Che bella sarebbe una scuola con più pensiero scientifico

L’inizio dell’anno scolastico è un'occasione per ripensare allo scopo della scuola per i cittadini di un Paese moderno, in grado di avvalersi dei benefici del pensiero scientifico. Nella rubrica Confronti ospitiamo articoli su temi di grande rilevanza sociale e politica che riteniamo possano dare lo spunto per un dibattito ampio e articolato fra visioni anche molto diverse fra loro.

Andrea Bedon

Il nuovo anno scolastico è iniziato. Milioni di studenti hanno già interrotto o si apprestano a interrompere l’ozio estivo per tornare a faticare sui banchi; e se potessero, sceglierebbero in larga parte di non farlo. La scuola è realmente “dell’obbligo”, ci si deve andare. Questo è ciò che conta. Se si chiedesse agli studenti il motivo per cui vanno a scuola si otterrebbero probabilmente solo lunghe liste di risposte di circostanza. Può essere allora davvero un buon esercizio domandarci, oggi, qual è il senso dell’andare a scuola. Per avere una migliore carriera? Se lo scopo fosse così individualistico, non ha senso che lo Stato italiano paghi per tutti. L’istruzione è pubblica perché lo scopo ultimo è il miglioramento della società in toto, che in effetti passa anche attraverso l’abilitazione a carriere di livello elevato, ma questo è mezzo di un fine più nobile e collettivo. Però, se lo scopo è la formazione di cittadini, possiamo dire che la scuola attuale lo raggiunge? Molti indizi attorno a questo interrogativo, e specialmente alcuni riguardanti l’importanza del pensiero scientifico nelle scuole, inducono preoccupazione.

Negli ultimi 30 anni, la rivoluzione informativa ha reso molto più semplice la circolazione di informazioni. Si è molto parlato delle conseguenze per la vita delle persone comuni, molto meno di come a livello specialistico molte discipline abbiano accelerato vertiginosamente il loro sviluppo grazie alla circolazione più semplice di dati e informazioni. È diventato molto più semplice scambiare informazioni a livello globale e questo ha accresciuto anche la capacità degli esperti di ogni campo di trarre conclusioni solide. È cambiato il modo in cui si prendono le decisioni ad alti livelli, che ora possono basarsi su conglomerati di dati molto più ampi e seguono un approccio cosiddetto data driven, ovvero guidato dai dati. Riassunto in poche parole, questo impone di analizzare utilizzando indicatori numerici la situazione in cui ci si trova, rilevare le casistiche simili che si sono presentate in passato, compararle con i risultati delle decisioni passate, e in tal modo scegliere tra il ventaglio di opzioni che possono considerarsi le più promettenti. Questo modo di fare emula il pensiero scientifico anche al di fuori delle sue terre natie: si formulano delle ipotesi per spiegare i fenomeni, che siano la crisi economica di un settore o l’aumento di consumo di alcolici, si verificano le ipotesi alla luce dei dati in proprio possesso e infine si formulano le decisioni. Le quali funzionano, nel senso che tendono a essere molto più efficaci di quelle prese a sentimento o secondo il cosiddetto buonsenso.

L’approccio data driven è applicabile a tutti i sistemi sufficientemente elaborati da avere le risorse per fare tali analisi, quindi anche a livello statale. Per un governo, questa modalità è in grado di dare indicazioni imparziali su come approcciare molte problematiche, che in fin dei conti sono molto poco fantasiose e tendono invece a ripetersi in maniera simile in periodi o luoghi diversi, quando non a permanere irrisolte per decenni.

È facile trovare alcuni esempi, assolutamente obiettivi, di informazioni ricavabili dai dati che tornerebbero di utilità per lo Stato italiano:

Sebbene queste affermazioni derivino da una lettura dei dati neutra e fredda, finiscono inopinatamente per assumere un colore politico e questo è un male, perché resta sul piatto una soluzione che è obiettivamente fallimentare ma magari accarezza gli istinti di parte della popolazione perché più comoda o affine ai suoi umori. Così il dibattito è impoverito e si fossilizza su posizioni inconciliabili perché manca l’accordo sull’accettazione del fatto (il “dato”) come perno della discussione e chi sostiene la soluzione fallimentare è impossibilitato a contribuire in modo costruttivo. Il novero delle scelte sensate resta appannaggio della controparte, che in assenza di un contraltare serio la distorce e aggiunge parti di colore politico facendole sembrare connaturate alla soluzione quando invece sono aggiunte spurie.

Un dibattito politico sano è arricchito dal pensiero scientifico perché questo eleva la discussione sulle spalle dei giganti e ciò evita di continuare a commettere gli stessi errori spingendo invece ad adottare soluzioni di efficacia dimostrata, rielaborate e arricchite nei connotati secondo le idee della comunità. Così funzionerebbe una democrazia moderna, che è tale se i suoi cittadini sono in grado di realizzare un dibattito in modo “scientifico”, basandosi sui fatti e inoltre distinguendo quelli reali da quelli falsi. Se questa capacità manca, ecco che riemerge sempre il rischio di populismo, inteso come il continuo ritrovarsi in ballo soluzioni comode che la cittadinanza dovrebbe saper respingere perché insensate quando non controproducenti.

La scuola prepara a questo approccio? La scuola prepara a comprendere un mondo complesso che usa mezzi sempre meno intuitivi per decidere dove andare? La domanda è così lontana dalle discussioni in corso che spiazzerebbe più che trovare risposte assennate. Ma non è grave questo, quanto più che la domanda non sia realmente mai posta in una scuola in perenne moto imperturbato uniforme, così arroccata da non accorgersi che il mondo sta andando avanti in un’altra direzione. Non è un mistero che qualsiasi tentativo di riforma abbia sempre incontrato opposizioni accanite, e che anche solo l’inserimento di test standardizzati per la valutazione delle competenze, i tanto vituperati INVALSI – PISA, sia puntualmente avversato. E forse è proprio in questo atteggiamento che si può tracciare la scia che porta fino al cuore del problema, più che nei risultati puntualmente deludenti a confronto con nazioni aventi uguali livelli di sviluppo economico.

Il test INVALSI, nella sua fattuale e brutale freddezza, “non tiene conto”, “non capisce” differenze, circostanze, condizioni; diventa vittima di quel relativismo fintamente intellettuale che nasconde sotto pretesti nobili il becero tentativo di fuggire perennemente dalle responsabilità e che, penetrato nel cuore culturale della nazione, fornisce la scappatoia d’elezione per fuggire dai fatti. Da lì, si riverbera in ogni aspetto della vita pubblica: a una stampa che si ritiene così svincolata dai fatti fino ad attribuirsi pure la licenza di cambiare i virgolettati a piacere, a politici con popolarità in doppia cifra percentuale che regolarmente proferiscono falsità, alla pubblica amministrazione paralizzata e che sfugge con indifferenza all’evidenza della sua inefficacia.

La scuola non si pone all’avanguardia del pensiero scientifico, a tutela della ragione intellettuale come convoglio delle pulsioni umane nella vita del cittadino moderno, ma si erge a nobile fortino di un’ideologia sorpassata, un costrutto psicologico per non costringerci a misurarci con la realtà ma piuttosto piegarla a uso e consumo del nostro preconcetto. Però, che la si consideri o no, la realtà procede incessantemente. A più di qualcuno sarà capitato di osservare che l’Italia si trascina gli stessi problemi ormai da trent’anni, nonostante siano passati governi di ogni colore politico. E allora proponiamo una soluzione rivoluzionaria, sbalorditiva, che nessuno ha mai avuto la forza di attuare: ripartiamo dalla scuola, insegniamo ai ragazzi a non trovare fughe dai fatti, ma ad accettarli nella loro fredda oggettività anche quando ci appaiono inconcepibili se non addirittura dolorosi. A usarli come fondamenta per costruire un futuro solido, aggredendo i problemi alla radice senza timore di rivedere presupposti che erano corretti solo all’apparenza. Questo è il pensiero scientifico.

Crediti foto: rawpixel.com / National Gallery of Art (Source)



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