Baruffe tra economisti: la questione climate change

Troppa parte della recente teoria economica ‘matematica’ è pura manipolazione, imprecisa quanto i presupposti iniziali sui quali riposa.

Pierfranco Pellizzetti

«Troppa parte della recente teoria economica
‘matematica’ è pura manipolazione, imprecisa
quanto i presupposti iniziali sui quali riposa,
che permette all’autore di perdere di vista la
complessità e le interdipendenze del mondo reale
in un dedalo di simboli pretenziosi e inutili»[1].
John Maynard Keynes
«Tutte le professioni tecniche sono incentivate
ad apparire più complicate di quanto siano
davvero, in modo da giustificare gli elevati
compensi richiesti per i loro servizi»[2].
Ha-Joon Chang
Steve Keen, L’economia nuova – Moneta, ambiente, complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi, Milano 2023<
William D. Nordhaus, Spirito green, il Mulino, Bologna 2022

Economia, scienza o genere letterario?
La maschera sul volto della “triste scienza”, tradizionale simbolo di autorevolezza e rigore, venne strappata da un’anziana signora del tutto digiuna in materia. Fu quando la regina Elisabetta – nel novembre del 2008, in pieno terremoto finanziario mondiale – presenziò all’inaugurazione di una nuova sala nella London School of Economics e, approfittando della presenza del Gotha degli economisti britannici, rivolse loro una domandina semplice, semplice: “com’è possibile che nessuno si sia accorto che stava arrivandoci addosso questa crisi spaventosa?”. Magagna inaggirabile, giunta fino all’estrema periferia dell’Occidente, coinvolgendo persino sussiegosi docenti della Bocconi; come ci ha raccontato il giornalista economico Roberto Petrini: «contrapponendo le analisi di Marco Vitale, economista eterodosso, a quelle dei bocconiani doc Francesco Giavazzi e Alberto Alesina. Il primo allarme di Vitale è addirittura del 25 luglio del 2006, pubblicato da Finanza & Mercati e si intitola eloquentemente Via dall’America prima che sia troppo tardi[3]. A cui Alesina risponde su La Stampa del 20 agosto 2007 che “quella in atto è una correzione come ce ne sono state altre. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla”. Preceduto il 4 agosto da Giavazzi su il Corriere della Sera: “la crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata”.

Difatti gli errori di previsione compiuti in quell’anno orribile resteranno nella storia, sebbene la riflessione critica sull’oggettività dell’economia attraversi l’intero Novecento. Ad opera di grandissimi pensatori controcorrente come Albert Hirschmann, il quale metteva alla berlina le pretese scientifiche dei suoi colleghi: “troppo spesso essi soffrono tuttora di quella che gli economisti, per una volta sotto l’influenza di Freud, hanno chiamato ‘l’invidia della fisica’, ossia l’impulso a descrivere il mondo sociale ed economico mediante un sobrio e trasparente sistema di equazioni. Per le scienze sociali, è un’eredità che risale alle loro origini e alla loro storia: esse sono ritardatarie, e nacquero quando il prestigio delle scienze naturali, e soprattutto della fisica newtoniana era enorme”[4]. E già, prima di lui, aveva indicato l’approccio corretto John Maynard Keynes, che in un saggio del 1926 – La fine del laissez faire – invitava a liberarsi dei dogmi relativi alla capacità di autoregolarsi del capitalismo. “Sgombriamo il campo dai principi metafisici sui quali, di volta in volta, è stato fondato il laissez-faire. Non è vero che esiste una legge della ‘libertà naturale’ degli individui nelle attività economiche. Non vi è nessun ‘contratto’ che conferisca diritti perpetui a coloro che hanno o che acquisiscono. Il mondo non è governato dall’alto in modo che l’interesse privato e l’interesse sociale coincidano sempre. Non è una corretta deduzione dai princìpi della scienza economica che l’interesse personale illuminato operi sempre nell’interesse pubblico”[5].

Solo vent’anni più tardi lo storico ungherese dell’economia Karl Polanyi non si limitava a ribadire la “fallacia” dell’utopia del mercato che si autoregola; prendeva di petto anche il pensiero accademico in materia di lavoro: “la natura utopistica di una società di mercato non può essere invero meglio illustrata che dalle assurdità nelle quali la comunità è coinvolta dalla finzione del lavoro come merce”[6].
Forte di questi autorevolissimi precedenti, Steve Keen, eterodosso docente alla Western Sydney University (e uno dei pochi a preconizzare per tempo l’arrivo dell’orribile 2008), intraprende una sorta di sfida all’OK Corral con il pensiero economico mainstream – o meglio, neoclassico; in perfetta sintonia con la collana Rethink di Meltemi, inaugurata dal suo saggio.
Dunque, falsificando popperianamente l’assunto su cui si basa la presunta oggettività dell’ortodossia accademica; per cui «quella economica non è una scienza». Smentita che tira in ballo un altro celebre epistemologo, Thomas Kuhn: “come illustra Kuhn, una scienza, per essere veramente tale, attraversa periodi in cui il paradigma dominante viene messo in discussione ed è soggetto al cambiamento, attraverso una transizione dalla ‘scienza normale’ a una rivoluzione scientifica. […] L’economia, invece, pur avendo vissuto molteplici crisi teoriche ed empiriche da quando la scuola neoclassica è diventata dominante negli anni Settanta dell’Ottocento, non ha mai vissuto una rivoluzione paradigmatica anche solo lontanamente comparabile al salto dall’astronomia tolemaica a quella copernicana” (S. K. Pag. 25).
Ergo, una pretesa destituita di fondamento, se per scientifica s’intende l’esplorazione dei fenomeni in base al criterio congetture/confutazioni, proprio delle discipline della natura, per ricavarne anche quelle capacità predittive disastrosamente assenti nel fatidico 2008. Con le parole dello stesso Kuhn, “la scoperta scientifica comincia con la presa di coscienza di un anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale”[7]. Mentre, a fronte dell’anomalia chiamata crisi, nella prospettiva neoclassica l’unico suggerimento di politica economica imperante è non fare nulla; giustificato facendo “propria l’idea di Nassim Taleb del ‘cigno nero’, per sostenere che crisi economiche tipo Grande recessione siano impossibili da prevedere” (S. K. Pag. 79).

Potere accademico, potere tout court
La presa di coscienza dell’inadeguatezza dei guardiani accademici dell’ordine economico vigente da parte di Keen, nasce dalle conseguenze di uno scontro – tanto teorico che politico – avvenuto nell’ultimo quarto del secolo scorso. Questo è evidenziato dal raffronto del caso italiano con quello statunitense: “prima che i tecnocrati neoclassici strappassero le redini del potere ai burocrati keynesiani del secondo dopoguerra, ingiustamente screditati, la crescita economica reale dell’Italia aveva sì degli alti e bassi, ma era sostanzialmente più alta di quella USA. Quando gli economisti neoclassici hanno incominciato a mettere in discussione le politiche keynesiane, il tasso di crescita in entrambi i Paesi ha iniziato a cadere” (S. K. Pag. 8).
Ossia la restaurazione del laissez-faire mercatista a spese del paradigma keynesiano – frame teorico e via d’uscita pratica dalle contraddizioni del capitalismo, prima attraverso il New Deal roosveltiano degli anni Trenta, poi con la costruzione del Wefare State nel quarto di secolo tra il 1945 e il 1973: i “Trenta gloriosi”, che lo storico Eric Hobsbawm incoronò a “età dell’oro”. Manovra regressiva, portata a compimento scatenando i feroci mastini Milton Friedman e Frederich Hayek; la loro invidia da parvenu, scagliata contro la ragione scevra da bias della mente applicata alle scienze umane probabilmente più insigne del XX secolo: John Maynard Keynes.

Dunque l’operazione politica avviata con la svolta delle democrazie occidentali grazie all’avvento contro-rivoluzionario del Duo Reagan-Thatcher, fermamente interessato a smantellare il sistema dei diritti e delle pratiche inclusive dei decenni precedenti; quando – per dirla ancora con Hirschman – pareva immodificabile “il carattere ostinatamente progressista dell’epoca moderna”[8]. Dal punto di vista del pensiero economico, tale operazione consistette nel riportare in auge un apparato teorico di stampo ideologico: quella scuola neoclassica che un secolo prima aveva soppiantato la teoria economica classica (Adam Smith, David Ricardo e – magari – Karl Marx) grazie al sostegno dei rapporti di classe già allora prevalenti nella società borghese e alla capacità di arruolamento negli ambienti accademico-universitari. Nel primo caso “il fatto che la teoria neoclassica sostenga esplicitamente gli interessi padronali attraverso una teoria della distribuzione del reddito fondata sul merito ha giocato un ruolo fondamentale nel consolidarne la posizione dominante” (S. K. Pag. 27). Sicché le vennero messi a disposizione centri studio ben finanziati per promuovere la sua analisi del capitalismo e farle acquisire una posizione dominante nel discorso collettivo sull’economia. Per cui “il fondamentale ruolo ideologico della scuola si traduce nel fatto che essa non può non essere difesa vigorosamente, neanche quando è contraddetta dalla realtà su quale sia la vera natura del capitalismo” (S. K. Ivi). Dunque un dogma, con i suoi ferventi fedeli e adepti. Anche perché – e qui veniamo al secondo aspetto – la certezza promossa dall’ortodossia svolge l’importante funzione del rassicuramento. Come scrive il nostro Keen, “questa immagine di un sistema di mercato auto-regolantesi e auto-stabilizzantesi è una potentissima àncora cognitiva ed emotiva” (S. K. Pag. 22). Per i giovani economisti, la via maestra per una carriera di successo. Il meccanismo psicologico, quale viatico all’arrampicata sociale, efficacemente descritto dal sociologo di Berkeley Manuel Castells: “il dominio sociale reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale in grado tale che il possesso di tali codici apre l’accesso alla struttura del potere senza che sia necessaria una cospirazione dell’élite per bloccare l’accesso alle sue reti”[9].

Con l’inevitabile contropartita della rinuncia allo spirito critico, che determina l’immediata rimozione negazionista di quanto nella realtà contraddice il dogma: l’incomprensione del ruolo della moneta e di quello creativo del credito, l’abolizione del concetto di classe e – di conseguenza – quello disturbante del conflitto di classe, la tendenza a ignorare le questioni del potere e della distribuzione del reddito; in primo luogo la visione del capitalismo come utopia raggiungibile solo nell’equilibrio (S. K. Pagg. 179-180). Il tutto assemblato in una sorta di religione secolare che ottunde come atto di fede l’idea blasfema di ricorrenti rotture nell’ordine capitalistico. Mantenendo sempre l’imperativo dell’ortodossia economica mainstream, ostinatamente privatistica, di procedere alla marginalizzazione dello Stato (secondo lo slogan reaganiano che “lo Stato è il problema, non la soluzione”). Per cui la risposta che viene data alla catastrofe annunciata dell’antropocene (la messa a repentaglio della biosfera ad opera delle devastazioni prodotte dall’azione umana) è in perfetto capitalismo WOKE[10]. Le imprese, soprattutto i colossi multinazionali, si facciano carico a livello di dichiarazioni di sentimenti della questione sociale (sfruttamento, emarginazione, disuguaglianza) – ossia l’ostentazione della propria anima bella come accreditamento presso le masse di consumatori – purché venga immediatamente rimossa la questione politica: il compito pubblico della politica di affrontare le cause dell’ingiustizia in aggravamento.
Una rimozione oscurantista che rende impossibile concepire quella sorta di eresia rappresenta dalla crisi, ossia il manifestarsi dell’instabilità che smentisce il mito fideistico dell’equilibrio sistemico intangibile. E qui arriviamo all’oggi e alle sue minacce incombenti. Per cui, “se la macroeconomia neoclassica ha fallito nel prevedere lo stato di salute dell’economia mondiale nel 2007, la sua analisi dei cambiamenti climatici si rivelerà una previsione ancora peggiore del futuro prossimo. Purtroppo, però, a differenza della mancata previsione della grande crisi finanziaria, non si può attenuare con politiche economiche di buonsenso l’errore previsionale sugli esiti del cambiamento climatico” (S. K. Pag. 157). Insomma, l’intera umanità è destinata ad affrontare una sorta di battaglia finale per la sopravvivenza. E la predicazione neoclassica rende complesso maturare la necessaria consapevolezza.

Il dibattito sul climate change, quasi un’ordalia
Nello scontro che va profilandosi, Keen individua il proprio avversario intellettuale nel campione della scuola ortodossa, il propagandista di uno spirito green mistificatorio.
Colui al quale “gli economisti ortodossi hanno ritenuto di dare il premio più prestigioso della loro disciplina, l’ingannevole ‘Premio della Banca di Svezia per la Scienza Economica in memoria di Alfred Nobel’, al principale esponente di questo programma di ricerca così deludente, William Nordhaus” S. K. Pag. 34). Ossia il vincitore del cosiddetto premio Nobel per l’economia (quando – ci ricorda Emiliano Brancaccio – Alfred Nobel “aveva più volte confessato di odiare con tutto il cuore le discipline economiche”[11]), Sterling Professor of Economics alla School of the Environement di Yale; il quale gioca una subdola partita operando gesuiticamente in partibus infidelium: simulare condivisione di quanto denuncia la ricerca scientifica, minimizzandone la portata. Espressione dell’inveterata disonestà che ha pervaso lo sviluppo dell’economia neoclassica, l’ipotesi di Nordhaus “secondo cui l’87% del PIL americano è generato da settori che sono interessati in maniera trascurabile dal cambiamento climatico”[12]. Tesi che riprenderà nel suo saggio del 2021 ammantato di insincerità “verde” e di altrettanto finte preoccupazioni per la salvezza del pianeta. Dietro le quali aleggia la tutela degli stessi interessi di mercato che hanno determinato l’urgenza della transizione: “l’incentivo più efficace per indurre questa transizione è un costo alto del carbonio. Alzarne il prezzo ci farà raggiungere 4 obiettivi. In primo luogo, segnalerà ai consumatori quali sono i beni e servizi che debbono essere usati con parsimonia. Poi fornirà dei dati ai produttori, che sapranno quando il tipo di energia che usano è low-carbon. Il terzo risultato sarà l’introduzione di incentivi di mercato rivolti a investitori, innovatori e banche di investimento. E infine permetterà di economizzare nella raccolta di informazioni necessarie per portare a compimento questo processo” (W. N. pag. 335). Ragione in più per spezzare l’ennesima lancia contro l’intervento regolatore dello Stato: “può essere necessario che le maggiori società d’affari e altre istituzioni private subentrino allo Stato per sopperirne le carenze. Una novità importante è la responsabilità sociale delle corporation” (W. N. pag. 33).
A fronte di questo insensato balletto sulla tolda del Titanic, Steve Keen non può che avanzare l’istanza di un’economia nuova, destinata ad assumere un profilo radicalmente diverso da quello in cui gli adepti della religione economica ortodossa avevano prosperato. Per cui, “il sistema sociale che ci farà sopravvivere a questa prova se riusciremo a sopravvivere – sarà molto più vicino a un’economia pianificata che a un’economia di mercato” (S. K. Pag. 195). Del resto, se quella per salvare ambiente ed umanità si prefigura come un conflitto, ritorna valido l’insegnamento del Novecento con le sue economie militarizzate all’opera durante in Europa la Guerra dei Trent’anni: l’inevitabile ricorso alla logica dirigista condivisa dalla popolazione, insieme alla fiducia nel ruolo regolativo dello Stato. Sicché lo storico anglo-americano Tony Judt poteva annotare che «due guerre avevano abituato quasi chiunque all’inevitabilità dell’intervento pubblico nella vita di tutti i giorni»[13]. E Karl Polanyi aveva già a suo tempo precisato che «il Regno Unito durante la guerra ha introdotto una generale pianificazione dell’economia, eppure le libertà pubbliche non sono mai state coì protette»[14].

[1] John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta, Utet, Torino 1971 pag. 490

[2] Ha-Joon Chang, Economia, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 12

[3] Roberto Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009 pag. 34

[4] Albert O, Hirschmann, Autosovversione, il Mulino, Bologna 1997 pag. 171

[5] John M. Keynes, Sono un liberale? Adelphi, Milano 2010 pag. 218

[6] Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974 pag. 290

[7] Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978 pag. 76

[8] Albert O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, il Mulino, Bologna 1991 pag. 19

[9] Manuel Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2001 pag. 477

[10] Carl Rhodes, Capitalismo WOKE – come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi, Roma 2023

[11] Emiliano Brancacco, Il discorso del potere, il Saggiatore, Milano 2019 pag. 17

[12] William D. Nordhaus, “To Slow or not to Slow: The economics of the Greenhouse Effect”, The Economic Journal 991

[13] Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari pag. 43

[14] Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente, il Saggiatore, Milano pag. 189



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