“Bad Girls”, racconti dal carcere

“Bad Girls” è il racconto corale di donne che da vittime si sono trasformate in carnefici. Un libro che dando voce a queste detenute ricostruisce i mille volti della violenza sulle donne. Ne pubblichiamo una breve recensione e l'introduzione firmata da Dacia Maraini.

Ingrid Colanicchia

Fa male. Ogni parola è una pugnalata, uno schiaffo, un laccio che stringe sempre più stretti polsi e caviglie. A ogni pagina pensi che non possa andare peggio e a ogni pagina ti trovi di fronte un dolore più forte, un sopruso più grande. Un volto diverso del patriarcato. Perché in ultima analisi le storie dal carcere raccolte dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera in Bad Girls. Da vittime a carnefici (La Lepre edizioni, 2021) altro non sono che storie di violenza sulle donne. Che si tratti di quella agita da un pappone, da un padre pedofilo, da un gruppo di stupratori, da una famiglia che non accetta un figlio nato nel corpo sbagliato…

Al punto che, in maniera del tutto inattesa, il carcere che emerge dai racconti di queste donne – che alla violenza hanno poi risposto con la violenza e per questo sono ai domiciliari o dietro le sbarre – appare quasi come un luogo luminoso, un luogo dove accettare il proprio corpo e conoscere l’amore. Un luogo in cui le tue compagne di cella, al tuo compleanno, disegnano il mare sulla tovaglia e con un filo fanno calare dall’alto un sole di carta gigante; sul biglietto: “Noi ti possiamo regalare solo un sogno, ma un giorno diventerà realtà”.

Le storie di Patrizia, Sara, Maria, Mara, Giada, Debora, Claudia… si intrecciano in un racconto corale, di quelli cupi, in cui il lieto fine è difficile da immaginare ma di cui forse il primo atto è costituito proprio dalla riappropriazione del racconto delle loro vite: da queste parole messe nero su bianco, in cui ci consegnano i loro vissuti senza accampare scuse per i reati che hanno commesso.

Ed è vero, come scrive Dacia Maraini nell’introduzione, che sembra di vederle mentre raccontano le loro storie. “Hanno messo i loro abiti migliori e profumano di saponi a buon mercato”, “una sigaretta sempre accesa tra le dita, gli occhi negli occhi di chi ascolta, le loro vite che diventano fiumi di parole ripetute migliaia di volte come a voler esorcizzare cose che a raccontarle non sembrano nemmeno vere tanto sono atroci, frutto di ignoranza, miseria, sopraffazione”.

Sono entrata in carcere, anni fa, per un progetto scolastico. Ne sono uscita pensando a quanto sia importante la porosità, la permeabilità del mondo di chi è ristretto con il mondo di chi non lo è. E viceversa. Questo libro, che fa parte dei progetti letterari del Premio Goliarda Sapienza dedicato alle persone carcerate (di cui Bolelli Ferrera è fondatrice e anima), fa proprio questo: ci mette in ascolto di chi sta dall’altra parte, tesse trame tra chi sta dentro e chi sta fuori.

 

Introduzione
di Dacia Maraini

Sembra di vederle mentre raccontano le loro storie. Una sigaretta sempre accesa tra le dita, gli occhi negli occhi di chi ascolta, le loro vite che diventano fumi di parole ripetute migliaia di volte come a voler esorcizzare cose che a raccontarle non sembrano nemmeno vere tanto sono atroci, frutto di ignoranza, miseria, sopraffazione.

Hanno messo i loro abiti migliori e profumano di saponi a buon mercato, in carcere bisogna essere pulite e poi tutte si truccano con estrema cura in quelle ore che non passano mai. Qui non ci sono segreti e quando una viene intervistata le altre assistono partecipi e attente, ascoltano per l’ennesima volta la storia della loro compagna di cella. Quella stessa che conoscono fin nell’intimo delle sue abitudini più segrete, che dorme due brande sopra di loro, quella che sentono piangere nascosta solo dal buio della notte. E leggendo rivediamo, come in un film che ci scorre davanti agli occhi, quelle vite che sarebbe difficile persino inventare tanto sono crudeli e angosciose.

Donne stuprate per giorni che dopo anni si fanno giustizia da sole, ragazzine costrette a spacciare droga da un padre-padrone violento e ignorante, quelle che scoprono la propria sessualità proprio dietro quelle sbarre dove però nessuno le giudicherà. Oppure ci sono le 7cosiddette donne di mafia, forti e determinate che hanno preso il posto del compagno ucciso e sono state pronte a vendicarlo. E ancora quella che in galera ci è arrivata dopo la chiusura dell’ospedale giudiziario perché il dolore le ha fatto perdere la ragione e non ricorda nemmeno cosa ha fatto. Lei è solo pazza, dicono.

Ma ciò che salta agli occhi subito è che queste donne vengono quasi tutte da realtà orribili, fatte di povertà, di violenza, di botte, di degrado sociale. Nelle carceri la percentuale più alta dei detenuti, maschi o donne che siano, proviene dai ceti più bassi e ormai tantissimi sono immigrati arrivati clandestinamente e rimasti ai margini perché la società cosiddetta perbene non li accetta.

Questo non significa voler giustificare assassinii o spaccio di droga, me ne guarderei bene, solo che quando queste storie non le leggi solo sulla cronaca nera ma ti vengono raccontate da qualcuno in carne e ossa seduto davanti a te, qualcosa cambia. Ed è la ragione, credo, che ha portato Antonella Ferrera a far diventare le loro storie un libro. In questo mondo a parte per molte di loro, sembra assurdo dirlo, comincia una vita migliore di quella che hanno fatto fino a quel momento perché tra liti e battibecchi prende corpo anche una strana solidarietà fatta di ricordi, di nostalgie, di amori perduti e di possibili progetti futuri. Ed è importante dar voce a queste carcerate e alle loro vite perché ci fanno capire quanto poco conosciamo di chi viene chiuso in galera e del mondo di degrado, povertà, ignoranza che si portano dietro.



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