Da Trieste ad Atene, così l’Europa viola ogni diritto dei migranti

Respingimenti al confine con l’Italia. Persone catturate in Bosnia e deportate in Croazia e poi in Grecia. Da lì, rimpatriate nei Paesi di origine.

Valerio Nicolosi

Si è parlato tanto di Rotta Balcanica nei mesi scorsi: l’incendio del campo di Lipa, la neve e il freddo ad aggravare una crisi umanitaria già drammatica in precedenza ha portato l’attenzione dei media internazionali. Con l’arrivo della primavera e altre priorità in politica estera, l’attenzione è scemata, ma il dramma umanitario continua a consumarsi e in realtà sembra sia sempre peggio.

Claudia Vitali, operatrice di Mediterranean Hope, si trova in Bosnia da due mesi e racconta a MicroMega che “la situazione è sempre drammatica, stanno arrivando nuove persone e l’idea delle autorità bosniache è quella di convertire Lipa da un campo temporaneo a permanente”. Lipa si trova a mezz’ora di macchina da Bihac, la città più vicina, ed è stato costruito su di un altopiano isolato, un luogo poco ospitale per la vita umana. “Stanno chiudendo il campo di Miral, a Velika Kladusa, quindi probabilmente anche quelle persone saranno spostate a Lipa” aggiunge l’operatrice di Mediterranean Hope che chiosa: “Nei giorni scorsi sono spuntate anche delle tende da campeggio davanti l’ingresso di Lipa, dove dormivano delle famiglie”.

Droni, termo scanner, teaser e dal 2022 un grande database di dati biometrici per schedare i cittadini non comunitari sono gli investimenti che stanno rendendo sempre più impenetrabile la “Fortezza Europa” anche grazie al ruolo di Frontex che, come ha riportato il The Guardian, dal 2005 al 2021 è passata da 6.3 miliardi di euro di budget a 420.6 miliardi.

I sistemi di sicurezza riescono a intercettare le persone anche di notte e a oltre un chilometro di distanza: è quasi impossibile scappare da questa rete di controllo. Le autorità governative dei singoli Paesi non si limitano a intercettare ma anche a respingere le persone oltre la frontiera, consegnandole alla polizia dello stato confinante. Spesso questo meccanismo è “a catena”: chi arriva in Slovenia viene consegnato alla Croazia, che a loro volta li porta in Serbia, che li consegna alla Macedonia e da lì in Grecia. Tutto al massimo in tre o quattro giorni, senza nessuna firma di documenti che attestano il passaggio dei confini.

Mohammed è afghano, è scappato a 12 anni in Iran dopo che i Talebani hanno ucciso i suoi genitori e da quando ne ha 18 è in viaggio verso il Nord Europa. Da pochi giorni si trova ad Atene, dove è arrivato proprio dopo un respingimento di questo tipo: Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia e alla fine Grecia. Un sistema che da più di un anno veniva utilizzato dalle autorità italiane, slovene e croate si è ora perfezionato lungo tutta la rotta balcanica. Un tragitto di circa duemila chilometri, percorso a piedi in diverse settimane, a volte mesi se calcoliamo i necessari momenti di stallo e riposo tra una tappa e l’altra. “Vivo in un parco ad Atene, non ho nulla con me perché la polizia croata mi ha levato tutto” ci racconta Mohammed che ha provato il “game” – come viene chiamato il tentativo di arrivare in Italia – più di venti volte ed è sempre stato respinto. “Una volta ero a pochi chilometri da Trieste, ero arrivato, ma poi l’esercito italiano mi ha preso proprio sul confine e sono stato portato indietro. In poche ore ero di nuovo in Bosnia.

Se questa prassi si dovesse confermare, i respingimenti a catena rischierebbero di portare da Trieste a Idomeni o altri luoghi in Grecia in poche ore, costringendo le persone a rimettersi in viaggio e caricando la Grecia di tutte le persone che entrano dalla Turchia, senza una soluzione che coinvolga gli altri Paesi membri dell’Unione Europea.

Ed è proprio la Grecia a essere in difficoltà nonostante gli accordi con la Turchia limitino l’arrivo delle persone nel paese ellenico. Dall’aprile dello scorso anno gli arrivi sono diminuiti drasticamente: il Covid ha rallentato le rotte migratorie, ma è il rinnovo degli accordi con Erdogan ad avere portato i suoi frutti, dopo che la Turchia, a cavallo tra febbraio e marzo del 2020, aveva aperto le frontiere e fatto ammassare migliaia di persone al confine di Kastanies, lungo il fiume Evros.

Secondo i dati UNHCR nel 2021 sono arrivate in Grecia 2157 persone, di cui 1.179 via terra e 978 sulle isole del Mar Egeo.
Le persone respinte dalla guardia costiera turca sono 1479, più di quelle arrivate via mare.

Con i respingimenti a catena il governo di Atene non deve solo gestire i nuovi arrivi come primo Paese europeo ma pur sempre di transito, ma anche tutte le persone respinte e teoricamente costrette a restare in Grecia per via del Trattato di Dublino che prevede la richiesta di asilo solo nel primo paese d’approdo in Europa. Così il governo di destra presieduto da Mītsotakīs ha portato avanti la linea dura che aveva promesso in campagna elettorale: da un lato ha rafforzato le frontiere, anche grazie al supporto dell’agenzia di controllo delle frontiere europee “Frontex”, dall’altro sta portando avanti una campagna di respingimenti e rimpatri, giustificati dall’alto tasso di rigetti delle domande di asilo da parte delle stesse autorità elleniche.

“Sono venuti nella mia tenda all’alba, ero al campo di Salonicco e mi hanno portato prima a Alexandropoulos e poi oltre il confine, ora sono a Istanbul, in Turchia, dove ero passato un anno e mezzo fa” ci racconta Khaled, un giovane iracheno respinto dalla Serbia pochi mesi fa e in attesa di giornata più calde e lunghe per mettersi di nuovo in cammino.

I rimpatri invece sono solo su base volontaria ma spesso di volontario c’è poco. Alcune persone denunciano di essere state fermate dalla polizia e dopo alcune ore di detenzione hanno dovuto firmare un documento, ma senza sapere di cosa si trattasse. Dopo poche ore, sono stati messi su un aereo e rimpatriati grazie al progetto dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni.

Navid è stato preso dalla polizia greca in strada e deportato in Pakistan senza che nessuno gli dicesse nulla. “Ero in strada, mi hanno fermato e portato prima in un commissariato poi in un centro per migranti. Ho firmato un documento senza che sapessi di cosa si trattasse. Dopo qualche giorno, mi hanno messo su un aereo”. La storia di Navid è una di quelle che può accadere solo in questo tipo di Europa, barricata dentro i propri confini. Navid arriva minorenne in Grecia dopo un lungo viaggio dal Pakistan. In Grecia c’è il papà che lavora da qualche tempo e ha i documenti in regola. Lui prova a raggiungere la Germania, si mette in viaggio e arriva fino alla jungle di Vujak, vicino la città di Bihac, nell’estate del 2019. Prova il “game”, il percorso dalla Bosnia a Trieste, più e più volte e alla fine dopo numerosi respingimenti e tante botte da parte della polizia croata decide di tornare in Grecia, dove può avere i documenti e stare con il padre. I documenti non arrivano, intanto cerca lavoro ma a metà gennaio 2021 incontra la polizia e il 21 dello stesso mese viene rimpatriato.

“Non voglio fare ricorso, sono stanco, ho viaggiato per 14 paesi e non ho voglia di rimettermi in marcia per poi essere rimandato indietro” racconta Navid, ormai in Pakistan e rassegnato.

[Foto di Valerio Nicolosi]

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