Caso Cospito. Una riflessione sul 41 bis e le sue applicazioni

Esiste o meno nei confronti dell’anarchico Cospito, e dell’organizzazione criminale di riferimento (movimento anarchico) quella situazione di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico che costituisce il presupposto per la sua sottoposizione al “carcere duro”?

Michele Marchesiello

L’articolo della condirettrice di MicroMega Cinzia Sciuto sul “caso Cospito” e l’articolo 41 bis mi dà lo spunto per alcune considerazioni, a partire dalla costituzionalità dell’attuale regime ex art.41 bis.

È riconosciuto da tutti i ‘tecnici’ che la disciplina in questione trae origine – storicamente – dalla specifica realtà mafiosa e dalla constatazione che molti detenuti per mafia continuavano ad ‘interagire’ con l’organizzazione esterna, approfittando della condizione relativamente ‘libera’ della carcerazione ordinaria quanto alla possibilità di comunicare con l’esterno e riceverne messaggi. Nessuno – che consideri la cosa senza pregiudizi – critica poi il fatto che quel regime sia stato esteso ad altre realtà criminali particolarmente gravi e allarmanti, di natura terroristica o eversiva.

Ciò su cui si deve o si dovrebbe essere d’accordo è che le misure all’art.41 bis non sono in nessun modo dirette ad aggravare la pena, o “punire” ulteriormente il detenuto, ma – piuttosto – a impedirgli la possibilità di comunicare con un “esterno” del tutto peculiare: vale a dire con una organizzazione criminale ancora efficiente e operativa, tale da mettere concretamente a repentaglio la sicurezza e l’ordine pubblici, oltre che l’efficacia della misura detentiva.

Di conseguenza, il regime dell’art.41 bis non è – di per sé – una caratteristica connessa necessariamente e automaticamente al fatto di avere subito la condanna per un certo tipo di reato: è, piuttosto, uno strumento “tecnico” da adottarsi nei confronti di specifiche situazioni, ben individuate, sula base di una serie di valutazioni che il Ministro della Giustizia deve fare con decreto motivato e sentite le autorità giudiziarie interessate. Ha durata fissata nel tempo (quattro anni) e può essere rinnovato di due anni in due anni nel perdurare della situazione che l’ha giustificato. Il regime ha caratteristiche ben precise e – per quanto possibile – limitate nell’afflittività. Chi ne è colpito può proporre reclamo al tribunale di sorveglianza e – di seguito – ricorrere in Cassazione. Possono visitarlo, oltre ai parlamentari e ai consiglieri regionali, i garanti dei detenuti nazionale, regionali, comunali e metropolitani.

Non vi è dubbio che l’applicazione del regime più ‘duro’, anche se giustificato e coperto dalle necessarie garanzie, sostanziali e procedurali, incida in modo significativo sulla condizione carceraria di chi vi è sottoposto e sui suoi diritti fondamentali. E, tuttavia, ciò non implica necessariamente un profilo di incostituzionalità, posto che sia intervenuto – da parte del legislatore – il necessario lavoro di bilanciamento tra i diversi ‘interessi’ che la Costituzione protegge ed esprime. Questo ‘lavoro’ deve tradursi in un rapporto di proporzionalità.

Nel caso in esame, il bilanciamento va effettuato tra il valore costituzionale dell’ordine e della sicurezza pubblici, e quello – egualmente protetto – della dignità della persona umana, che anche l’esperienza carceraria deve proteggere e addirittura rafforzare (la funzione “rieducativa”).

In questo senso, a me pare non vi siano particolari profili di illegittimità costituzionale, né che – così come è congegnato – il meccanismo del 41 bis implichi significative e non necessarie limitazioni sul piano dei diritti della persona. Si deve piuttosto pensare a dei correttivi che ‘individualizzino’ la misura, sia per quanto riguarda i suoi presupposti, che la durata (quattro anni sembrano troppi), che la possibilità di chiederne in ogni momento la revoca essendone venuti meno i presupposti.

Il problema è a questo punto – come dicono i giuristi – di merito.

Esiste o meno nei confronti dell’anarchico Cospito, e dell’organizzazione criminale di riferimento (movimento anarchico) quella situazione di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico che costituisce il presupposto per la sua sottoposizione al “carcere duro”? Non basta, evidentemente, la considerazione della gravità dei reati per cui Cospito è stato condannato all’ergastolo. Per quello è sufficiente l’entità della pena inflittagli: “fine pena mai” (o quasi).

Nulla da dire – invece – sulla più che ovvia doverosità degli interventi di carattere sanitario, volti a salvaguardare il bene della vita di chi, pur mettendola a rischio, mostra di tenervi.

A questo punto, mi siano consentite due rapide e conclusive considerazioni

Il modello – o format – del 41 bis è forse troppo rigido quando se ne considera la natura puramente “strumentale”. Prima di adottarlo in tutta la sua potenzialità afflittiva occorrerebbe valutare una serie di elementi, soggettivi e oggettivi, idonei a graduarne gli effetti in relazione al caso concreto. Dal punto di vista soggettivo, dovrebbe darsi il giusto rilievo alla personalità dell’imputato, alla sua condotta carceraria, alle eventuali iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime.

Oggettivamente, poi, occorrerebbe valutare la natura, l’estensione, la concreta pericolosità dell’organizzazione esterna di riferimento. Davvero pensiamo che il pericolo anarchico sia pari a quello provocato dalla mafia?  Molti di noi professano simpatia per gli anarchici in genere, mentre non è concepibile un atteggiamento analogo nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e organizzazioni similari.

L’applicazione automatica e impersonale del regime del carcere duro da parte dello Stato, infine, non può che portare a un irrigidimento delle posizioni, come la sventurata vicenda di Aldo Moro non ha insegnato abbastanza. Così come Cospito sbaglia nell’agganciare la sua protesta alla pretesa di un integrale abolizione del 41 bis, così lo Stato non dovrebbe cedere alla tentazione “pavolviana” di mostrarsi a sua volta irriducibile sul punto. Col risultato – che si vede già nel caso Cospito – di provocare assurdi e micidiali cortocircuiti o improvvide alleanze tra organizzazioni di ben diverso profilo, quali l’Anarchia e la mafia.

 

Foto Ansa



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