Milite ignoto. Eroe guerriero o vittima innocente?

Nel centenario del Milite Ignoto, se vogliamo commemorare quei soldati senza nome abbiamo il dovere di capire perché sono morti, senza scorciatoie di comodo e false credenze.

Alessandro Brescia

Erano queste le parole con cui Giacomo Matteotti nel 1923, pochi mesi prima di essere rapito e poi ucciso, esortava Filippo Turati a non partecipare alla manifestazione milanese del 4 novembre. Il Milite Ignoto, era una vittima innocente non un eroe guerriero, di quella guerra (nessuno sapeva ancora che si sarebbe dovuto numerarle) sfuggita di mano a classi dirigenti miopi, tra corsa agli armamenti, mire imperialiste e alleanze militari, farcita con la retorica del patriottismo usato alla bisogna per alimentare il consenso da élite politiche e interessi di parte.

Ma ormai era troppo tardi. Il mito era già stato creato. Due anni prima, lo stesso giorno del 1921, la salma prescelta da Maria Bergamas (in rappresentanza di tutte le madri italiane che avevano perso il proprio figlio), in un viaggio-processione, era arrivata da Aquileia a Roma, rappresentando di fatto, come in una sorta di catarsi, la consacrazione di un sentimento d’unità nazionale ancora fragile, cui si era tentato di dare forza due anni prima, il 4 novembre del 1919, con l’istituzione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, per completare il processo di unificazione risorgimentale, celebrando la memoria della “grande guerra”, così definita per l’eroismo e il patriottismo dei soldati che sacrificarono la propria vita per la patria.

In seguito il Milite Ignoto sarebbe diventato, in Italia come altrove, il simbolo di tutti i caduti e i dispersi in guerra, tant’è che, ogni anno, il Presidente della Repubblica si reca all’Altare della Patria al Vittoriano per rendergli omaggio, oltre che il 4 Novembre, il 25 Aprile e il 2 Giugno.

Quest’anno all’ordinaria celebrazione del 4 Novembre si è aggiunto il centenario del Milite Ignoto, arricchendo oltremodo la retorica patriottica, dominante nell’immaginario collettivo. E così L’ANCI, l’Unione dei Comuni italiani, ha invitato le Amministrazioni comunali a conferire la cittadinanza onoraria al soldato senza nome. Iniziativa curiosa, dal momento che il Milite Ignoto era già cittadino italiano.

Di meglio ha fatto, la sera del 30 ottobre, TG2 Dossier in uno speciale dedicato: “la storia del Milite Ignoto è narrazione trascendente del dolore di Maria di Nazareth che lascia andare in volontario olocausto il figlio di Dio nato dal suo grembo per riscattare l’umanità intera. Il viaggio del Milite Ignoto attraverso l’Italia diventa metafora eternamente contemporanea dell’infinita devozione di ogni donna e di ogni madre al suo figlio”. Ancora, intervistando il cappellano di Nassirya: “Maria Bergamas, la madre di questo militare, anche lei perde un figlio, ma mentre Gesù dona la vita per la salvezza del mondo, il militare perde la vita e la dona per la salvezza della Patria, della sua nazione”.

Ancora una volta la narrazione del mito, già intriso di eroismo bellico e patriottismo, si rafforza della dimensione religiosa, come un suggello sacro. Il sacrificio di Gesù spiega il sacrificio del soldato. L’inevitabilità della Croce accostata all’inevitabilità della sorte dell’eroe in battaglia. Tutto è compiuto. E così, nella commemorazione salvifica del lutto collettivo si celebra la consolazione che restituisce senso a ciò che senso non ha: un figlio che muore, e senza una valida ragione.

Quale fosse la valida ragione per restare lì nel fango delle trincee se lo chiedeva l’altro milite ignoto, quello di cui poco si racconta. Strappato agli affetti e catapultato in una realtà brutale, di giorni e settimane che diventavano mesi, fatta di terrore per gli attacchi, paura dei cecchini tra assalti a sorpresa e bombardamenti d’artiglieria, sotto una disciplina durissima in condizioni disumane. Anche di questo scriveva nelle sue lettere censurate dal fronte, dai governi italiano e di mezza Europa quando cominciarono a crescere i fenomeni di ammutinamento di soldati di ogni nazionalità. Solo in Italia oltre 870.000 le denunce, 350.000 i processi e 110.000 le condanne per diserzione. La guerra che doveva essere di posizione e durare poco, si stava trasformando in “un’inutile strage” che anche il Papa non poté che riconoscere, mentre i governi intensificavano l’attività di repressione e propaganda.

Questa “versione della memoria” ha da sempre rappresentato un “rapporto di minoranza”, anche perché neanche un anno dopo le celebrazioni, dall’ottobre del 1922 dalla marcia su Roma in poi, il fascismo si sarebbe appropriato del simbolo del Milite Ignoto per la propria ascesa, distruggendo monumenti e lapidi “alternativi” il cui obiettivo era sì quello di mantenere vivo il ricordo ma in opposizione alla guerra, come riporta l’iscrizione sul monumento ai caduti di Tolentino: “Possa la santità del lavoro redento/fugare e uccidere per sempre/il sanguinante spettro della guerra/per noi e per tutti le genti del mondo/questa la speranza e la maledizione nostra/contro chi la guerra volle e risogna”.

È proprio questo il paradosso della Prima guerra mondiale. Nonostante sia stato uno dei più sanguinosi conflitti della storia umana, lasciando sul campo oltre 15 milioni di morti, più di 20 milioni di feriti e mutilati, tra militari e civili (un baratro in cui è sprofondata l’Europa della Belle Époque), anziché fare da monito a non ripetere l’assurdità e la tragicità della guerra, non è stato altro che il prologo della Seconda guerra mondiale. Il disordine geopolitico che è seguito al Trattato di Versailles, il proliferare di forme di esaltazione della guerra e di celebrazione dell’eroismo nazionalista ne sono stati i frutti avvelenati che hanno aperto la strada al fascismo e al nazismo, culminati nell’abisso di lager, genocidi e armi atomiche.

Ora, negli ultimi decenni abbiamo visto trionfare la solita retorica di commemorazioni eroiche e celebrative, condite di sacralità, retaggio di una credenza del passato ancora viva, spesso strumentalizzata dai partiti di destra. Peraltro, non sarebbe intellettualmente corretto dare un giudizio su quegli uomini e quelle donne di 100 anni fa che commosse ai bordi delle strade hanno visto passare il feretro del soldato senza nome, figlio di tutti, perché di tutti rappresentava il dolore. È necessario, come sempre, contestualizzare. Ma dopo 100 anni come possiamo ancora ripetere in maniera stantia i medesimi riti per celebrare gli stessi miti, continuando a rimuovere dalla coscienza collettiva le parti scomode, svilire il senso critico, anziché fare i conti con la realtà dei fatti?

Eppure la guerra che ha combattuto Piero la conosciamo tutti. Quanti De André devono ancora nascere per raccontarci di Maria che nella bottega vide un falegname intento a preparare “tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare”. Quanti Don Milani devono ancora passare a spiegarci che quell’obbedienza non è stata una virtù, perché ha permesso a quegli uomini terribilmente normali di compiere atti drammatici.

A distanza di cento anni abbiamo il dovere, se davvero vogliamo celebrare quei giovani sepolti chissà dove in un campo di grano, di chiederci e di capire perché sono morti, senza scorciatoie di comodo e false credenze. E se vogliamo ancora commemorare un soldato, allora il disertore è il soldato da additare quale esempio per le nuove generazioni. Colui che si rifiuta di obbedire perché ha capito che per difendere la propria patria deve distruggere quella di suo fratello.
Non c’è patriottismo più grande che difendere la Patria cui tutti apparteniamo, quella del genere umano.

 

(foto Di Darafsh – Opera propria, CC BY-SA 3.0, wikimedia.org)



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