Da Marx ai Parioli. Luciano Canfora racconta la metamorfosi dal Pci al Pd

“Perché la «sinistra» non solo ha archiviato tutto il suo «bagaglio» ma è ridotta ad attestarsi – quale nuova «linea del Piave» – sul binomio liberismo-europeismo?”. Nel centenario della nascita del Partito comunista italiano, cerca di rispondere a questo interrogativo “La metamorfosi” (Laterza, 2021), il nuovo saggio dello storico Luciano Canfora, professore emerito all’Università di Bari.

Roberto Vignoli

“Perché la «sinistra» (esitante ormai persino a definirsi tale) non solo ha archiviato tutto il suo «bagaglio» ma è ridotta ad attestarsi – quale nuova «linea del Piave» – sul binomio liberismo-europeismo?”. Parte da questo interrogativo “La metamorfosi” (Laterza, 2021), il nuovo saggio dello storico Luciano Canfora, professore emerito all’Università di Bari. Nel centenario della nascita del Partito comunista italiano, in queste pagine Canfora ripercorre “il cammino che ha condotto una formazione politica (quella educata nel Pci), per progressive trasfigurazioni, a farsi alfiere di valori antitetici rispetto a quelli su cui era sorta” e a perdere contatto con i gruppi sociali di riferimento, “il cui consenso veniva dato ottimisticamente per scontato”. Tutto questo, spiega Canfora a MicroMega in questa intervista, “è il risultato del non essere più comunisti ma neanche socialdemocratici, un nulla che parla ormai a chi vive ai Parioli e dintorni, dimenticandosi della realtà”.

Professor Canfora, proviamo a tratteggiare le tappe principali di questa vera e propria mutazione antropologica del maggior partito della sinistra italiana.

Il Partito comunista nasce nel 1921 con l’obiettivo della rivoluzione socialista in Italia, subito, come in Russia, Ungheria, Baviera, Sassonia. Ma dopo che nel novembre 1926 viene messo fuorilegge dal regime fascista, e i dirigenti arrestati o costretti alla clandestinità e all’esilio, il programma del partito cambia: non più la rivoluzione, difficile da attuare, ma la lotta al fascismo. Non più dittatura del proletariato e abrogazione del capitalismo ma fronte popolare, larghe alleanze e programma democratico. Momento alto di questa vicenda è la guerra di Spagna nel 1936-39, con Longo a capo delle Brigate Internazionali e Togliatti commissario politico delle medesime.

L’obiettivo di una larga alleanza antifascista si rafforza con il “partito nuovo” di Palmiro Togliatti.

Sì, dopo la caduta di Mussolini nel ’43, la politica del Partito Comunista di Palmiro Togliatti è la larga alleanza antifascista e le grandi riforme nazionali. Questo programma, completamente diverso dalla rivoluzione anticapitalistica del 1921-26, ha poi un duro arresto con la Guerra Fredda. Dopo la morte di Togliatti nel ’64 c’è uno scontro di linea nel partito. Giorgio Amendola propone la riunificazione coi socialisti e la creazione di un grande partito di sinistra socialdemocratico/laburista. Ma la proposta non viene accolta a causa della resistenza di una parte dell’apparato.

La tappa successiva è il Pci di Berlinguer.

Dopo la segreteria Longo e l’apertura al fuoco di paglia del ’68, Berlinguer inventa l’araba fenice: la terza via, perché non bisogna essere socialdemocratici ma nemmeno più bolscevichi. Sull’onda della politica delle “mani pulite” contro la corruzione governativa, il Pci ha grandi successi elettorali senza avere una strategia vera. Dopo che gli Stati Uniti ammazzano Allende e piazzano i generali in Cile, nel ’73 la linea politica di Berlinguer diventa il “compromesso storico”, l’alleanza possibilmente larga con la Democrazia Cristiana e chi altro ci sta. Ma con il sequestro Moro è l’America che decide la nostra politica, ponendo un fermo a questa linea. E Berlinguer ritorna all’alternativa di sinistra.

Arriviamo all’89 e alla “svolta” di Achille Occhetto.

Il partito è ormai senza una chiara linea strategica. Quando nell’89 un mediocre come Occhetto scopre l’ombrello e decide che l’era comunista è finita perché crolla il mondo dell’Est, scioglie il partito quasi che questo fosse corresponsabile della politica sovietica degli ultimi cinquant’anni. Il seguito rasenta il comico. Abbiamo Pds, Ds e alla fine Veltroni che fonda il Pd, nel cui Pantheon ci sono le persone più diverse – Gobetti, Bobbio, Gandhi, Luther King – tutti tranne socialisti e comunisti. Il partito viene chiamato democratico per devozione a John Kennedy – una specie di feticcio nella testa di questi signori – e rinuncia a tutta la storia del movimento socialista mondiale: il programma dei socialisti tedeschi, quello di Erfurt del 1898, quello di Heidelberg del 1925, quello di Bad Godesberg del 1959. Tutto questo viene considerato come vecchiume da dimenticare. Grazie alle scelte dissennate dei dirigenti del Pd, non molto preparati, oggi siamo all’idolatria verso l’europeismo, un concetto privo di contenuto. È l’unico pensiero che naviga in queste teste, ma non vuol dire nulla.

Nel libro un capitolo è proprio dedicato all’europeismo, lo definisce “l’internazionale dei benestanti”. Per quale motivo?

L’invenzione della moneta unica ha dimezzato il valore reale del salario in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo. Non altrettanto in altri paesi. Perché? Perché creare una gabbia d’acciaio o, come ha scritto Tremonti, un “fascismo bianco” al vertice dell’Unione europea, comporta che le classi deboli prendano le botte. Questa è la sostanza delle cose. Questa presunta unione non ha una politica estera unitaria, non ha un effettivo governo unico. Ha soltanto la moneta unica agli ordini del capitale finanziario, con in più il vincolo demenziale di essere i camerieri e i portaborse degli Stati Uniti d’America, chiunque governi lì, sia Trump o altri diversi da lui. L’Ue è un aborto mostruoso, un gigante economico minorato senza nessuna autonomia, è agli ordini della NATO il cui comandante in capo è un generale degli Stati Uniti d’America.

Nel libro lei scrive anche che l’europeismo “non è che la figurazione romantica di una realtà intrinsecamente e prosaicamente iperliberista”…

Sì. Bisognerebbe chiedersi come è possibile che l’Inghilterra e la Russia, i due paesi che hanno salvato l’Europa prima da Napoleone e poi da Hitler, siano entrambi fuori dall’Unione Europea. È evidente che l’Ue non funziona, non ha neanche basi storico culturali degne di questo nome. Per non parlare della solidarietà, ad esempio sul tema gigantesco dei migranti – chi sta lontano dalle coste se ne infischia – o sulla questione dei vaccini, con la Germania che ha comprato sottobanco 3 milioni di dosi. Polemizzare talvolta è sterile, ma dire la verità non è inutile.

Che valutazione dà del nuovo governo Draghi che nasce proprio all’insegna dell’europeismo?

Il suo carattere composito è foriero di grandi preoccupazioni. Matteo Salvini è riuscito a piazzare un suo uomo come sottosegretario al ministero dell’Interno. Quindi la fisima di buttare a mare i migranti non l’ha abbandonato. Draghi fingerà di non vedere? Lo dovrà redarguire? Non sappiamo cosa farà. Che Draghi si proclami europeista fa sorridere, perché lui fa parte di quella élite che comanda in Europa infischiandosene di qualunque altro criterio che non sia quello econometrico. Per loro e nostra sventura, è successo che la natura, come avrebbe detto Leopardi, si è presa una vendetta. Ad aprile dell’anno scorso Angela Merkel disse: “passerete sul mio cadavere, ma mai Eurobond”. Lo Spiegel, un giornale centrista, l’attaccò accusandola di egoismo mostruoso. Poi il malanno è arrivato anche sulle rive della Sprea, come si diceva una volta, e quindi si è fatta strada un po’ di bontà d’animo. Ma il vice-presidente della Commissione europea Dombrovskis ci ha fatto sapere che nel 2022 tornerà il patto di stabilità. Ovvero, “per ora giocate con questi miliardi in prestito, ma poi bisogna ripianare il debito pubblico”. Non so cosa faremo. Ci venderemo la Sicilia?

Il suo libro si conclude con un interrogativo: “Potrà la odierna socialdemocrazia (fenomeno in prevalenza europeo), scoordinata com’è e frastornata, reggere alla prova della vittoria planetaria del capitale finanziario”? Che risposta è possibile dare?

Nella situazione odierna, così pregiudicata da tutti i punti di vista – distruzione dei partiti politici, in particolare di quelli che un tempo si chiamavano di sinistra, e sbandamento dell’opinione pubblica, in preda a pulsioni acritiche non più filtrate attraverso una militanza di partito – credo che quel che resta delle formazioni politiche meno irresponsabili dovrebbe concentrarsi sulla modifica radicale dei fondamenti stessi dell’Unione Europea. Solo di lì si può partire, cancellando tutta l’impalcatura punitiva esistente, allargando possibilmente l’orizzonte ai Paesi che ne stanno fuori, ponendosi il problema che il Nordafrica è parte integrante del Mediterraneo e liberandosi dalla tutela degli Stati Uniti d’America che fanno la loro politica, non la nostra.

Polemicamente nel libro cita alcune considerazioni di Mussolini sul capitalismo che, scrive, “potrebbero apparire persino un tantino sbilanciate a sinistra agli attuali dirigenti del Pd”.

Non c’è dubbio. In Mussolini c’è la consapevolezza che il capitalismo è agli inizi della sua lunga storia ma non è la fine della storia. Oggi nessuno degli esponenti del Pd osa dire che il capitalismo è un prodotto storico e, come tale, a un certo punto probabilmente si trasformerà fino a scomparire. Le varie forme che nella storia hanno caratterizzato la società umana si sono estinte, ne sono nate altre. Chissà perché questa dovrebbe essere eterna. Loro ormai pensano questo. Peccato.

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