Brescia: perché uno Stato di diritto non può applicare il relativismo culturale

La richiesta di assoluzione dall’accusa di maltrattamenti domestici per motivi culturali viola l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e impedisce a chi denuncia di godere dei pieni diritti di cittadinanza a prescindere dalle proprie origini. Se si ammettesse il “multiculturalismo” nello spazio giudiziario si aprirebbero le porte a forme di apartheid, espressione di un razzismo istituzionale che inevitabilmente porterebbe alla disgregazione sociale, invece che all’incontro e alla pacifica convivenza tra persone. Per usare le parole di Peña-Ruiz, non si può rischiare che il diritto alla diversità sfoci nella diversità dei diritti.

Simone Cavagnoli

Lunedi 11 settembre 2023 i media italiani hanno riportato le sconcertanti parole di un Pubblico ministero di Brescia, Antonio Bassolino, che ha richiesto l’assoluzione di un uomo di origine bengalese, tale Hasan Md Imrul, per i maltrattamenti fisici e psicologici cui avrebbe sottoposto, nel 2019, la denunciante ex moglie, sua connazionale, perché “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua volontà di annichilire e svilire la coniuge”. Più nello specifico, la violenza da lui esercitata sarebbe stata “un portato della sua cultura, che la parte offesa aveva perfino accettato in origine”.
Un caso che ricorda molto quanto avvenuto nel novembre 2021 presso la Procura di Perugia, quando un altro Pm richiese a sua volta l’assoluzione per un uomo di origine marocchina denunciato dalla moglie, la quale, oltre a essere obbligata non poter parlare italiano e uscire di casa, sarebbe stata obbligata ad indossare il velo islamico. In quel caso, per il Pm, tale condotta sarebbe rientrata “pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati”.
In entrambi i casi le Procure coinvolte hanno immediatamente preso le distanze dalle parole dei loro Pm, e, nel caso di Brescia, l’intero arco politico ha fatto fronte comune richiedendo l’intervento del Ministro della Giustizia e del Csm, stigmatizzando le parole di Bassolino.

Tuttavia è interessante notare come persone che hanno ottenuto l’abilitazione per poter svolgere il loro ruolo all’interno delle Procure del nostro Paese concepiscano la realtà di uno Stato di diritto in modo totalmente distorto, se non addirittura negandone l’essenza stessa.
In primis perché questa organizzazione sociale, nata in campo penale 259 anni fa con il trattato di Cesare Beccaria, il noto Dei delitti e delle pene, sancisce l’uguaglianza giuridica di ogni cittadino (o consociato) davanti alla legge, poiché viceversa, ciò alimenterebbe il conflitto sociale che, inevitabilmente, il differente trattamento giudiziario provoca nella cittadinanza. Anche Kant, tra le condizioni necessarie da lui individuate affinché sussista un governo repubblicano, vede nella dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune una delle principali.
A ciò si aggiunge una nemmeno troppo implicita colpevolizzazione della vittima per quanto le è accaduto, come se fosse suo compito stare attenta a chi frequentare o sposare, e soprattutto, a quale sia l’origine del suo potenziale aguzzino. In questo caso, entrambe le decisioni condividono un’impostazione di tipo etnico, geografico e culturale, con una forma di relativismo che scade in una palese forma di discriminazione nei confronti di chi denuncia. È la sua origine, e non solo quella del coniuge maltrattante, ad essere utilizzata come se fosse un destino ineluttabile davanti a cui piegarsi senza poter cercare un miglioramento delle proprie condizioni di vita rivolgendosi ad un tribunale.
Si è utilizzato per questo il termine “reato culturalmente orientato (o motivato)”, cioè una casistica che vede nel comportamento tenuto dal soggetto una violazione del codice penale del Paese entro cui egli vive, ma che risulta invece accettato se non addirittura incentivato all’interno della propria comunità di provenienza. Ma ciò, tuttavia, non contempla soltanto persone provenienti da altri Stati e quindi riconducibili a categorie di “minoranza”. Un reato culturalmente motivato può essere compiuto anche da un soggetto non di diversa origine rispetto alla comunità nazionale presso cui lo commette, si pensi al fenomeno mafioso, con ragazzini educati fin dalla giovane età a prevaricare sul prossimo, a disprezzare la legalità e a maneggiare armi da fuoco come fossero giocattoli. Nessuno, tuttavia, e giustamente, assolverebbe il mafioso perché abituato culturalmente a comportarsi in tale modo.

Tuttavia, secondo quanto riportato nel suo “Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali”, Fabio Basile individua più generalmente, con questo termine, fattispecie di reato quali: mutilazioni genitali femminili, condotte violente in ambiente domestico caratterizzate da maltrattamenti nei confronti dei minori e donne dovute a un’ancestrale concezione dello ius corrigendi, uso della violenza al fine di ricercare vendetta per un torto subito o per un’offesa al proprio onore, comportamenti illeciti legati alla sfera sessuale inerenti a rapporti con soggetti minori di 14 anni (tipici di contesti nei quali la maturazione psico-fisica femminile si considera raggiunta al mestruo), o le violenze sessuali intraconiugali, le molteplici violazioni dei diritti dell’infanzia attraverso l’avviamento precoce dei minori al lavoro, all’accattonaggio o, alla commissione di reati contro il patrimonio, senza adempiere inoltre all’obbligo scolare.
A ben vedere, tali azioni diffuse in alcune comunità di “minoranza” erano accettate a livello culturale e, addirittura, legale fino a pochi decenni fa nella stessa Italia e, più generalmente, nella odierna e “civilissima” Europa. Di conseguenza, negare la possibilità ad una persona di ottenere giustizia per il fatto di essere nata in un contesto che culturalmente accetta determinati usi e costumi non ha base razionale, essendo tali retaggi mutabili e mutanti nel tempo come il caso italiano dimostra. Se nel 1981 era ancora presente il delitto d’onore nel nostro ordinamento in riferimento alla regione Sicilia (l’ultimo caso noto risale nel 1964), così come il lavoro minorile risultava diffuso e accettato nel milanese prima e anche per diversi anni dopo la raggiunta Unità d’Italia del 1861, questo non significa che ciò possa essere accettato oggi in soggetti aventi questa origine. È la ratio per la quale, nel 2007, un giudice tedesco di Bückeburg concesse delle “attenuanti etnico-culturali” a un ragazzo sardo di 29 anni che aveva segregato, torturato e violentato l’ex fidanzata per tre settimane, sentenziando che la sua decisione avrebbe tenuto conto “del particolare retroterra culturale ed etnico dell’imputato. Il ruolo dell’uomo e della donna nella sua cultura non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante”. Indipendentemente dal fatto che nel 2007 in Italia, come noto, vi fossero già leggi capaci di punire reati quali lesioni personali gravi e violenza sessuale, il fatto, analogo a quanto accaduto in Italia (anche se probabilmente più grave, visto che si tratta di una sentenza e non della richiesta di un Pm), fa riferimento ad uno stereotipo culturale, in questo caso rivolto verso l’idea di “italiano”, presso una popolazione dove egli risulta “minoranza” in quanto appartenente a una comunità immigrata.
Questo implica che una seria riflessione sul concetto di multiculturalismo debba essere fatta, essendo chiaro, come in questo caso, che esso indichi, concretamente, un anacronismo culturale. Più che un concetto legato ad una popolazione o ad un territorio, esso va infatti messo in relazione al periodo storico, motivo per cui sarebbe più propriamente corretto sostituirne il termine con “differente livello di civiltà”. E se una popolazione ha sostituito determinati retaggi con il rispetto dei diritti fondamentali della persona, deve permettere, anche a chi questi diritti non se li vede riconosciuti nel proprio contesto d’origine, di goderne senza alcuna forma di relativismo, perché in caso contrario (e questa sembra essere la linea rappresentata dai Pm di Brescia e Perugia), ciò aprirebbe le porte a forme di apartheid, espressione di un razzismo istituzionale che inevitabilmente porterebbe alla disgregazione sociale, invece che all’incontro e alla pacifica convivenza tra persone. Per usare le parole di Peña-Ruiz, non si può rischiare che il diritto alla diversità sfoci nella diversità dei diritti.
Beccaria aveva tracciato la strada tre secoli fa, oggi tocca noi seguirne l’esempio, magari smettendola di suddividere la società in maggioranze e minoranze e cominciando a parlare, come i padri dello Stato di diritto suggerivano, di cittadinanza.
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