Capire e raccontare l’Islanda, intervista a Jón Kalman Stefánsson

Stefánsson è uno degli autori islandesi più amati del mondo. Con le sue poesie e i suoi romanzi ha donato potenti affreschi della sua terra e ha affrontato le grandi questioni dell’uomo: la vita, l’amore, il senso ultimo dell’esistenza, il potere dell’arte e della letteratura.

Roberto Rosano

Signor Stefánsson, lei di chi è figlio?
Sono figlio di Stefán Frímann Jónsson, un muratore nato nel 1938 e morto nel 2011. Mia madre, Bergljótľráinsdóttir, è nata lo stesso anno, ma è morta nel 1969, per un cancro. Ha vissuto gli ultimi anni entrando e uscendo dall’ospedale, purtroppo. Era una casalinga, come la maggior parte delle donne dell’epoca, anche se aveva fatto la cuoca per un breve periodo. Quando è morta avevo appena iniziato a scrivere canzoni, poesie, racconti…

Quando si è reso conto di avere un talento nella scrittura?
Mi ci è voluto un po’ di tempo per trovare me stesso. A quindici anni ho smesso di andare a scuola e ho iniziato a lavorare come muratore, poi in un’industria ittica, in un macello… Ma poi, dopo aver visto i programmi televisivi di Carl Sagan sull’universo e l’astronomia, ho deciso di tornare tra i banchi. Quei programmi e Carl Sagan sono stati un punto di svolta per me. Fino ad allora, mi ero sempre sentito un outsider, a volte addirittura un alieno, incapace di adattarsi a qualsiasi luogo. Grazie a quei programmi, ho cominciato a carezzare l’idea che il mio destino fosse quello di diventare un astronomo, quello di scoprire nuovi mondi, nuovi universi.

Poi ha cambiato idea…
Sì, negli anni successivi la letteratura ha inesorabilmente preso il sopravvento. Scrivendo ho cominciato a sentirmi a casa. I primi scritti naturalmente erano dei piccoli disastri, ci è voluto molto tempo per trovare la mia voce. Ma sin da subito ho sentito di stare bene nella scrittura. Era una casa. È come se mi fossi reso conto che i mondi che volevo esplorare non erano nello spazio, ma nelle parole. Le pagine bianche potevano essere le mie stelle, le mie galassie, i miei buchi neri, la mia materia oscura e la mia energia.

Che cosa l’ha influenzata e la influenza di più come scrittore?
Tutto mi influenza, in un modo o nell’altro: il tempo, la natura, le notizie dei media, il mio cane, i miei gatti, la musica, i libri degli altri, le poesie, i romanzi, la saggistica e poi la vita quotidiana… Lo scrittore si abbevera sempre, consapevolmente o inconsapevolmente, al mondo che lo circonda. Tutto entra dentro di me, affonda dentro di me e scompare, in un certo senso. Si dissolve, ma continua a influenzare i miei pensieri, i miei sentimenti, i miei sogni.  Quando poi esce, sulla pagina, è molto spesso qualcosa di completamente diverso, irriconoscibile…

Quali sono le sue abitudini di scrittura?
Mi piace iniziare la mattina presto. Mi sveglio attorno alle sette, faccio colazione, prendo un caffè e poi inizio a scrivere. Di solito lavoro tre o quattro ore, poi faccio una pausa, portando a spasso il cane, andando a correre o in palestra, prima di ricominciare a lavorare. Se mi trovo bene nel mio romanzo, che come le ho detto è una specie di casa per me, la mia attività può essere piuttosto lunga: otto, dodici ore complessivamente. Amo lavorare, anche se ci sono momenti difficili, in cui sono pieno di dubbi su quanto sto facendo. Ma sto bene nei miei romanzi, tant’è che quando ne finisco uno sento come un’inquietudine, mi sento senza casa.

Una volta ha scritto che il suo Paese, l’Islanda, è molto vicino sia al paradiso che all’inferno. Perché?
Credo sia solo un modo poetico per cercare di descrivere l’Islanda. Abbiamo quella luce infinita da maggio ad agosto, in cui non c’è quasi nessuna differenza tra il giorno e la notte e si ha la sensazione che il tempo abbia cessato di esistere. È come se l’eternità avesse trovato la sua casa in Islanda. E poi abbiamo quei mesi invernali, scuri, da novembre a febbraio, che possono essere pece nera quando non c’è neve e il cielo è annuvolato. Sembra quasi che anche la luce delle stelle abbia smarrito la sua strada. E poi, di tanto in tanto, la terra comincia a sgretolarsi e ad eruttare, proprio come sta accadendo ora vicino Reykjavík. Queste tonnellate e tonnellate di vecchia lava che vengono dalla profondità, a 1300 gradi centigradi, sono o no una specie di poesia infernale?

Ma c’è un lato dell’Islanda che non è ancora riuscito raccontare?
Ci sono infiniti lati dell’Islanda di cui scrivere, così come ci sono infiniti lati di noi umani di cui scrivere. E ci sarebbe tanto altro ancora da scrivere sui nostri sogni, i desideri, gli errori, i rimpianti, la nostra gentilezza, la crudeltà di cui siamo capaci… Sono uno scrittore islandese, scrivo in islandese, i miei romanzi si svolgono per lo più in Islanda. Ma non importa tanto dove si svolgano, perché se scrivi dei sentimenti, dei desideri e dei sogni degli umani e riesci a farlo in modo positivo, riesci a tuffarti nella loro profondità, allora che importanza può mai avere la nostra nazionalità! In fondo abbiamo una sola casa, la Terra, l’umanità. Questa è la patria della letteratura.

Ma pensa che il proprio Paese si possa capire veramente?
Non credo che nessuno capisca pienamente il proprio Paese e neanche il proprio passato, nonostante siano sempre così determinanti. Io sto cercando di capire e non solo l’Islanda, tutto. E credo che, a volte, sia più importante sentire che capire. Narrativa, poesia e musica sono sensazione, intuizione, impressione più che comprensione o spiegazione. Anche il Paese è qualcosa che si sente, non si capisce. Lo senti il tuo Paese, ma non appena cerchi di spiegarlo, di descriverlo, vola via e si trasforma in cliché o in frasi vuote. Qualcosa di islandese si trova sicuramente nelle mie opere, si può sentire mentre si legge e, forse, rimane anche dentro il lettore per un po’ di tempo. Non ne sono certo, ma se capitasse ne sarei felice. Non vorrei farvi capire l’Islanda, ma portarvi con me. Farvela sentire vicina. E la vicinanza è meglio della comprensione. La vicinanza è un bacio. Chi vuole capire un bacio? Un bacio si sente, si gode.

Il romanzo La tua assenza è tenebra si chiude con una playlist della morte. Come le è venuta in mente un’idea così bizzarra?
La musica è sempre stata importante per me e mi ha influenzato tanto quanto la letteratura. Tutta la musica, il pop, il rock, il blues, il jazz, l’hip hop, la musica classica… Ma quando ho iniziato a scrivere questo libro, mi sono reso conto ancora di più dell’importanza della musica, perché era intrecciata col tessuto del romanzo.  Poi è capitato che Eiríkur a poco a poco è diventato uno dei personaggi principali – deve sapere che non sempre ci si rende conto di quali siano i personaggi principali quando si inizia a scrivere una storia! – e la musica era quasi tutto per lui. Eiríkur dice che la morte ha il gramo mestiere di falciare le vite, di spazzarle via, ma non perché lo voglia. È che la morte è molto sola e allora cerca compagnia nella vita, la vuole abbracciare, ma tutte le volte che ci prova, suo malgrado la uccide. Questa è l’idea del mio personaggio. Così, io e Eiríkur abbiamo deciso di mettere insieme una playlist per la morte, per confortarla, rallegrarla, farle un po’ di compagnia. Perché la musica, come la poesia, ha un dono unico: sa viaggiare tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Ho notato con rammarico che non c’è nessun brano italiano nella sua playlist! La morte avrebbe tratto molto conforto da una nostra arietta. Eppure, se non ricordo male, un suo progenitore era un cantante d’opera!
Ha ragione, è uno scandalo! Provvederò ad aggiornare la lista appena possibile. Eh sì, il mio bisnonno era un cantante d’opera e anche un poeta, un pittore, un compositore. Era anche un bevitore e l’alcol purtroppo gli ha rubato molta energia e molta creatività. Anche sua sorella, María Markan, era una delle migliori cantanti d’opera che abbiamo avuto, una voce immensa.

Ma in questo libro ha scritto anche che la morte non va mai in vacanza. Se potesse, dove la manderebbe e cosa le farebbe fare?
È una domanda molto interessante! La morte in vacanza sarebbe paciosa, un po’ malinconica. Le farei leggere qualche poesia, dei romanzi, le darei anche un po’ da bere, ma non troppo: potrebbe fare dei danni. Le darei anche un compagno di viaggio tranquillo, che la porti a ballare di tanto in tanto.

Ma dove la manderebbe?
Sì, mi scusi, avevo dimenticato la domanda: la manderei a Sori in Italia o in qualche fiordo occidentale dell’Islanda. Forse anche a Copenhagen, quella città è così piena di vita che le piacerebbe sicuramente. E poi alla morte piace la bicicletta e Copenhagen è un paradiso per i ciclisti.

Cosa fa quando ha paura della tempesta? Parla con Dio, con un antenato?
Amo la tempesta. Mi piace sentire e sperimentare la sua potenza, quando nessuno è in pericolo naturalmente. Non vedo l’ora di vedere le tempeste di neve. Con Dio, invece, credo di non parlare mai, ci ignoriamo totalmente. C’è come un accordo tra noi. Spero tanto, però, che ci sia qualcosa là fuori che gli somigli, una sorta di significato. Forse è quello che vado cercando nei miei scritti. Ma il dubbio non mi abbandona mai in questo viaggio. Sappiamo così poco dell’universo – o degli universi – che sarebbe stupido escludere totalmente Dio o qualcosa di simile.

Con la raccolta poetica Quando i diavoli si svegliano dèi (Iperborea 2023), lei è tornato alla poesia dopo molti anni. Perché ne ha avuto di nuovo bisogno?
Il mio bisogno di poesia non mi ha mai abbandonato, non è mai diminuito. Purtroppo, però, ho smesso di scrivere poesie soprattutto dopo aver iniziato a scrivere romanzi intorno al 1994, ma ne ho sempre avuto un grande bisogno e non è passato un solo giorno senza leggere qualche verso. A volte dico che sono un poeta che scrive romanzi: la poesia è semplicemente confluita nelle storie.

Ma le mancava scrivere una sua poesia?
Le confesso di sì ma, purtroppo, la poesia è una delle cose che non possiamo controllare. Viene all’improvviso e bisogna soltanto accoglierla. Non possiamo ordinarla come un taxi o una pizza. Qualche anno fa ci fu un cambiamento nella mia vita, una novità che purtroppo è finita con un divorzio. In quel momento di transizione della mia vita, ho vissuto, come tutti, credo, catastrofi, terremoti, che hanno aperto delle crepe dentro di me. Da quelle ferite, la poesia ha iniziato ad eruttare ed ho capito che dovevo lasciarla fare perché solo lei poteva spiegarmi cosa mi stesse accadendo. Così, per un anno e mezzo, questa vena si è come spalancata. Poi si è chiusa di nuovo, perciò aspettatevi altri romanzi.

Questa rivista si chiama MicroMega, da un racconto filosofico di Voltaire in cui si scopre che l’essenza delle cose è in una pagina bianca, tutta da riempire… Quali parole scriverebbe su questa pagina?

Oh, ci sono così tante parole… Un oceano di parole… Abbiamo così tanto bisogno di riempire le pagine bianche ora che il mondo sta bruciando. Milioni e milioni di persone nei prossimi anni saranno costrette a fuggire dalle loro case, dalle loro città, dalla loro patria e a cercare un nuovo posto dove ricominciare. Potrebbe finire tutto in un disastro, ma non deve. C’è spazio per tutti. Lo Stato del Canada lo ha capito e sta facendo entrare ogni anno 400mila immigrati. Ma se prendiamo esempio dalla Brexit o da personaggi come Trump, tutto finirà in un disastro. Se, invece, lavoriamo insieme, con coraggio, rifiutando risposte semplicistiche a domande complesse, avremo ancora una speranza, un futuro. Non sopravvivremo soltanto, vivremo e bene! Quindi, sulla pagina di Voltaire scrivo tre parole: coraggio, simpatia, visione.

CREDITI FOTO: Hreinn Gudlaugsson|Wikimedia Commons



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