Che sollievo un capro espiatorio che ci mondi dei nostri peccati!

Ora c’è un coro unanime contro Letta, ma le decisioni su come condurre la campagna elettorale sono state prese e condivise dalla direzione del Pd.

Teresa Simeone

Le elezioni hanno confermato ciò che i sondaggi degli ultimi mesi ci rimandavano, risultati non sorprendenti in termini di indicazione di deputati né di numeri. Che il centrodestra avrebbe vinto era già previsto, come si sapeva che il M5S, in caduta libera dopo le defezioni dei fuoriusciti, non avrebbe potuto che risalire, cosa che è successo dando a Conte, da solo nelle scelte e nella corsa, la designazione definitiva di vero leader, capace di tesaurizzare anche errori e insicurezze: ciò che è importante, infatti, non è “non” sbagliare, impossibile per esseri limitati quali siamo, ma riuscire a trasformare uno sbaglio in un’opportunità da sfruttare politicamente, cosa che ha saputo fare con intelligenza. Uscire dal governo Draghi, inutile nasconderselo, era stata una mossa, sollecitata da una base recalcitrante che un giorno sì e l’altro pure lo incalzava, non studiata con spirito di lungimiranza. A dimostrare che fosse percepita come tale anche dai pentastellati sono state le mille giustificazioni addotte subito dopo per addebitare la crisi di governo non alla mancanza della fiducia del M5S, ma alla “stanchezza” del Presidente del Consiglio che non vedeva l’ora, secondo loro, di lasciare la patata bollente nelle mani di qualcun altro. L’ambiguità dei toni, anche in riferimento alla guerra in Ucraina, inoltre, era il segnale di un’incertezza sul da farsi che poi si è andata definendo e lo ha portato progressivamente a smarcarsi. È stato uno sbaglio anche nei confronti dei partiti del Centrosinistra, con i quali aveva governato in serenità di intenti, contrastando la crisi pandemica e riuscendo, sostanzialmente, a costruire un fronte comune confermato durante il governo Draghi. Che poi le forze che hanno fatto cadere quest’ultimo siano astutamente e ideologicamente riuscite a trascinare il paese contro il governo dei migliori, cambiando la percezione generale, tanto che i sostenitori della cosiddetta agenda Draghi sono diventati i traditori del Paese, questa è stata un’altra operazione che si spiega solo con l’imprevedibilità delle campagne elettorali, la mutevole fluidità dell’elettorato e le scelte che di volta in volta si dimostrano vincenti.

Il sostegno del Pd e delle altre forze politiche di sinistra al M5S è stato, però, indiscutibile, testimoniato anche da misure antisistema come il referendum sul taglio dei parlamentari che poi si è rivelato un boomerang e che è stato un vero e proprio cedimento a Conte, accettato acriticamente per non incrinare un’alleanza che poteva preludere a più solidi esiti futuri. La posizione antidraghiana del Movimento è stata, perciò, a mio avviso, il primo errore che poi si è trascinato gli altri come una pallina su un piano inclinato perché ha creato le condizioni, queste sì, per la netta vittoria della destra. Se Conte fosse rimasto leale agli alleati, si sarebbero portate a termine le misure avviate dal governo e, nello stesso tempo, si sarebbe rafforzato il fronte anti-Meloni: avrebbero potuto vincere a marzo? Forse no, ma uniti se la sarebbero potuta giocare molto meglio di come è andata. Di certo Conte, sul piano personale, ha avuto una grande soddisfazione, dimostrando capacità nel risalire da quel 10% in cui era crollato il Movimento; non così Letta che, in coerenza con quanto dichiarato appena Draghi si è dimesso, non ha voluto ascoltare quanti gli chiedevano di allearsi con i pentastellati, con coloro cioè che avevano rotto il patto non solo col governo ma con lo stesso PD. È chiaro che la legge elettorale, voluta dal PD (e per penalizzare i pentastellati, NdR), impone coalizioni, come sapevano bene le forze di destra che, sia pure in disaccordo praticamente su tutto, si sono turate il naso e, tra mille distinguo e tattici silenzi, sono andate avanti verso la meta finale, cioè la conquista del potere. Il resto è cosa nota.

Ora c’è un coro unanime e feroce contro Letta, individuato come l’unico capro espiatorio, perfetto, data anche la sua natura moderata che gli occhi da tigre (ma chi lo ha consigliato in questo?) non sono riusciti a camuffare nemmeno per un istante: è così rassicurante trovare chi si carica dei peccati di tutti e va al sacrificio, immolandosi al sacro fuoco della giustizia! La verità, però, è che le decisioni su come condurre la campagna elettorale sono state prese e condivise dalla direzione nazionale del partito. In ogni caso è il segretario, la responsabilità è di chi guida e, quando si guida, si è soli. Ha sbagliato? Sicuramente, ma molto meno di quanto sia stato amplificato: il PD non è sceso a quel quasi 9% come la Lega di Salvini che, invece, i suoi non hanno avuto difficoltà a graziare e a riconfermare nella leadership, ma si è attestato su un 19% che è un dato sicuramente basso, ma non da Caporetto, considerando la nascita di Azione e IV in cui sono confluiti molti voti ex PD. Se si devono equiparare i dati, lo si faccia non tra sondaggi ma tra elezioni politiche, e questi vedono il PD perdere 800.000 voti, la Lega oltre 3 milioni e il M5S più di 6 milioni. Eppure si è indulgenti verso Salvini, plaudenti verso Conte e spietati nei confronti di Letta.

La sconfitta nel mancato obiettivo, comunque, c’è stata e Letta l’ha riconosciuta con onestà, dichiarando che non si candiderà e chiedendo al più presto un Congresso. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Darsi fuoco sulla pubblica piazza? Il suo errore più grande, probabilmente, è stato credere che il tratto prevalente degli italiani fosse l’antifascismo: non è stato il solo. Adesso, a posteriori, è comodo giudicarla come ingenuità ma prima delle elezioni si è molto discusso di un fronte che mettesse insieme tutte le forze antifasciste: i risultati hanno confermato che del pericolo fascista poco ne cale agli italiani e che ciò che l’operazione avrebbe comunque consentito sarebbe stata l’unione meramente numerica delle forze che si fossero coalizzate. Probabilmente la tendenza a destra è ancora un tratto inscindibile e caratterizzante la natura di tanta parte del popolo italiano. Tra l’altro Giorgia Meloni è stata abile nel neutralizzare paure e fantasmi del passato, utilizzando il solito doppio livello della comunicazione e soprattutto facendo un po’ di calcoli: lo zoccolo duro, i nostalgici e gli intransigenti, sono comunque una minoranza mentre quelli che fanno numero, i moderati, sono molti di più, come è risultato nelle urne. Di fatto ha reso inefficace, con la conseguenziale prudenza nel rassicurare il Paese, l’appello alla difesa della democrazia della campagna di Letta.

L’errore che rischia invece di lanciare un’ipoteca sul futuro del PD è stato consentire che il Movimento prendesse il posto lasciato vacante sul fronte sociale, finendo per creare, in un’inarrestabile eterogenesi dei fini, un nuovo soggetto di sinistra. Che oggi appare addirittura come l’unico. E questo anche grazie all’indebolimento della posizione di Letta da parte di tanti del suo partito che spingevano verso Conte, sottolineandone l’anima sociale.

Gli italiani hanno dimenticato le origini antiscientifiche, antipolitiche e indifferenti ai principi di sinistra dei pentastellati che si sono via via “purificati”, anche grazie al governo giallorosso, ma che prima hanno esercitato il potere con la destra più discriminatoria e falsificatrice che ci sia stata negli ultimi anni, quella dei respingimenti e della “Bestia” di Morisi. D’accordo, il Movimento è cambiato, ma fino a diventare, nella vulgata generale, come l’unico partito che difende le fasce sociali deboli? Non è stata una strategia, rivelatasi vincente, ma sempre strategia, la scelta di prendere un tema, il Reddito di Cittadinanza, e ripeterlo ossessivamente per tutta la campagna elettorale? Ci sarebbe da chiedere perché Letta non abbia fatto la stessa cosa, puntando, ad esempio, sui diritti, sulla scuola, sul lavoro, sulla sanità. Ha lasciato che tutti portassero avanti le loro battaglie ma lui non ne ha saputo indicare una che ne definisse la specificità dell’impegno elettorale. O meglio, l’ha individuata nell’antifascismo: ha sbagliato ma come avrebbero sbagliato in tanti come noi che continuiamo a credere che in fondo quello sia il valore più importante. Non lo è. Per la maggioranza degli italiani non lo è, è bene che se ne prenda atto.

Di sicuro, invece, la Sinistra ha perso il contatto, quello viscerale, di comunione intima, empatico con il popolo, e questo non è imputabile solo all’ultimo segretario: manca un dialogo continuo, non occasionale e sporadico nell’imminenza delle elezioni, con le famiglie che stentano ad arrivare a fine mese; con le periferie, il cui degrado disegna plasticamente la fragilità di un sistema sociale fallito; con i giovani che vorrebbero un lavoro stabile e si vedono nell’impossibilità di costruire un minimo progetto di vita; con gli studenti e i docenti che assistono al lento declino di quella che era la scuola del sapere libero e formativo ed è diventata la scuola dell’impresa; dei tanti bisognosi che non possono accedere a una sanità veramente pubblica, con liste d’attesa vergognose, in cui per un esame o una visita urgente sei costretto a rivolgerti agli studi privati e a pagare cifre indegne di un vero sistema di protezione sociale. Deve recuperare tale relazione – è questo è il dato più urgente se non vuole del tutto scomparire – ma è solo questo che ne ha determinato la sconfitta elettorale? Pensiamo alla vittoria della destra: la flat tax è una misura sociale? L’autonomia differenziata è un progetto che va incontro ai deboli? La pace fiscale è a favore delle fasce meno abbienti? Il sovranismo migliorerà le condizioni di vita degli italiani? Le posizioni euroscettiche risolveranno i problemi dei pensionati? Il blocco navale consentirà un aumento delle politiche attive del lavoro? L’abolizione del Reddito di Cittadinanza va incontro ai bisogni dei più indigenti? Eppure Meloni, che evidentemente rappresenta soprattutto la novità e con essa la speranza che qualcosa possa cambiare, ha saputo utilizzare soprattutto un linguaggio chiaro per convincere che sì, lei può rappresentare la svolta.

Resta, in casa PD, l’autoanalisi che è abituata a fare la sinistra a ogni sconfitta e che, nella rinnovantesi individuazione dell’agnello sacrificale, cui seguirà un ennesimo cambio di leadership, prova a trovare un po’ di quel sollievo che ogni espiazione di colpa si porta dietro. Forse dovrebbe macerarsi di meno e trovare risposte sociali più efficaci: in questo, restare lontano dalla logica governativa potrebbe aiutare a riflettere con mente più chiara e libera sulla propria identità e a riavvicinarsi a quel popolo delle cui istanze dovrebbe farsi concretamente portatrice.

(credit foto ANSA/ALESSANDRO DI MEO)



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