Sui bambini e le dittature. Una testimonianza

“Un bambino può essere felice anche in una dittatura”. Perché la versione della pace suggerita da Alessandro Orsini non è altro che complicità.

Martin Gak

Fra le tante esternazioni di Alessandro Orsini delle ultime settimane – qualcuna anche corretta – ce n’è una che ho trovato abominevole: quella pronunciata a inizio aprile, quando il professore ha affermato che “un bambino può essere felice anche in una dittatura”. Una frase che risuona da settimane nella mia testa, mentre i cadaveri dei bambini ucraini continuano ad accumularsi.
A differenza di Orsini, io sono cresciuto in una dittatura. Ero un bambino ebreo nell’Argentina a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, e ho ancora impresse le vivide immagini della paura e del senso d’impotenza dei miei genitori di fronte al terrore del governo militare e quelle raccontate dalla generazione dei miei nonni di fronte all’antisemitismo assassino europeo. No, non tutti i bambini vivono felici in una dittatura in primo luogo perché non tutti i bambini sopravvivono.

Il sentimento che domina nei miei ricordi infantili è la paura. Non che non rammenti il gioco, le risate, la gioia e l’amore. È solo che su tutte queste cose grava un’ombra, il senso di una minaccia imminente. Ero certamente troppo giovane per riconoscere la minaccia diretta a me, ma ricordo che intorno al 1984, quando i rapporti sulle violazioni dei diritti umani iniziavano a inondare gli schermi e l’etere anche in Argentina, il senso di quella che oggi chiamerei inquietudine – allora non conoscevo il termine – mi faceva piangere di notte immaginando i miei genitori portati via in un’oscurità che nella mia testa assumeva i contorni di una profonda cavità nel terreno.

I miei genitori avrebbero potuto essere facilmente degli obiettivi, anche se non lo sono stati. Quello che non capivo allora è che anche io avrei potuto essere un obiettivo. Sono stati molti, dopo tutto, i bambini strappati ai genitori: questi ultimi destinati al fiume o alla fossa comune, i primi affidati a famiglie le cui inclinazioni ideologiche si accordavano con Videla, Galtieri e la Chiesa cattolica apostolica romana che si pose al loro servizio.

Con gradi diversi di brutalità, l’appropriazione di bambini che iniziava con i rapimenti e finiva con la soppressione di intere biografie, non era un orrore riservato all’Argentina. La Germania nazista aveva preso i figli degli oppositori ai nazisti per una “germanizzazione”. In Spagna, la dittatura di Franco rapì più di 250 mila bambini dai loro genitori repubblicani. L’Australia ha visto varie generazioni di bambini aborigeni strappati alle loro famiglie a scopo di rieducazione. Il Canada ha condotto programmi simili nell’ambito dei quali, nel corso di un secolo, circa 150 mila bambini sono stati canadesizzati. Anche la Ddr ha avuto un analogo programma negli anni Settanta, che la signora Honecker (prima della sua morte in Cile) ha ammesso e difeso. Più recentemente, la Cina ha usato questa stessa tecnica per formare nello Xinjiang una generazione fedele al governo, quello che molti ritengono un progetto di fatto genocida contro genitori e familiari di questi bambini.

E questi sono i fortunati. Ma ci sono anche bambini che sono stati molto meno fortunati, e l’Italia dovrebbe averne chiara memoria. Per esempio quelli che gente come Giorgio Almirante dalle pagine di La Difesa della Razza aiutò a spingere nei treni italiani per spedirli nelle camere a gas in Polonia.

L’ultima aggiunta al catalogo sono gli emissari di Putin in Ucraina. L’appropriazione da parte russa di bambini ucraini è stata documentata. Il governo ucraino ha affermato che più di 100 mila bambini ucraini sono stati trasferiti con la forza in territorio russo e, all’inizio di aprile, la Russia stava accelerando sulla legislazione per facilitare l’adozione di quelli che sostiene siano orfani.

Senza dubbio molti di questi bambini hanno avuto e avranno giorni di risate, di gioco, di amore e persino di gioia. È vero: questi bambini, per i quali il ricordo delle loro case e dei genitori che li amavano diventerà a poco a poco sbiadito, potrebbero avere quella che, con molta buona volontà, si potrebbe chiamare un’infanzia felice.

Ma a cosa serve questa misera felicità? Cos’è esattamente che una tale affermazione vuole rendere accettabile? Cos’è che dovrebbe scusare l’enfasi su quelle forme di misera felicità, su quei giochi e su quelle tracce di gioia lasciate sulla scia del più sinistro degli orrori?

L’enfasi su quelle gioie serve forse, in modo consapevole o meno, a discolpare gli autori di quegli orrori? O forse l’elogio della pace la cui sostanza è il riposo del mutilato, il sonno solitario della vedova e il tenue sorriso dell’orfano serve innanzitutto a scusare il proprio stesso consenso di fatto all’omicidio, allo stupro, alla tortura, al rapimento, al saccheggio e alla distruzione degli ucraini per mano degli invasori russi? La versione della pace suggerita da Orsini consiste né più né meno che nel privare della difesa il bambino sotto l’artiglieria russa. Non è che complicità.

Orsini e quella parte della sinistra che ha passato decenni a coltivare profondi sospetti nei confronti della benevolenza americana e della Nato, molti dei quali ammetto di condividere, commettono un errore fatale e imperdonabile quando leggono il conflitto attuale nell’ambito di una teoria dei due diavoli. Quando Orsini ha detto a Piazza Pulita “se Putin è uno schifoso, tra schifosi possiamo intenderci” ha completamente frainteso – e questo non può che essere il prodotto di una mente annebbiata – le parti in conflitto.

Dall’altro lato dei cannoni russi, infatti, non c’erano gli Usa o la Nato. C’erano, e ci sono tuttora, i bambini ucraini. Una chiara comprensione della brutalità a cui sono sottoposti quei bambini che Orsini suggerisce potrebbero avere un’infanzia felice crescendo in una nuova gubernija russa dovrebbe bastare a imporre il senso della più assoluta delle urgenze. La gravità della situazione è tale che non dobbiamo cercare quanti sono liberi da peccati. Non abbiamo bisogno di santi. I precedenti morali di coloro che sono capaci e disposti a fermare queste atrocità sono, almeno per il momento, irrilevanti.

Ho già visto altre varianti di questa pacifista neutralità orsinesca. Nell’Argentina della fine degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta aveva un’articolazione molto specifica. La frase “por algo será” – ci sarà una ragione – era il mantra che veniva ripetuto di fronte alle denunce di sparizioni e che all’indomani della repressione divenne la caricatura del silenzio civile che si schiera con il carnefice. Questa voce non aveva nemmeno la decenza di osare essere cattiva. Il suo particolare tipo di infamia consisteva nel voler a tutti i costi rimanere dalla parte dei buoni. Da qualche parte nella sua opera, Emmanuel Lévinas dice che il male è la giustificazione della sofferenza degli altri.

In effetti, ciò che il caldo sole di Roma o le luci accese dello studio televisivo potrebbero nascondere alla vista di Orsini è che il suo racconto dei due mali non è altro che una spudorata seppur studiata e curata traduzione accademica del “por algo será” e la sua apologia dell’infanzia all’indomani dell’orrore la giustificazione della sofferenza attuale degli altri. Pagare la pace con il sangue degli altri è immorale, anche quando presentato come virtuoso.

Certamente, il pericolo di un’escalation del conflitto non è sfuggito a nessuno. Ma, mentre a volte un grande pericolo richiede prudenza, ci sono forme di oltraggio che richiedono coraggio. E in questi ultimi casi, la mancanza di coraggio non è altro che complicità.

 

(credit foto Henning Kaiser/dpa)



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