Burocrazia+internet: fateci parlare con un essere umano!

La realtà post-pandemia da Covid19 ha azzerato l’interazione umana che una volta facilitava la già arduissima esperienza delle persone con la burocrazia. Se queste sono le conseguenze della digitalizzazione, vuol dire che su questo aspetto ci sta facendo regredire.

Mauro Barberis

Tutte le disgrazie passano, prima o poi. Ma la burocrazia no. Forse Dio, il settimo giorno, non s’è riposato affatto, ma dev’essersi detto: no, il mondo così è troppo perfetto, inseriamoci un baco. Non vorrei, però, che si pensasse all’ennesimo piagnisteo contro la burocrazia. Invece, vorrei dissipare l’illusione, ancora alimentata da cloni di Elon Musk, che internet ci riporterà nel giardino dell’Eden, risparmiandoci i compiti gravosi cui ci ha condannato il Peccato originale. Niente di tutto questo: anche internet, come il cristianesimo e il comunismo, non ha solo fallito, ma aggravato i problemi.
Ieri, mentre stavo tentando di lavorare – essenzialmente studiare e scrivere, le cose che un tempo facevano i docenti universitari, oggi ridotti a passacarte pure loro – mi arriva da un master estero, convenzionato con un italiano, la richiesta di un “attestato di residenza fiscale per evitare le doppie imposizioni”, cito letteralmente, da chiedere all’Agenzia delle entrate. E che sarà mai, mi dico: pago le tasse in Italia – non ci crederete, ma noi dipendenti le paghiamo ancora – quindi basterà andare in internet, consultare una lista, apporre un bollo o un timbro. E poi, non c’era anche l’autocertificazione?
Detto fatto, scarico la richiesta, la compilo salvo la parte ancora da riempire da parte dell’amministrazione, accedo al sito delle Entrate, e m’imbatto in cinque possibilità, ognuna divisa in sotto-possibilità, che non elenco perché la vita è breve. Fallite le telefonate a due numeri verdi, cui rispondono solo voci registrate su Marte, e una consegna a mano con tanto di bollo da 3,10 euro, consegna risultata impossibile senza prenotazione online, opto per l’invio automatico, riuscito solo con l’assistenza di un ingegnere aerospaziale venticinquenne, che però da allora non mi parla più. Cinque ore buttate, sinora, alienandomi le residue simpatie di tutti gli amici e i parenti consultati.
Unico risultato, sinora, una risposta automatica arrivata stamattina presto (che efficienza, le macchine!): ripresentare la domanda il 15 luglio, dopo 183 giorni di residenza, perché l’algoritmo deve avermi scambiato per straniero, magari, Dio non voglia, un migrante. Così ho ripiegato sulla prenotazione online di un appuntamento in presenza, fissato solo fra dodici giorni, a cui mi presenterò con il giubbotto antiproiettile. Però, avendo scritto tre libri sull’argomento, non posso fare a meno di chiedermi il perché di questa presa per i fondelli, ma soprattutto se ci sia modo di rimediare.
Il perché è banale: Covid e digitalizzazione hanno fornito a imprese private ed enti pubblici, senza differenze, la scusa ideale per liberarsi dal fastidio del lavoro in presenza, dei lavoratori in carne e ossa, e, naturalmente, dei relativi stipendi. Gli orari dei dipendenti sono stati liberalizzati – non ce n’è più uno, sul sito delle Entrate – e il personale sostituito prima con call center albanesi, poi da risponditori automatici: così ci sentiamo pure in colpa se non riusciamo a farci capire. Ultima possibilità: un appuntamento dodici giorni dopo oppure, nel caso di pazienti oncologici, fra un anno.
Il rimedio? I trattati europei lo chiamano Principio di non esclusività dei servizi digitali, il sottoscritto Principio di Umanità. Ogni utente di qualsiasi servizio, pubblico e privato, deve avere il diritto di parlare – non con una macchina o un risponditore automatico, ma – con un essere umano.



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