Buttafuoco presidente della Biennale: una mina vagante per Meloni

Il nuovo presidente della Fondazione La Biennale di Venezia in quota meloniana è Pietrangelo Buttafuoco. Una nomina rischiosa che può minare la credibilità dell’apparente linea centrista del governo, alla quale la Presidente del Consiglio lavora da un anno (con scarsi risultati).

Pierfranco Pellizzetti

Il nuovo presidente della Fondazione La Biennale di Venezia in quota meloniana è Pietrangelo Buttafuoco. Nome d’arte Giafar in onore dell’emiro Ja’fur al-Kalbi, che governò la Sicilia tra il 983 e il 985; ma anche quale attestazione indiretta e senza pagare dazio (nelle guerre di religione e settarismi vari in questa stagione di roghi) per la sua conversione all’Islam nel 2015. Un nipote d’arte (suo zio Antonino Giuseppe Buttafuoco fu deputato del Movimento Sociale per cinque legislature) che incontravo nelle ospitate al talk show Agorà, quando ancora mi invitavano. Seppure con una certa attenzione lookologica, tipica di questi ragazzotti provenienti dal profondo Sud alla conquista di un posto al sole nella Capitale e i suoi santuari cultural-comunicativi: se l’altro habitué dei salotti televisivi e della stampa di destra Marcello Veneziani lo riconoscevi per il cache–cou (la signora snob Franca Valeri lo chiamava foularin) perfetto sulla costiera amalfitana o a Portofino, il suo erede Buttafuoco come ospite destrorso per dibattiti con pretesa di pluralismo oltre l’arco costituzionale, esibiva giacche di fustagno da personaggio del Gattopardo. Non saprei se per atteggiarsi a Principe di Salina in vacanza a Donnafugata o al suo guardiacaccia.

Soprattutto ciò che colpiva era la sua permanente attenzione, tra l’ambiguo e il mimetico, a non lasciarsi prendere le misure di inveterato reazionario con una passionaccia per i nazisti, protagonisti dei suoi romanzi; tipo Herman Göring o Pio Filippini-Ronconi, arruolato dal 1943 nella malfamata legione delle SS italiane. Prudenza di chi gioca tra le linee. Ma talvolta il piede slitta dal freno e la vera natura salta fuori, come quando il sognatore in attesa del “Reich del futuro” partecipa alla festa di Casa Pound 2012 e, non rendendosi conto di essere registrato, parla a ruota libera. Per cui Oriana Fallaci diventa l’odiata giornalista fiorentina da jet-set, massima espressione di un “orrendo occidentalismo della Destra globale, repubblicana, americana. Quintessenza della schifezza”. Oppure quando – intervistato da Italia Oggi il 26 febbraio 2015 – non gli riesce di tenere a freno la lingua e sbraga con parole irrituali sul presidente neoeletto: “Sergio Mattarella ha voluto radicare l’avvio del suo settennato con un discorso che ancora oggi è fondato sulla guerra civile. È ancora l’armamentario ideologico e ancora la mancata pacificazione, è ancora la distinzione tra italiani di serie A e di serie B, relegando questi ultimi nelle fogne”. Poi prosegue nella smarronata dichiarando che Tangentopoli è stata una punizione americana di Bettino Craxi per i fatti di Sigonella. Testa-coda argomentative con improvvise emersioni di narcisismo, come quando reinterpreta a proprio uso e consumo Friedrich Nietzsche e il suo superuomo “bestia bionda” ibridandolo in una paradossale chiave autobiografica (allo schiudersi di romanzesche uova del drago): il “biondo superuomo nordico speziato di orientalismo”, errante tra la Foresta Nera e la tenda del Gran Muftì di Gerusalemme.

Ora Giorgia Meloni, nonostante in passato ne avesse tenuto le distanze (nel 2015 bloccò la sua candidatura a governatore della Sicilia patrocinata dalla Lega), premia questo muezzin in camicia bruna con la tanto ambita ascesa alla poltrona nel salotto buono. Massima aspirazione per provinciali in carriera, ispirati al dadaismo col monocolo dell’aedo della mistica fascista Evola Giulio (l’impomatato pittore tuttologo che – ossessionato dalla mediocrità borghese, in cui pure era immerso – mutò il proprio nome nell’affettato Julius). Questo perché il progetto egemonico di Meloni stenta a trovare figure minimamente credibili da piazzare negli organigrammi del suo spoil-system: dopo Alessandro Giuli presidente del MAXXI alla cultura, Pino Insegno e i suoi tarocchi per pochi intimi allo spettacolo, le risorse scarseggino e si deve fare ricorso a un Giafar che ha accumulato nel suo curriculum bombe ad orologeria altamente rischiose per l’attuale linea di accreditamento centrista; faticosamente costruita da Giorgia Meloni nel suo costante tappetarsi ai piedi di Biden: anti-americanismo, anti-occidentalismo, anti-sionismo. Perfetto armamentario di chi rimpiange il Manifesto di Verona e la Carta del Lavoro della Repubblica di Salò; per chi sogna “un’Italia sociale e nazionale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana”. Non certo il fiore all’occhiello per una ragazza della Garbatella che tenta disperatamente di rifarsi una verginità politica. Arrivando all’estrema piaggeria nella subalternità agli USA di astenersi sulla risoluzione ONU per una tregua umanitaria a Gaza, con argomentazioni imbarazzate/imbarazzanti. Mentre inizia a percepire che forse la sua luna di miele con l’elettorato sta giungendo al termine.

Foto Wikipedia | Niccolò Caranti



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