Quando Caravaggio si avvicina al senso della vita

Ne "Il dono di saper vivere", romanzo dello scrittore, pittore e traduttore Tommaso Pincio, un ragazzo di una galleria di arte ci accompagna alla scoperta di Caravaggio. Un Caravaggio che viene raccontato in tutti i suoi molteplici aspetti, abitante di una Roma la cui storia monumentale porta l'autore a interrogarsi sul senso del tempo. E su quell'arte di saper vivere evocata dal titolo, che non ci appartiene e che dobbiamo imparare a fare nostra.

Marilù Oliva

“Per tutta la vita bisogna imparare a vivere”, diceva Seneca. In pochi, forse, si rendono conto quanto sia ardua quest’acquisizione e Caravaggio, la cui turbolenta vita è leitmotiv del romanzo, non è da meno. Il dono di saper vivere (Einaudi), dello scrittore, pittore e traduttore romano Tommaso Pincio, ruota attorno all’incognita richiamata nel titolo. La voce narrante, che talvolta si rivolge ai muri come potenziali ascoltatori, chiarisce fin da subito il legame delle sue speculazioni con l’indagine sull’esistenza, quando la divide nei tre segmenti in cui tanti riconosciamo la nostra parabola: nasci, provi a vivere, ti senti morire.
La vicenda si consuma ai giorni nostri, in una Roma inseguita in quanto decadente e dannunziana (ricorda quella papalina di Andrea Sperelli) e protagonista è un giovane che, all’inizio, si trascina i giorni con poca convinzione in una galleria d’arte (ubicata nella stessa via in cui Caravaggio si macchiò le mani di sangue). L’inettitudine è il suo marchio caratterizzante, in quanto sente di sprecare le giornate in qualcosa di inconsistente e vacuo da cui non riesce ad affrancarsi e così si lascia piuttosto vivere dalla vita. Si vocifera che costui abbia in cantiere un libro su Michelangelo Merisi, ma all’inizio la finzione prevale sull’idea. Fatto sta che, man mano che si procede, la figura del pittore – il Gran Balordo – emerge con prepotenza, raccontata con una maestria e con una disinvoltura che per un istante fanno quasi credere che l’autore, curioso osservatore delle sue cruente disavventure, abbia furoreggiato nel Seicento accanto al pittore perché ne svela molti aspetti interessanti: dispute di lavoro, antagonismi, vendette, vestiti stracciati e luridi, rifugi di scampo, osterie, scandali, successi e zuffe. Come quella che si rivelò fatale per il suo nemico:
“Ed è proprio in un campo da gioco vicino al palazzo del gran duca che le cose precipitarono definitivamente, l’ultima domenica del maggio 1606, quando, per una disputa su un punto dubbio durante una partita di pallacorda, il tennis di allora, Caravaggio viene all’armi con Ranuccio Tomassoni, suo rivale fuori dal campo per più di un motivo. La dinamica non è chiara. Pare che il pittore ferisca alla coscia l’avversario mentre questi, nel ritrarsi, cade in terra. Colpito all’arteria femorale, Tomassoni viene portato a casa dove muore dissanguato”.
Gli scorci su Roma ci raccontano una città d’arte – Piazza del Popolo, le Chiese più suggestive, Trinità dei Monti – ma anche vicoli inediti e questa città, così densa di epoche storiche istoriate nei suoi angoli, è il luogo ideale dove Pincio può sguinzagliare uno di quello che sicuramente è tra i suoi demoni: il tempo, così ineffabile, scanzonato, implacabile nella sua ineluttabilità. L’autore sa che vana sarebbe ogni seria definizione, quindi si appella alla geometria:
“Se il tempo ha la forma di una linea, la forma del presente sarà sempre un punto, una circonferenza di colore nero e di dimensioni astratte, un pallino ideale e assoluto simile a quelli che poniamo al termine di ogni frase. È mai possibile?”.
Un romanzo fatto di atmosfere e scritto con la passione di chi insegue la vita e la Bellezza (inclusa quella dell’arte), ma anche con lo stupore sacro e filosofico di chi ha capito che resterà senza risposte, in compagnia del dubbio e delle ipotesi.



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