In Bosnia-Erzegovina torna lo spettro del separatismo

Nel paese dilaniato trent’anni fa da una guerra fratricida si riacutizzano tensioni mai del tutto sopite. Nel preoccupante silenzio della Comunità internazionale.

Andrea Caira

Prologo della crisi istituzionale
Dall’altra parte dell’Adriatico, sopra il cielo della Bosnia-Erzegovina, nuvole cariche di tetri presagi sembrano invadere l’orizzonte riacutizzando tensioni mai del tutto sopite. Nonostante ciò, il fattore che desta maggiori preoccupazioni è l’ingombrante silenzio della Comunità internazionale.
Ormai da diversi mesi le relazioni tra gli esponenti delle entità nazionali maggioritarie (bosgnacchi, serbi-bosniaci e croati-bosniaci) sono attraversate dei momenti di profonda crisi, suscitando legittimi dubbi sul prossimo futuro nazionale. Lo spettro del separatismo sembra ormai essere ritornato all’ordine del giorno, mentre le rivendicazioni d’autonomia invadono le tribune politiche e le colonne dei giornali.

Quest’ultima crisi trova il suo momento generativo nella passata primavera, quando tra le cancellerie e le ambasciate europee ha iniziato a circolare un documento denominato NoPaper. Il piano proponeva di dirimere la questione bosniaca attraverso la finale sparizione territoriale tra Serbia e Croazia. Il documento, presumibilmente prodotto tra la Slovenia e l’Ungheria, premiava le logiche predatorie dei nazionalisti della Republika Srpska (RS, una delle due Entità che compongono la Bosnia) e di quelli arroccati nell’Erzegovina sponda cattolica. Come la luce prodotta da un fiammifero, la discussione in merito al documento è stata breve, caotica e, soprattutto, arcionata unicamente al mondo balcanico. In maniera frettolosa gli esecutivi dell’Europa centrale hanno archiviato la proposta, tornando a concentrarsi sulle problematiche suscitate dalla pandemia. La Bosnia poteva attendere. Il documento è finito in cavalleria, ma ha prodotto degli elementi su cui riflettere: in primo luogo è stato un termometro con cui le coalizioni nazionaliste locali hanno potuto misurare la fermezza dell’Unione Europea rispetto al caso.

Ossigeno e memoria

La seconda e la terza tappa di questa crisi si sono sviluppate in maniera coeva e sono state abilmente strumentalizzate dal leader dei serbi-bosniaci e membro della Presidenza collegiale, Milorad Dodik (Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti – SNSD). Sul finire dello scorso luglio, i rappresentanti del partito di Dodik hanno deciso di boicottare le elezioni politiche conducendo la nazione in uno stato di paralisi e inasprendo ulteriormente i rapporti con la Federazione (FBiH, l’altra Entità bosniaca). Pomo della discordia è stato il decreto introdotto dall’ex Alto Rappresentante Valentin Inzko che rende punibili dalla legge i negazionisti del genocidio e dei crimini annessi. La risposta della SNSD non si è fatta attendere e oltre al sabotaggio delle funzioni elettive dello Stato, ha investito con critiche la figura dell’Alto Rappresentante identificandolo come espressione di un potere neocoloniale.

L’altro elemento su cui Dodik ha fatto leva si colloca sul finire dell’estate, quando alcuni media locali hanno riportato la notizia che ai pazienti ricoverati negli ospedali in Republika Srpska sarebbe stato somministrato ossigeno industriale al posto di quello medicale. Lo scandalo ha scosso profondamente l’immaginario pubblico costringendo le autorità serbo-bosniache a esporsi puntualmente per rigettare le accuse mosse nei loro confronti. Con abilità da demagogo consumato, Dodik, è riuscito a ribaltare la situazione risignificando l’accaduto: ha accusato le autorità della FBiH di voler gettare ombre sulla figura della RS nello spazio pubblico, di aver sabotato volutamente l’erogazione dei medicinali e, infine, ha focalizzato nell’Agenzia del Farmaco della Bosnia-Erzegovina il nucleo costitutivo dell’incidente, accusando la dirigenza connivenza con le istituzioni centrali. Dopo una pletora di recriminazioni reciproche, Dodik ha sfruttato la stasi politica per dichiarare l’inizio di un processo di riappropriazione e internalizzazione di alcuni organi gestiti centralmente. Una postura che difficilmente è riuscita a dissimulare i reali obiettivi della SNSD. Infatti, le rivendicazioni hanno interessato anche la rimodulazione della struttura giudiziaria, tributaria e, logicamente, militare. I nazionalisti serbi, sostanzialmente, chiedono di risignificare e costituzionalizzare l’Armata della Republika Srpska (VRS), responsabile di diversi crimini di guerra nel 1992-95, e di disarcionarla dalle Forze armate bosniache unificate nel 2005. Se ciò avvenisse significherebbe affrontare una devastante involuzione nel processo di pacificazione e di rigenerazione socioculturale nazionale.

In ambedue i casi il silenzio della comunità internazionale ha accompagnato l’evolversi delle questioni, relegando a un piano ancillare le sorti di una nazione che, dopotutto, solamente trent’anni fa è stata dilaniata da una guerra fratricida e, ancora oggi, paga socialmente il peso di un processo di metabolizzazione e di riconoscimento reciproco mancato; dove la memoria, più che come strumento aggregativo-rappresentativo viene utilizzata come corpo contundente con cui decostruire quella dell’altro.

L’inasprimento della crisi

Le solenni condanne mosse dall’Alto rappresentante Inzko e del suo successore Christian Schmidt nei riguardi della RS si sono rivelate delle frecce spuntate. Dodik e i suoi fedeli hanno così deciso di inasprire ulteriormente i rapporti centro-periferia arrivando ad annunciare nel passato ottobre, in occasione della seduta del Comitato centrale dell’SNSD per il trentesimo anniversario della costituzione dell’Assemblea del popolo serbo di Bosnia Erzegovina, una campagna per il ripristino “nel quadro dei principi costituzionali e di Dayton” delle competenze della Republika Srpska. I delegati per il popolo serbo di Bosnia hanno dichiarato di voler sospendere i circa 140 decreti legislativi emanati dall’Alto rappresentante durante il suo mandato, lanciato una chiara sfida alla Comunità internazionale. L’intenzione sembrerebbe essere quella di volere innescare delle dinamiche bioscissioniste: ovvero che si autoregolino e si riproducano dall’interno, seguendo i criteri imposti dal potere locale (nazionalista).

D’altronde, l’avversione di Dodik verso la figura dell’Alto rappresentante è emersa chiaramente anche nelle colonne che la Repubblica ha deciso di dedicargli il passato Primo dicembre, intervistandolo e premiando, forse, più la sensazionalità-divulgativa della notizia che la sua comprensione. “Per 26 anni” dice il leader serbo-bosniaco, “l’interventismo della Comunità internazionale, esercitato attraverso l’Alto Rappresentante e tre giudici della Corte costituzionale, ha distrutto la Costituzione cedendo un sistema illegale. La Bosnia-Erzegovina può sopravvivere se ritorna alla Carta scritta nel 1995”. In pratica, sostiene Dodik, l’esistenza stessa della nazione è legata a un paradosso spartitorio. La Bosnia potrebbe esistere solamente se venissero cancellati gli emendamenti che hanno contribuito a rigenerare la convivenza durante gli ultimi 25 anni, ovvero se si ritornasse entro il perimetro d’eccezione imposto dalle lotte intestine dei mini-nazioni. La Bosnia esisterebbe solamente come paradosso.

Tra vecchi e nuovi scenari

“Se la Bosnia non risolverà i problemi” ha assicurato il politico serbo-bosniaco sempre al giornalista italiano, “la secessione potrebbe accadere”. Non è certamente la prima volta che il membro della Presidenza cerca di intimorire le controparti internazionali e locali per l’ottenimento di nuove concessioni alla RS. Il verbo secessionista, infatti, era tornato ad imperare nella RS nel 2011, quando Dodik per opporsi alla riforma dell’UE sul settore della giustizia aveva riattualizzato la minaccia involutiva. Negli anni successivi il suo partito ha ciclicamente utilizzato il fantasma della secessione per indirizzare gli esisti delle discussioni politiche centrali e sovranazionali, comprendendo come la Comunità internazionale sia maggiormente incline a concessioni che a riflessioni. Questo, però, non ci consente di marginalizzare l’affermazione di Dodik e procedere per analogie: risulterebbe molto pericoloso ai fini della comprensione del momento. A tal riguardo è intervenuta la ricercatrice ed esperta di Balcani occidentali Valery Perry che, intervistata da Luisa Chiodi dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, ha osservato come i recenti attacchi di Dodik all’unità nazionale siano divergenti dai precedenti per diversi motivi. In primo luogo, la Perry rintraccia l’alterità di queste minacce incasellandole in una dinamica politico-funzionale. “L’alleanza Dodik-Čović”, argomenta la ricercatrice, “continua da diversi anni perché entrambi hanno un forte interesse nel disintegrare progressivamente la Bosnia Erzegovina”. Il secondo piano d’analisi mostra come la scissione possa sganciarsi dalle dinamiche militari per riordinarsi in funzioni di deterritorializzazione politico-fondiaria. “L’obiettivo di Dodik”, spiega la Perry, “è di accaparrarsi circa il 40% delle proprietà immobili e di terreni della Bosnia Erzegovina riallocandole a livello di Entità ed eventualmente a livello dei Cantoni. In effetti la proprietà è denaro. Dodik sta cercando di sostenere dal punto di vista legale che lo stato della Bosnia Erzegovina non ha diritto di proprietà, contrariamente a quanto affermano più sentenze costituzionali”.

Il fatto che tali processi avvengano nel cortile esterno dell’Unione Europea più che sorprendere testimonia la sospensione temporale tra lo ieri e l’oggi. Il pensiero di Paolo Rumiz secondo cui “alle nostre logiche spartitorie un fattore complesso come la Bosnia risultava incomprensibile, impossibile da gestire, persino scocciante” appare timorosamente attuale. Se a questo applichiamo la giusta dose di riduzionismo ed eurocentrismo sul mondo balcanico, questa volta con Maria Tedorova, l’alchimia che otterremo sarà un composito tra dislocazione spaziale e dimissione memoriale del recente conflitto bosniaco. Dodik è il prodotto di una controrivoluzione culturale che dalla fine della guerra è rimasta cristallizzata. Il nazionalismo serbo raffigura quel valico temporale che costringe l’Unione Europea ad affrontare i traumi di un fallimento genocidario. Dayton ha fissato le frontiere erette con i corpi dei civili e non ha avuto la forza di essere propaggine rigenerativa dell’identità nazionale. Ha costituzionalizzato le differenze, le discriminazioni verso le etnie minoritarie, ha prodotto offerte didattiche differenti e toponomastiche fasciste-commemorative.

Le elezioni

La Costituzione prodotta all’interno degli accordi di Dayton è uno dei fattori da cui ripartire. In vista delle prossime elezioni dell’autunno 2022 quasi tutto lo scacchiere politico locale si è detto concorde nel modificare la legge elettorale. Dall’altra parte, l’alleanza tra Dodik e Dragan Čović continua a pesare negativamente sul processo democratico mettendo a serio repentaglio le votazioni. I nazionalisti serbi hanno dichiarato che non parteciperanno alle elezioni “se gli stranieri interferiranno nel lavoro interno della Bosnia”. Čović (Unione Democratica Croata di Bosnia ed Erzegovina – HDZ BiH), già membro della Presidenza, invece, sembrerebbe essere concentrato sulla creazione di una terza Entità territoriale politicamente vicina a Zagabria. Secondo il Fronte Popolare del membro della Presidenza Željko Komšić, dietro l’annuncio boicottaggio delle elezioni da parte dei partiti nazionalisti si nasconde il sostegno politico della Russia intenta ad ostruire il cammino democratico bosniaco per destabilizzare l’Europa.

Sull’argomento elezioni è intervenuto anche Safet Softić (Partito d’Azione Democratica – SDA BiH) che si è detto favorevole al cambiamento del sistema di votazione, ma tenendo ben saldo il baricentro del potere a Sarajevo. Ha successivamente concluso che “siamo in un momento difficile, una svolta, un bivio. Voglio ribadire che ci sono due possibili esiti radicali: la scomparsa della nostra patria o la scomparsa di RS. Se Dodik continua con questa politica, questo secondo scenario è molto probabile”.

Conseguenze

Nonostante i numerosi segnali che da ormai mesi arrivano dall’intera Bosnia né Europa, né Stati Uniti (in particolar modo dopo Kabul), sembrano essere intenzionati a tuffarsi nel pantano balcanico. Qual è dunque la strategia? Lasciare che la crisi si esaurisca autonomamente qualunque sia la sua strada? Assecondare Dodik e Čović nella folle narrazione sul paradigma dell’impossibile convivenza ed arrivare tardi, ancora una volta, a giustapporsi tra le parti? Salvo, magari, nascondersi dietro scuse di campali. Oppure, più facilmente, tracciare linee e zone d’influenza con un rinata Russia e una imminente Cina? Al momento, risulta difficile avanzare concrete ipotesi sul futuro della Bosnia senza lanciarsi in avventuristiche sintesi. Si può, però, riflettere su un altro aspetto. L’integrità statale della Bosnia non si lega a un mero concetto di salvaguardia del perimetro dello stato-nazione, peraltro, già morente già durante la Guerra Fredda. La cornice internazionale rispetto al 1995 è cambiata, e con essa anche il paradigma binario circostante. In un mondo dove la globalità dei flussi produttivi ha abbattuto le frontiere e lo stesso concetto nazionale, preservare il perimetro bosniaco sarebbe prima di tutto un atto politico e di ricordo. Non bisogna scordate che quando parliamo di RS intendiamo una realtà nata dalle ceneri di una tragica pulizia etnica. Consentire lo smembramento totale della Bosnia significherebbe per la Comunità internazionale, nel giro di trent’anni, capitolare per la seconda volta davanti alla violenza del nazionalismo e mancare di rispetto alle vittime innocenti dei Cetnici e degli Ustascia.

 

(credit foto EPA/FEHIM DEMIR)



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