E Delia rispose. “C’è ancora domani” è il film-gioiello di Paola Cortellesi

Il grande successo del film opera prima di Paola Cortellesi "C'è ancora domani" sta nel suo carattere popolare, un film della e per la gente comune che parla attraverso la lente femminista senza essere un film didascalicamente femminista. Dice la rivoluzione incompiuta delle donne e ci spinge a portarla avanti.

Federica D'Alessio

Si sta dicendo tantissimo sul film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Un film dall’anima fortemente popolare, opera prima alla regia di un’artista cresciuta nel cinema, con una cultura cinematografica anch’essa fortemente segnata dal carattere popolare. Film della e per la gente comune, finalmente. Film di donne e su donne che abbiamo conosciuto, che siamo noi. Donne di famiglia. Nostre nonne, bisnonne, madri. Un film che attraverso la lente femminista racconta una generazione di donne che è ancora viva, non solo e non tanto anagraficamente ma nella memoria fisica, corporea e sociale, di una intera popolazione.

Didascalico, ha detto qualcheduno per criticare il film, infastidito chissà, probabilmente, dal ritratto impietoso che Cortellesi fa della mentalità maschilista trasmessa per educazione paterna. Eppure basta mettere un attimo a confronto due grandi opere a tematica femminista uscite al cinema da pochi mesi, questo film con Barbie, per vedere subito quale dei due è didascalico e perché. La storia di finzione di Greta Gerwig sciorina a suon di spiegoni tutto il corso di “gender studies” dell’Università, e dove quei corsi non arrivano, per esempio nello spiegare che genere di rapporto antropologico esiste fra la storica ferocia maschile e la necessità di autodifesa delle donne, lì non arriva neanche il film. La storia raccontata da Paola Cortellesi non fa lezioni di nulla a nessuno; neanche di cinema. Si prende la libertà di usare più linguaggi, più suggestioni, più prestiti per dare vita a una sensibilità tutta propria, per raccontare la violenza in un tempo in cui nessuno neanche la definiva così. In cui era “lessico famigliare” la necessità di affermare un’autorità maschile dentro le mura di casa con un contrappunto di botte e di offese; dove gli uomini sì comandavano, ma non facevano nulla. A tutto pensavano le donne.

E Delia pensa a tutto. Delia corre, Delia lavora, Delia fa la spesa e cucina, Delia rammenda, Delia sogna per la figlia un matrimonio speciale; Delia è una donna comune, una sopravvissuta alla guerra, Delia ama; ama uomini, ama i suoi figli, ama le sue amiche, ama il prossimo suo e lo aiuta. Ama sé stessa, anche, e lo comprende nel momento in cui è la figlia, con uno schiaffo critico, a ricordarglielo. Cerca la sua dignità, prova ad affermarla, e lo fa con accortezza e delicatezza. Non crea conflitto in casa, si limita a dire, di tanto in tanto, quello che sarebbe necessario. Eppure è sufficiente per beccarsi il sigillo dell’autorità patriarcale domestica, “risponne”, “c’ha er difetto che risponne”. A quante di noi si è formato un groppo in petto, al sentir pronunciare dal nonno quella semplice frase? È ciò che ci siamo sentite dire tutte, o prima, o poi. Nel 1946, negli anni Settanta, negli anni Novanta, e ancora nel 2023. Risponnemo, risponnemo. Il nostro difetto è che risponnemo.

E infatti abbiamo risposto. Le donne risposero, e lo fecero politicamente. E lo fecero portando con sé i figli e mettendosi il vestito buono, e indossando il rossetto e poi togliendoselo con un gesto fiero. E le donne risposero perché già da molto prima avevano cominciato a risponne, e a dire che credevano anche loro nella politica, ma la politica non credeva in loro, perché le escludeva. E le donne risposero con la prima ondata femminista, e poi con la militanza nei movimenti operai, anarchici e socialisti, e poi con la Resistenza, e poi con la democratizzazione. E le donne risposero, ma ai loro pianti dentro casa non rispondeva ancora nessuno. E le donne risposero, ma le loro figlie, come Marcella, vedevano che qualcosa che non tornava, perché contare nella democrazia, essere cittadine, era diventato possibile fuori casa, ma non aveva cambiato i rapporti di autorità né dentro le mura domestiche, né nei posti di lavoro. E le donne risposero, ma le istituzioni da stravolgere sono tante, e lo Stato non è che una, e forse non è neanche la principale. E le donne risposero, e a cavallo fra prima e seconda ondata femminista, cominciarono a dare un nome a quello che vivevano. Alla liberazione e alla violenza, a sé stesse come soggetto e alla vita che facevano come sistema di oppressione. Tutto questo il film di Paola Cortellesi suggerisce, con umiltà e con rispetto, senza lezioncine appunto. Un film didascalico, dicono; in realtà “C’è ancora domani” è un film profondamente anti-didascalico, che cerca attraverso un immaginario a più linguaggi, quello filmico e quello musicale, la danza, la fotografia, di non cadere nelle ricette facili. Si prende le sue licenze, e rivendica le sue ingenuità, con alcuni espedienti narrativi (uno, in particolare) che richiedono una sospensione dell’incredulità forse un po’ eccessiva. Mescola i generi e i registri senza chiedere il permesso, ci fa passare dal grande dolore e poi però stempera con quell’ironia cinica e umanissima al tempo stesso, così tipicamente romana, che è la matrice della commedia all’italiana. Usa i nostri ricordi familiari, si richiama alla vita popolare che è la vita di tutti, perché siamo tutti figli e nipoti di quella povertà, anche chi oggi non sembra ricordare com’era la vita prima del lifestyle borghese e consumista. Non indugia nel rappresentare la violenza ma ci fa vivere lo strazio del subirla. Non la nomina, ma ce la racconta. Non condanna gli uomini ma li mostra nella loro pateticità, figuri sempre ansiosi di coprire di potere e autorità la piccineria. Non parla femminista ma mostra la rivoluzione del rapporto fra donne quando comincia a intrecciare il piano personale con quello politico, passando il testimone da madri a figlie. Prima c’era da ottenere il diritto di partecipare pienamente alla politica, poi sarebbe stato il momento di fermare, attraverso la politica, l’oppressione dei rapporti personali.

Ma la politica non basta. Come avrebbero compreso le donne negli anni successivi, per immaginare e sperimentare una vita diversa per le donne e gli uomini è necessario un senso di sé umano a tutto tondo, un’autocoscienza, individuale e collettiva, capace di radicare il cambiamento nella vita intima. La storia, dopo Delia, è andata avanti. La violenza maschile contro le donne non si è fermata, la malapianta della misoginia non è stata estirpata. Il potere patriarcale è stato contenuto a livello istituzionale ma non c’è stata ancora una invenzione delle donne tale da riuscire ad affermare un potere antropologicamente diverso, una cultura altra di quel delicato terreno delle relazioni intime fra i sessi e con i bambini.

La famiglia si è rivelata un’istituzione molto più perniciosa dello Stato, perché chiama in causa un sentimento di appartenenza, fedeltà e devozione non patriotticamente astratto ma umanamente concreto; un sentimento che le madri hanno proiettato sui figli, ma che in realtà a lungo hanno dovuto ai padri. La rivoluzione delle donne non è ancora completa perché non abbiamo ancora capito come rovesciare questa appartenenza, come sottrarla alla linea patriarcale e come dissociarla dall’obbligo di fedeltà al clan/famiglia; la quale è rimasta quella finestra aperta attraverso la quale rientra la sottomissione, per le donne, anche nello Stato, in termini di subordinazione economica, di difficoltà sistemizzata a difendersi dalla violenza, riconosciuta come un delitto contro la persona neanche 30 anni fa, e tuttora sottovalutata; come sottovalutate sono le denunce delle donne che, se opportunamente ascoltate, avrebbero salvato la vita a migliaia di noi nel corso di tutti questi anni. Procediamo per tentativi, molti sono monchi, alcuni falliscono, altri riescono a metà. Ma andiamo avanti, con Delia e Marcella, con chi nascerà. C’è ancora domani.



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