’organizzazione necessariamente clandestina – visto che era vietatissima nelle forze armate non solo la sindacalizzazione ma ogni tipo di rappresentanza – eppure alla luce del sole (i Pid sfilavano in ogni corteo, appunto in divisa e spesso col solo fazzoletto a mascherarne l’identità) si allargò dal movimento Lotta Continua ad altri gruppi dell’allora sinistra extraparlamentare, “infettando” anche una parte della sinistra istituzionale.

Deborah Grassani nella prima parte del libro ricostruisce la nascita del movimento di protesta fra i soldati, la controinformazione, le contestazioni aperte e le proposte per un esercito davvero democratico che poi in parte si concretizzarono con l’abolizione di alcune leggi dell’epoca fascista. Accennando anche alla complessa questione dell’obiezione di coscienza che poi aprì uno spiraglio (timido e ambiguo) a chi rifiutava, per motivi religiosi o politici, di imbracciare le armi.

Sergio Sinigaglia ha raccolto nella seconda sezione le testimonianze di alcuni protagonisti che riflettono «una concezione della storia» – fuori dalla ufficialità – come fosse «un romanzo polifonico e incompiuto al quale prendono parte mille voci». Storie diverse e molto ricche che credo possano interessare anche oggi chiunque voglia davvero capire come possa funzionare la disobbedienza alle istituzioni totali.

Giorgio Sacchetti nella terza parte del libro ricostruisce, con sapienza, «la panoramica dell’atteggiamento tenuto dagli apparati dello Stato, in particolare dalla polizia». In parte logiche superate ma più spesso imbellettate e aggiornate perché in Italia la repressione contro i dissidenti è longeva e arzilla.

Infine, la piccola sezione fotografica – dopo la dedica – restituisce i volti e il clima dell’epoca.

Libro fatto con amore e sapienza, non agiografico, non astruso e senza quel ridicolo “senno di poi” che spesso affligge chi non è più giovane. Non mancano ovviamente i riferimenti a una tradizione antimilitarista che in Italia ha avuto momenti collettivi e organizzati (Andrea Costa a scandire in Parlamento, nel 1887, «né un uomo, né un soldo» all’esercito dei padroni, come allora si diceva, solo per ricordarne uno) con tanto di scioperi “contro la guerra” ma anche a lotte individuali, testimonianze pagate con il carcere di chi appunto rifiutò la divisa («Pietro Pinna, Pietro Ferrua, Elevoine Santi, Giuseppe Gozzini, Fabrizio Fabbrini e molti altri coraggiosi dimenticati dalla storia e dalla cronaca») e finendo più volte nelle carceri militare, visto che si trattava di un reato “reiterato”. Quei molti – o forse pochi? – avevano spianato la strada alla legge 772 del dicembre 1972 che consentiva «in linea di principio» l’obiezione di coscienza al servizio militare; un capolavoro di equilibrismo che venne poi travisato e il servizio civile sostitutivo della leva finì, come spesso accade in Italia, per essere una nuova forma di sfruttamento del lavoro a costo quasi zero. Ma contestualizzando fu un grande passo avanti nel Paese dove resisteva quel «Dio, patria, famiglia» (citato di recente da “Io sono Giorgia”) dopo il quale molti anarchici aggiungevano la rima irridente «riducono l’uomo in poltiglia».

Ai nostri giorni il quadro storico è mutatissimo, in primo luogo perché non esiste più la leva obbligatoria. Ma restano le “servitù militari” (in Sardegna e non solo), il vassallaggio alla Nato con tanto di bombe atomiche statunitensi nelle basi italiane mentre da molti anni crescono le spese militari e un clima militarista invade persino le scuole con aperta propaganda bellica. Ma qui il discorso dovrebbe ampliarsi.

Al netto del mio minimo (e scherzoso) “conflitto d’interessi” è un libro che mi sento di consigliare.

 

 



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