Bucha: quando il giornalismo sul campo fa la differenza

Dopo il massacro nella cittadina vicino Kiev, l’accusa di fake news da parte russa ha trovato spazio nel dibattito pubblico. In questo caso la differenza la fanno le testimonianze dei giornalisti sul campo.

Valerio Nicolosi

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare”. Questo è l’attacco di uno dei reportage di guerra più famosi della storia, scritto da Robert Fisk nel settembre del 1982, poche ore dopo il massacro di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi della periferia di Beirut.

A Bucha, piccola cittadina a ovest di Kiev, le mosche non sono come quelle di Beirut, il freddo ucraino rende queste terre più difficili ai piccoli insetti che si nutrono di carne in decomposizione. Eppure l’orrore sembra lo stesso e ricorda quello più recente e indelebile nella storia europea contemporanea: Srebrenica, avvenuto nel luglio del 1995 e che è costato la vita a ottomila persone musulmane. Il momento più doloroso di una guerra, quella di Bosnia, iniziata esattamente 30 anni fa, il 6 aprile 1992.

Le immagini di Bucha sono quelle di una carneficina, molti dei corpi lungo la strada hanno le mani legate dietro la schiena, quasi tutti sono distesi con il volto in avanti, segno che il colpo è arrivato alle spalle, alla nuca. Le automobili schiacciate dai tank russi mentre provavano a scappare, con i corpi ancora tra le lamiere. “È stato un inferno” dicono i sopravvissuti ai primi reporter che arrivano sul posto. Alcuni portano i giornalisti dentro i cortili, dove ci sono altri corpi ammassati di uomini, tutti con la fascia bianca al braccio per indicare che non erano militari ma civili, che magari erano di guardia fuori al palazzo dove abitavano, ma disarmati.

Santi Palacio, Ilario Piagnerelli e altri colleghi sono testimoni diretti del massacro, delle fosse comuni e dei racconti delle persone che hanno raccontato di cecchini che sparavano a chi usciva per andare a prendere l’acqua. In guerra la verità è spesso la prima vittima, i governi, qualsiasi essi siano, tirano acqua al proprio mulino con la propaganda di guerra. I bollettini dei militari nemici uccisi, degli aerei abbattuti e delle zone conquistate sono sempre parziali, la differenza la fanno i giornalisti sul campo, che in questa guerra sono tornati centrali dopo un periodo nel quale il giornalismo stesso è stato sotto attacco costante. Chi è sul campo testimonia, racconta e può confermare quello che avviene, come in nel caso di Bucha.

Mentre dall’altro lato, quello russo, fonti governative parlano di fake news. Come si può parlare di fake news davanti a quei corpi?

I più scettici sui social parlano di responsabilità ucraine in questo massacro, del Battaglione Azov, ma anche qui la differenza la fanno i reporter sul campo, quelli che raccolgono le testimonianze dei sopravvissuti.

Così Bucha, una cittadina di 36mila abitanti a Nord-Ovest di Kiev, resterà nella storia per le violazioni dei diritti umani, per le esecuzioni a freddo di uomini con le mani legate, per le automobili investite dai tank in corsa o bruciate, una di queste con la scritta “bambini”, per le fossi comuni e i crimini di guerra, facendo cadere definitivamente la maschera – per usare le parole di Putin – della “denazificazione del Paese” e la conseguente “liberazione del popolo ucraino dal nazismo”.

(credit foto EPA/MIKHAIL PALINCHAK)



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