Caso Cucchi, colpevoli e prescritti

Cade in prescrizione l'accusa nei confronti del maresciallo Mandolini da cui, secondo la sentenza di primo grado, sarebbe partito l’impulso a truccare le carte delle indagini all’indomani della morte di Stefano Cucchi dopo un calvario di una settimana.

Checchino Antonini

La Cassazione ha dichiarato prescritto il reato di falso per i carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco già condannati in uno dei processi per la morte di Stefano Cucchi, il cosiddetto “caso Cucchi”. I giudici della Suprema Corte hanno annullato senza rinvio riconoscendo il reato estinto per intervenuta prescrizione. Nel processo di appello bis, nel luglio scorso, Mandolini era stato condannato a tre anni e sei mesi e Tedesco a due anni e 4 mesi. Quest’ultimo è il militare dell’arma che con le sue dichiarazioni aveva fatto riaprire le indagini. E Mandolini quello che disse a colui che sarebbe diventato il supertestimone: “Tu non ti preoccupare, devi dire che stava bene. Tu devi seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere”.

“Colpevole e salvato dalla prescrizione”, ha annunciato su Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e ora senatrice eletta nelle liste di Alleanza Verdi Sinistra dopo essere divenuta una delle portavoci più note delle battaglie contro gli abusi in divisa.

Il maresciallo Mandolini era il comandante della stazione dei carabinieri dove fu portato suo fratello Stefano dopo il fermo. Secondo la sentenza di primo grado, è stato Mandolini a dare il via a una concatenazione di falsificazioni che sarebbe continuata su input di alcuni ufficiali ed è stata oggetto di un processo specifico sui depistaggi. In questi anni di processi abbiamo appreso che il maresciallo è un tipo ambizioso, secondo i suoi sottoposti voleva gonfiare il numero degli arresti per mettersi in luce con i suoi superiori. Pochi giorni dopo il delitto Cucchi ci fu un corteo nel suo quartiere, Torpignattara, e qualcuno raccontò come in quel periodo quel quadrante della periferia romana sembrava il far west per come fossero “bruschi e disinvolti” i tutori dell’ordine.

Insomma sarebbe partito da questo maresciallo l’impulso a truccare le carte delle indagini all’indomani della morte di Cucchi dopo un calvario di una settimana, dal pestaggio violentissimo al momento del fotosegnalamento fino al “repartino”, ossia il reparto penitenziario del Pertini passando per un’incredibile udienza di convalida in cui nemmeno la giudice e l’avvocato d’ufficio si sarebbero resi conto delle gravi condizioni del detenuto e poi ancora la spola tra Regina Coeli e il pronto soccorso del Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina. Il depistaggio puntò a cancellare le tracce del pestaggio e a scaricare le responsabilità sulla polizia penitenziaria e sui medici del Pertini. La verità sarebbe venuta a galla solo grazie alla controinchiesta condotta dall’avvocato Fabio Anselmo, “veterano” di storie di malapolizia (Aldrovandi, Uva, Budroni, Ferrulli, Magherini ecc…).

Il primo scoglio da superare è stato quello del muro di gomma eretto dai livelli più alti: l’allora ministro La Russa, oggi presidente del Senato, pronunciò un anatema a reti unificate contro chiunque avesse sospettato dei carabinieri: «Non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Pochi giorni dopo la morte, il 26 ottobre 2009, i vertici romani dell’Arma inviarono tre note di «plauso» e «apprezzamento» alla compagnia dei carabinieri che aveva operato l’arresto del geometra, deceduto 4 giorni prima, una settimana dopo essere stato arrestato per droga.

E un cono d’ombra avrebbe avvolto per anni l’Arma, finché le testimonianze di alcuni carabinieri, a sei anni dai fatti, non permisero con «elementi di dirompente novità» nuove indagini e l’approdo a due processi per una varietà impressionante di abusi in divisa, uno per il delitto, l’altro per la catena di depistaggi e falsificazioni stati ordinati ed effettuati da ufficiali, sottufficiali e militari della Benemerita.

Già nel processo di appello il rischio prescrizione per Mandolini era concreto. Il procuratore generale aveva chiesto di dichiarare non ammissibili i ricorsi. Per i due imputati la Cassazione aveva disposto un secondo processo d’appello il 4 aprile scorso, giorno in cui ha reso definitive le sentenze a 13 e 12 anni per militari dell’Arma, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale in quanto ritenuti gli autori materiali del pestaggio di Cucchi avvenuto il 15 ottobre del 2009 nella caserma Casilina dove era stato portato dopo il fermo effettuato durante un controllo in cui fu trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Il giovane venne picchiato, preso a calci e pugni.  Mandolini e Tedesco erano accusati di avere falsamente attestato, nel verbale di arresto di Cucchi, la rinuncia da parte del giovane romano alla nomina del difensore di fiducia. Nelle motivazioni con cui gli “ermellini” avevano disposto un nuovo processo di appello si affermava che gli imputati avevano “soprattutto omesso di menzionare quanto realmente accaduto durante il tentativo fallito di effettuare i rilievi fotosegnaletici” a Cucchi e in particolare avevano taciuto sulla “partecipazione del Di Bernardo e del D’Alessandro alle operazioni di arresto”.

Nelle motivazioni della sentenza dell’appello bis si legge che “il reato commesso da Mandolini è connotato da rilevante gravità, sia con riferimento alla capacità  a delinquere – perche’  l’immediata falsificazione è rivelatrice dell’abilità di reagire, anche commettendo illeciti, senza frapporre all’azione delittuosa titubanze o meditazione -, sia per l’intensità del dolo intenzionale, sia per l’entità delle conseguenze della condotta, posto che il falso nel verbale di arresto va individuato come la madre dei successivi depistaggi che hanno inizialmente sviato le indagini sugli autori della violenza subita da Stefano Cucchi verso gli agenti della Polizia Penitenziaria”.

I giudici di secondo grado aggiungono che “non deve omettersi, nella valutazione di elevata gravità  del delitto e con riferimento alla condotta contemporanea al reato, che il Mandolini, quando ha commesso il fatto, rivestiva, quale comandante interinale della Stazione Carabinieri Appia, una posizione di garanzia dell’integrità dei ristretti per l’attività  di servizio, e che i doveri inerenti quella posizione sono stati violati, oltre che con la condotta di falso finalizzato a coprire la violenza subita dal Cucchi, con la denegata tutela connessa all’assenza di cure tempestive che sarebbero state prestate a Cucchi se il comandante della Stazione avesse, come era suo dovere fare, immediatamente attivato i controlli sanitari anche solo per la verifica che lo stato di Cucchi, dopo le botte, non richiedesse interventi medici ulteriori e in modo tale da rassicurare l’arrestato sulla, doverosa, stigmatizzazione ambientale dell’abuso commesso dai pubblici ufficiali che lo avevano in custodia”. Una condizione che “avrebbe certamente prodotto la rivelazione precoce delle sofferenze patite” dal trentenne e “auspicabilmente l’interruzione della serie causale che ha condotto alla sua morte”.

È fondamentale che le motivazioni della sentenza non restino confinate nei polverosi archivi del tribunale. “La conducente univocità  probatoria dei fatti e la mancanza di una plausibile spiegazione alternativa inducono a ritenere provato che il Mandolini avesse avuto notizia del pestaggio al momento della chiusura e sottoscrizione del verbale di arresto e che, dunque, avesse consapevolmente ed intenzionalmente omesso di menzionare i due autori della violenza su Stefano Cucchi fra gli operanti l’arresto e di riferire del comportamento oppositivo del Cucchi al momento dell’identificazione per accertamenti dattiloscopici e fotosegnaletici”, scrivono ancora i giudici di secondo grado di Roma nel luglio 2017 per spiegare che “ricorrono dunque, tutti gli elementi del reato di falso commesso dal pubblico ufficiale per occultare un altro delitto ed assicurare ad altri l’impunità per altro reato e consistito nell’omissione dell’attestazione di fatti destinati a provare la verità”.

Per quanto riguarda la posizione di Tedesco i giudici affermano che ha violato il suo dovere di denuncia, fornendo un contributo minore, ma non minimo, alla consumazione del reato di falso; che lungi dall’essere di modesta gravità, ha rappresentato l’origine di una serie di comportamenti devianti realizzati a cascata, reiterati nel tempo per anni, tentando sempre di allontanare gli inquirenti dal reale accadimento dei fatti”. E ancora : “Non si vuole certo qui sminuire il coraggio dimostrato dal Tedesco quando è intervenuto nell’immediatezza in favore di Cucchi e, seppure tardivamente, a favore dell’accertamento della verità si vuole solo evidenziare che nella presente vicenda diversi sono gli elementi da considerare nella commisurazione della pena, diversi e di segno opposto, rispetto ai quali la sintesi attuata dal primo Giudice appare a questa Corte assolutamente condivisibile, così come il giudizio di comparazione – in termini di equivalenza – formulato relativamente alle attenuanti generiche già  riconosciute all’imputato; piuttosto, tenuto conto delle conclusioni favorevoli all’imputato raggiunte a proposito di una delle condotta di falso contestate la pena deve essere ridotta della misura di mesi due di reclusione”. Durante il processo Ilaria Cucchi denunciò anche che la difesa di Roberto Mandolini sostenne che fosse  “una consuetudine da parte delle forze dell’ordine maltrattare e pestare gli arrestati”, e  che “c’è stata troppa attenzione per questo su quanto accaduto a Stefano”.

Negli anni avremmo messo a fuoco anche la figura di Mandolini e la sottocultura che prevede la «consuetudine di ciancicare gli arrestati». Il blog Popoffquotidiano lo ha descritto come il “maresciallo felice”, come lui stesso, con i post sui social, affermava di essere i primi giorni di gennaio 2016: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli…». Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembrava convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”.

Anche le intercettazioni dei suoi uomini forniscono uno spaccato inquietante della visione del mondo che li ispira: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie», dice uno dei tre indagati per il pestaggio, lo stesso che l’ex moglie rimprovera di essersi divertito a pestare Cucchi. Dirà la donna agli inquirenti che quel pestaggio non fu un caso isolato: «Quando raccontava queste cose Raffaele rideva e, davanti ai miei rimproveri, rispondeva “Chill è sulu nu drogatu e’ merda”».



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