Carcere e tortura, non abbandoniamoci al fatalismo

Molte cose si possono fare in chiave di prevenzione per evitare che il conflitto tra custodi e custoditi sfoci nella violenza e nella vendetta reciproca.

Claudio Sarzotti

“È stato un massacro. (…) Cento detenuti sono passati lungo i cordoni che cominciavano al secondo piano e finivano nei cortili: tre rampe di scale e tutta la rotonda del piano terra (…). La festa è stata organizzata a freddo. (…) Mi preparo ad uno spettacolo che conosco. A uno a uno veniamo fatti alzare da terra e sospinti verso la rotonda del secondo piano. (…) Urla, spintoni, colpi. Minacce di morte. Finte fucilazioni. “Sporchi rossi. Adesso vi ammazziamo”. Un carabiniere grida sul muso a Gabriele: “Sporco negro!”. (…) Ci spingono di sotto. I cordoni sono già formati. Mi copro la testa con le mani. (…). Carabinieri e poliziotti sono assiepati. Ci aspettano. Gridano, fanno rumore. Si sono divisi i compiti. Chi ti blocca. Chi ti picchia in testa. (…) Un ufficiale dei carabinieri ha una foto in mano: ha il compito di riconoscere i prigionieri annotati sulla lista nera e indicarli ai picchiatori. Un poliziotto mi tira un calcio nei coglioni e mi prende in pieno. Mi piego in due, ma non cado. (…) Vedo il basso di una divisa di un cc che si avvicina. Non sento il colpo. Non sento nulla. Una mazzata terribile si abbatte sul cranio. È il calcio di un fucile mitragliatore. Sono ko. (…). Ma qualcosa continua prodigiosamente a funzionare. Una voce da qualche parte nel buio mi dice «Alzati, se resti disteso ti ammazzano». La voce ha ragione”.

E si potrebbe continuare tra pestaggi effettuati da agenti in passamontagna per non essere riconosciuti e “rituali barbarici” come distruzione di arredi delle celle e roghi dei libri e delle carte lì ritrovate. Le frasi riportate sono tratte dal libro autobiografico di Giuliano Naria (In attesa di reato, 1991, p. 155 ss.), il “caso Tortora” degli anni ’70. Siamo nel 1980 nel carcere di massima sicurezza di Trani, due giorni dopo la rivolta scoppiata il 28 dicembre. Un’altra Italia, un altro tipo di umanità reclusa, ma le analogie con le immagini che abbiamo potuto vedere su quanto avvenuto nell’aprile dell’anno scorso al carcere di Santa Maria Capua Vetere sono, allo stesso tempo, sconcertanti ed illuminanti.

La reazione a quelle immagini si è divisa tra scandalizzata sorpresa e solidarietà al “corpo” della polizia penitenziaria che va difeso dalle “mele marce” che ne deturpano l’immagine pubblica. Chiunque conosca con un certo grado di accuratezza quella strana invenzione dell’uomo occidentale di due secoli fa di punire i “criminali” imprigionandoli per un certo periodo di tempo in luoghi chiusi sa benissimo che non vi è alcuna ragione né per sorprendersi (per scandalizzarsi invece sì), né per considerare quei picchiatori delle mele marce. Il carcere produce strutturalmente e artificialmente delle condizioni di convivenza tra due gruppi di individui, posti in oggettive condizioni di ostilità reciproca, che rendono del tutto normali e prevedibili dinamiche di violenza del tipo di quelle viste all’istituto penitenziario campano e (con ogni probabilità) in altri istituti in cui sono avvenute rivolte nella primavera della pandemia. Esperimenti scientifici come quelli di Philip Zimbardo lo dimostrano senza ombra di dubbio: è stato sufficiente costringere per un paio di settimane due gruppi di studenti in un luogo chiuso con il ruolo di custodi e custoditi per arrivare, in meno di una settimana, alla rivolta dei detenuti e alla repressione brutale di essa da parte delle guardie. “La frontiera tra Bene e Male, un tempo ritenuta stagna, si è invece dimostrata piuttosto permeabile” (P. Zimbardo, L’effetto Lucifero, p. 293). La condizione di convivenza obbligata in spazi ristretti, degradati/degradanti e spesso sovraffollati, come da sempre sono stati quelli carcerari, favoriscono il ritorno ad uno stato di natura hobbesiano, il riemergere di istinti primordiali dell’individuo in grado di cancellare in un istante secoli di processi di civilizzazione. Recentemente ho analizzato il caso delle rivolte carcerarie del 2020 con il modello di comportamento archetipico di muta da caccia elaborato da Elias Canetti. Anche in quel caso, la descrizione canettiana di mute composte da maschi invasati, che derivano dal lupo l’istinto della caccia e della spartizione della preda, era apparsa quanto mai calzante. Nelle comunicazioni della chat degli agenti del carcere campano si leggono frasi illuminanti da questo punto di vista: “li abbattiamo come vitelli. Domate il bestiame”. Gli stessi dirigenti non riescono più a controllare il cieco furore della truppa e devono concedere la “perquisizione speciale”. È la stessa eccitazione che tiene insieme la muta da caccia sino a quando la preda non è catturata e adeguatamente spartita. Ma se quell’uomo che fa da preda “appartiene a un altro gruppo che non può abbandonarlo, ecco una muta contro l’altra. I componenti dei due gruppi nemici non sono molto diversi: sono uomini, maschi, guerrieri. (…) Gli uni e gli altri hanno la stessa intenzione contro il reciproco avversario. (…) La bipartizione è inevitabile, il taglio fra le due parti è assoluto, fin quando dura lo stato di guerra” (E. Canetti, Massa e potere, 1972, p. 106).

Questo vuol dire che dobbiamo abbandonarci ad una sorta di fatalismo antropologico? Assolutamente no. Si tratta di dinamiche che, in quanto pienamente prevedibili, non devono però essere considerate ineluttabili. Molte cose si possono fare in chiave di prevenzione. Vediamone alcune.

In primo luogo, chi comanda all’interno del carcere? In teoria il direttore, l’unica figura in grado di osservare dall’esterno il sordo conflitto tra custodi e custoditi e di assumere decisioni ragionevoli e documentate per evitare che tale conflitto sfoci nella violenza e nella vendetta reciproca. Si tratta, tuttavia, di una categoria che potremmo chiamare, nell’ampia accezione dell’espressione, di “funzionari civili” che in Italia è in via di estinzione. Gli ultimi bandi concorsuali risalgono agli inizi degli anni ‘90; un bando recentemente avviato è stato oggetto di strenue resistenze all’interno del DAP (chi sa perché?). Molti istituti penitenziari sono da tempo governati da direttori “in missione”, ovvero da funzionari che non possono garantire la loro presenza quotidiana e sono costretti, pressati da agguerriti sindacati autonomi di polizia, a delegare ad altri il loro potere. Provate ad indovinare a chi?

E arriviamo così ad un altro nodo della questione, la polizia penitenziaria. Da un lato, occorre evitare di criminalizzare gli agenti anche perché si tratta di comportamenti, come hanno dimostrato le immagini, assai diffusi ed ampiamente tollerati all’interno della cultura carceraria (sono tollerati, in certi casi, persino dalle vittime che subiscono passivamente perché hanno imparato dall’esperienza che “in carcere funziona così”). Tolleranza che è stata a lungo anche facilitata dal senso di impunità di cui godevano i torturatori (andatevi a leggere la sentenza del gennaio 2012 del giudice di Asti che, dopo aver accertato torture nei confronti di due persone recluse, si conclude con l’assoluzione per l’assenza del reato di tortura). D’altro lato, tuttavia, non deve passare il messaggio del “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Occorre recuperare quel valore morale, sacrale in senso laico, che Durkheim aveva posto alla base del funzionamento sociale della penalità: ristabilire i confini di quell’insieme di valori in cui la “buona” società si riconosce (la cd. coscienza collettiva) che il crimine ha infranto. La pena è ben poca cosa se misurata rispetto agli effetti rieducativi sul singolo condannato, ma è invece efficace nel ribadire i valori dominanti di una società, di un’epoca storica. Di qui, l’importanza dello scandalo che questi eventi suscitano nell’opinione pubblica; di qui, l’enorme valore simbolico, ripeto in primis simbolico, dell’aver introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura. Ma siamo sicuri che tutti gli italiani si siano sentiti scandalizzati da quei fatti? Che ritengano sacrosanto che la tortura sia sanzionata anche quando si esercita nei confronti del peggiore dei criminali? Si tratta di valori costitutivi della coscienza collettiva occidentale sviluppatisi dall’illuminismo penale in poi; immensa e sovversiva costruzione culturale che, come tutte le costruzioni di tal genere, non va mai considerata acquisita una volta per tutte e che ha subito, come noto, nel corso del XX secolo ed oltre, clamorose repliche della storia.

Ma oltre all’emotività della pena così intesa, deve subentrare la razionalità di una politica che sia degna di tal nome. In questa prospettiva, è essenziale pensare ad una profonda riforma di quello che viene chiamato, con un termine che deriva proprio dalla logica della muta, il “corpo” della polizia penitenziaria. Non abbiamo bisogno di un corpo di polizia che si concepisca come un gruppo che debba mobilitarsi, appunto come “un sol uomo”, contro qualcuno che rappresenta il Male, la parte “marcia” della società. Abbiamo bisogno, piuttosto, di una cura dimagrante di quel corpo con un numero ridotto di operatori di polizia che intervengano solamente nelle situazioni di emergenza o in quegli istituti in cui lo “spessore” criminale della popolazione reclusa richieda una professionalità specifica in materia di sicurezza. La stragrande maggioranza dei reclusi non ha bisogno di essere sorvegliata da poliziotti in divisa, formati ancora oggi secondo un modello militare, ma ha necessità di essere seguita da operatori sociali competenti nelle strategie di assistenza e risocializzazione tipiche dell’intervento sociale di rete, ovvero con lo sguardo rivolto alla società esterna al carcere piuttosto che all’infantile, e talvolta crudele come solo i bambini sanno essere, contesa tra guardie e ladri all’interno delle mura.

Tali operatori avranno bisogno naturalmente di strutture penitenziarie meno sovraffollate e di una comunità esterna che ritrovi le ragioni costituzionali della pena: risocializzazione e rispetto della dignità della persona condannata. Spesso si pensa al carcere come un mondo separato e chiuso in se stesso. Niente di più sbagliato. Se poniamo a confronto le rivolte della pandemia con quelle degli anni Settanta ci si accorge come esse rappresentino una perfetta cartina di tornasole di ciò che è cambiato in Italia in questi anni. Là dove c’era rabbia e lotta all’ultimo sangue (ahimè, troppo sangue) per diritti collettivi e trasformazioni politico-sociali radicali quanto utopistiche, oggi troviamo cieca disperazione e, al più, tentativi di sopravvivenza del singolo individuo, all’insegna del “si salvi chi può”. Sarà possibile recuperare quello spirito di rinnovamento senza cadere negli errori che ne determinarono il fallimento?

Si dirà, parafrasando il giudizio di De Gaulle sull’eliminazione dei cretini: “bel programma, ma troppo esteso”. Obiezione certamente non di poco conto. Temo però che se non affronteremo la questione, come avrebbe detto una ex ministra grillina, “a 370 gradi”, il rischio sarà quello di intervenire solamente in una logica emergenziale e “di facciata” che non inciderà per nulla sulle radicate e strutturate perversioni dell’istituzione totale.



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