Brunetta e l’attacco allo smart working nella PA: ritorno al passato?

Il ministro della Pubblica amministrazione dice di voler implementare lo smart working, «quello vero». Tutte le sue dichiarazioni però non lasciano sperare in nulla di buono. E sarebbe l’ennesima occasione mancata di questa pandemia.

Ingrid Colanicchia

Lo confesso: sono tra gli «ipocriti» che difendono lo smart working nella Pubblica amministrazione (e non solo nella Pubblica amministrazione).

Sono tra coloro che speravano che da questa sperimentazione forzata avremmo tratto una lezione. E invece sembra che, come per molte altre questioni su cui ci auguravamo che la pandemia ci avesse insegnato qualcosa, anche questa sarà un’occasione persa. O almeno, persa per la Pubblica amministrazione. Come altro interpretare le parole del ministro Renato Brunetta, che in queste settimane è intervenuto più e più volte in materia?

Al mensile Fq Millennium ha spiegato di considerare il lavoro agile nella Pubblica amministrazione una sorta di «villeggiatura per i lavoratori». In un question time alla Camera ha detto che non può essere il lavoro del futuro. A margine del forum The European House-Ambrosetti, ha annunciato che lo smart working nella Pubblica amministrazione sarà riservato a una quota massima del 15 per cento di dipendenti (mentre fino a oggi era previsto che potesse avvalersene almeno il 60 per cento). Commentando i dati sulle previsioni di crescita del pil, ha legato una riduzione sostanziale del ricorso allo smart working tra i dipendenti pubblici a un’ulteriore spinta alla crescita della ricchezza nazionale. Vero o falso che sia (e l’Ufficio Studi PwC ha al contrario stimato che il pil italiano potrebbe crescere fino a un +1,2% se tutti i lavoratori le cui mansioni lo permettono ricorressero allo smart working) un simile discorso sposta il focus dal piano dell’efficacia del mezzo, senza però tenere in conto tutti gli altri elementi su cui incide un simile cambiamento della modalità di svolgimento del lavoro (risparmi, riduzione dell’inquinamento, conciliazione vita privata/lavoro, rivitalizzazione delle periferie urbane e dei centri abbandonati e chi più ne ha più ne metta).

In un intervento sul Foglio (“Lettera ai difensori (ipocriti) dello smart working nella Pubblica amministrazione”) Brunetta si è preso tutto lo spazio che ha ritenuto necessario per rispondere alle contestazioni che gli sono piovute addosso, rassicurando – si fa per dire – circa l’intenzione di implementare lo smart working nella PA. Un intervento che ci permette di farci un’idea più organica del Brunetta-pensiero.

Su una cosa il ministro ha ragione: quello sperimentato in massa nella Pubblica amministrazione in questo anno e mezzo non è lo smart working inteso come modello di organizzazione strutturato ispirato a flessibilità, autonomia e responsabilità. Si è trattato piuttosto di un home working d’emergenza e senz’altro è da mettere all’ordine del giorno un accompagnamento dei lavoratori a questa modalità di svolgimento delle proprie mansioni (anche e soprattutto della classe dirigente, abituata a un controllo a vista dei sottoposti).

Detto ciò e considerato che già prima dell’emergenza il settore pubblico era molto indietro rispetto all’implementazione del lavoro agile (secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, prima della pandemia i lavoratori in smart working erano in totale 570 mila, tra cui pochissimi dipendenti pubblici[1]) cosa possiamo desumere dalle parole del ministro circa il futuro di forme di lavoro da remoto nella PA? Niente di buono, temo.

Per prima cosa il ministro liquida come un «abbaglio» il presunto aumento di produttività delle pubbliche amministrazioni affermando che al momento «non possediamo una panoramica completa delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile». Vero, non abbiamo una panoramica completa ma diversi studi sia generali sia di settore smentiscono il ministro. A dimostrare il contrario non ci sono solo la già citata ricerca del PwC o quelle dell’Osservatorio del Politecnico di Milano (che già prima dell’emergenza sanitaria stimava aumenti della produttività del 15% e riduzione del tasso di assenteismo fino al 70%) ma anche, tra le altre, le parole del presidente dell’Inps Pasquale Tridico che il 5 settembre ha affermato che l’Istituto nel 2020 ha visto un aumento del 13% della produttività.

Poco dopo Brunetta asserisce che si sono registrate «lamentele da parte di imprese e cittadini che hanno sperimentato (comprensibili) ritardi nella loro interlocuzione con le amministrazioni pubbliche, a causa della mancanza di personale sul posto di lavoro». Ma se, come sostiene poco prima, non possediamo «una panoramica completa delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile» di certo non possiamo accettare come argomento a sostegno della tesi di una presunta inefficienza generiche «lamentele» di imprese e cittadini.

Il ministro afferma poi che i paragoni con le aziende private sono fuori luogo: «Innanzitutto perché i servizi offerti differiscono radicalmente. In secondo luogo, perché le pubbliche amministrazioni non rispondono alle logiche di mercato, centrate sullo scopo di lucro, ma alla logica dell’universalità dei servizi. Le aziende private possono anche eliminare il front office o l’interazione fisica con il cliente. Se lo facesse la Pubblica amministrazione, invece, priverebbe dell’accesso ai servizi ampie fasce della popolazione». Ma nessuno parla di eliminare gli sportelli della PA. Qui il ministro sembra dimenticare che il parametro, anche per chi sostiene lo smart working, resta quello dell’efficacia e dell’efficienza: solo e solamente le mansioni che possono essere svolte da remoto lo sarebbero, per cui non verrebbe meno il servizio; non è a tema il trasferimento in modalità da remoto del 100% dell’amministrazione pubblica.

Il ministro utilizza poi proprio questo aspetto (il fatto che solo alcune mansioni possono essere svolte a distanza) per parlare di «privilegio» di alcuni lavoratori rispetto a quelle categorie del pubblico impiego che non hanno mai potuto usufruire del lavoro da casa: medici, infermieri, forze dell’ordine e in tempi più recenti il mondo della scuola. Ogni lavoro ha però le proprie caratteristiche e non ha alcun senso contrapporle a questo modo.

In conclusione il ministro rassicura che «l’esperienza non sarà cancellata, al contrario: sarà una lezione. Grazie alle riforme messe in campo dal governo, possiamo risolvere tutti i nodi emersi, definire le regole contrattuali e dotare la Pa dell’infrastruttura digitale adatta e sicura. Non sarà un percorso rapido, né semplice, ma dobbiamo procedere in questa direzione. Con una efficace azione riformatrice, il coinvolgimento delle parti sociali e di tutta la Pubblica amministrazione possiamo realizzare uno smart working che sia realmente un ulteriore strumento a disposizione per migliorare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Lo smart working, però, quello vero: dalla parte dei cittadini e dalla parte delle imprese».

Staremo a vedere, per ora la sensazione non può che essere quella di un ritorno al passato.

 

Credit immagine: ANSA/CLAUDIO PERI

[1] Nel 2020, invece, secondo i numeri dell’Osservatorio smart working, le persone che hanno lavorato in smart working sono stati 6,58 milioni, praticamente 1/3 dei lavoratori dipendenti italiani. Durante l’emergenza sanitaria il 94% delle PA italiane ha adottato misure di lavoro da remoto associabili allo smart working. Si stima che circa il 58% dei dipendenti pubblici (1,85 milioni) abbia lavorato da remoto.



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